SCHEDE TECNICHE

Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro

per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.

Si ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso il

Tribunale di Bologna www.perito-arte-antiquariato.it

La scheda è stata curata dalla prof.ssa Gaia Santoro

I bronzetti

Le sculture di piccole dimensioni sono state apprezzate in ogni tempo, sia per uso decorativo, sia per uso rituale. Nell’antichità erano destinate principalmente ad un uso funerario, ma non mancano esempi di fini decorativi nelle dimore e persino di collezionismo. Del primo caso fanno parte tutti quei reperti restituitici dalle tombe, ad esempio egizie o etrusche. Del secondo caso, un’ampia testimonianza c’è pervenuta ad esempio dagli scavi di Ercolano e Pompei. Quanto al collezionismo citerò il caso di una collezione di bronzetti Urriti ritrovati in una tomba greca di oltre mille anni successiva, evidentemente sepolti insieme al collezionista che li aveva amati in vita. In linea di massima le fusioni delle sculture di piccole dimensioni erano realizzate a cera persa e in unico getto, ma già in quelle di misure più consistenti una prima differenza tra le statuette greche e quelle posteriori è costituita dal fatto che le prime, dal V secolo, sono fuse frazionate e poi le parti sono saldate; ma già in quelle romane e soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento tale tecnica va perduta e le fusioni tornano ad essere in una sola colata. Abituale poi la copia della statuaria antica, ritenuta modello insuperabile di bellezza. Quest’uso è già frequente fin dai romani e procederà fino ad oggi, potenziandosi dopo i ritrovamenti di Ercolano e Pompei. Sorge quindi il problema delle attribuzioni. In generale l’artista autore lavora con maggiore estro e libertà espressiva rispetto al copista, che tende inesorabilmente a mostrare maggiormente il suo virtuosismo, ad esempio, insistendo eccessivamente sui dettagli. Bisogna ricordare che era abituale esercitarsi nella copia dei grandi del passato, e che esistevano ed esistono botteghe specializzate nella riproduzione, anche in diversi formati, delle opere considerate iconiche, senza che tale attività debba essere considerata disdicevole. Il fascino dei bronzetti coinvolge non solo l’aspetto estetico, ma anche quello tattile, riguardante sia la superficie sia il peso, grazie alle dimensioni maneggevoli. Lo notavano sia Petrarca che Galilei, e un celebre antiquario scriveva: “I bronzi sono come le perle, […] poiché si prova un piacere fisico ad accarezzarli […], non si smetterebbe mai”. Per districarsi nelle attribuzioni è necessario considerare la tipologia della lega. Siamo abituati a chiamare tutti gli oggetti bronzi, ma non è assolutamente così. Sovente siamo in presenza di ottone ovvero di una lega di rame e zinco. La patinatura originale e quella acquisita nel tempo non rendono possibile riconoscere la lega a vista, ma ciò è oggi possibile con le moderne tecniche spettroscopiche. In alcune aree si utilizzava principalmente il bronzo in altre, come in Francia, l’ottone. Le leghe recenti sono molto pulite con nel bronzo solo rame e stagno e nell’ottone rame e zinco; in passato le leghe non erano così depurate, ma più sporche sempre con percentuali di vari metalli a seconda delle varie formule delle botteghe e della provenienza dalla cava. Dalla seconda metà dell’Ottocento i lingotti sono molto puri grazie alla tecnica elettrolitica. Anche l’analisi dei residui della terra di fusione ci aiuta nella datazione, ad esempio per evitare le fessurazioni e favorire l’uscita dei gas che si sviluppano durante la colata si mischiavano materiali, che bruciando lasciavano pori e aperture. Oltre alla paglia si mischiavano alle terre: in antico, peli animali e in età rinascimentale si preferivano le cimature di lana. L’esperienza e lo studio dell’antiquario e dello studioso resteranno sempre fondamentali per indagare lo stile e la qualità dell’opera d’arte, ma oggi grande aiuto arriva anche dall’indagine tecnica. Il falso si divide in due grandi tipi: quello grossolano, che sia l’esperto, che il tecnico facilmente possono riconoscere e quello più insidioso del falsario, ad alto livello, che potrebbe produrre non copie, ma opere nello stile dell’artista e ricorrere ad indagini tecniche tali da imitare anche la composizione dei materiali; e in questo caso è quanto mai necessaria la collaborazione di esperienza e tecnica, perché il falso come il delitto non è mai perfetto.

L’importanza della diagnostica scientifica si rivela insomma fondamentale per sostenere l’indagine del critico. Va però da sé che l’occhio di chi ha visto molto e studiato di più non potrà mai essere sostituito dall’apparato scientifico, si tratta semplicemente di aggiungere all’analisi stilistica e all’esperienza tattile, sempre fondamentali, il supporto delle nuove tecnologie. Un esempio su tutti: la conoscenza di quando un’opera è stata rinvenuta elimina di per sé la possibilità che la copia possa essere antecedente. Altro elemento evidente di datazione è l’esattezza assoluta della copia, che solo oggi con calchi siliconici e microfusioni è possibile realizzare senza interventi di cesello posteriori alla fusione. La fusione grezza presenta una superficie porosa ed irregolare. La pelle delle statue greche, etrusche e romane era sempre levigata con cura, dapprima con abrasivi a grana grossa e poi sempre più finemente fino alla pietra pomice. Il bronzo antico risultava liscio e lucido, col tempo si formava una patina scura, che poteva essere incrementata con puliture successive di morchia o di bitume. I romani ricorrevano anche a zolfo caldo per dare ai bronzi, spesso imitanti i modelli greci, una patina scura simile a quelli. Ben diversamente nel Medioevo e nel Rinascimento i bronzi erano scarsamente rifiniti e la patina era ottenuta con vere e proprie vernici, atte anche a coprire e mascherare la superficie grezza. Nel 1750 la scoperta dell’utilizzo del carbone fossile al posto di quello di legna rivoluzionò totalmente le tecniche di fusione. Intorno al 1830 il carbone antracite era utilizzato quasi universalmente. Con Luigi XV i nuovi appartamenti di ridotte dimensioni si arricchirono di oggetti di ogni genere. Il Neoclassicismo incrementò notevolmente la produzione di piccole sculture, principalmente in ottone, dedicate non solo a opere indipendenti, originali e copie, ma soprattutto destinate a decorare quelle più complesse, come: candelieri, orologi, alari, ecc. le fusioni di qualità tornano ad essere fuse frazionate e nelle parti più consistenti cave. In modo da ridurre i tempi di colata e lasciare maggior fluidità al metallo, che poteva così raggiungere anche i particolari più minuti, come ad esempio le dita o i capelli. Il frazionamento agevolava anche il compito del cesellatore, richiedendo la presenza di minori getti e più piccoli, da tagliare e limare. Anche il fonditore poteva ricorrere più agevolmente alla fusione diretta al posto di quella indiretta a cera persa, ad esempio per tutte quelle parti piane prive di sottosquadri, come le placchette, che soprattutto quando traforate permettevano una pulitura delle bave molto più agevole e curata. La separazione dei decori dalle superfici, cui saranno connessi, permetteva anche un maggior utilizzo di parti dorate lucide, non dorate ad ormolu. Le connessioni erano eseguite per mezzo di viti e dadi, invece che con saldature, che avrebbero richiesto un rischioso riscaldamento delle minuscole parti da unire. Il frazionamento diventa via via minore nel corso dell’Ottocento e questo rappresenta una misura non solo della qualità, ma soprattutto della datazione. L’introduzione della doratura galvanica porterà all’utilizzo di leghe a basso punto di fusione, come l’antimonio.

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