SCHEDE TECNICHE

Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro

per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.

Si ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso il

Tribunale di Bologna www.perito-arte-antiquariato.it

La scheda è stata curata dalla prof.ssa Gaia Santoro

Gli zolfi. Le impronte gemmarie tra XVIII e XIX secolo.

Giuseppe Antonio Aldini, cesenate (1729-1798) poeta, filosofo, grecista e numismatico valente, nelle sue “Instituzioni glittografiche”, pubblicate a Cesena nel 1785 così descrive gli zolfi: «Un’altra materia molto adattata per cavar bellissime impronte è il Zolfo, il quale convien che sia ben purgato, e puro: questo liquefatto con una porzione dimidiata di qualche colore a piacimento, come sarebbe il minio, la terra verde, il negrofumo, l’ocra, o cosa simile, e ben incorporato con tali colori si versa sopra una carta alquanto consistente, ed un poco unta con olio d’oliva, sopra la quale si distende il zolfo liquefatto; di questo se ne prende poscia quella porzione, che può bastare per fare un’impronta della grandezza della pietra, che volete rappresentare, si pone in un cucchiaio di ferro, o di ottone, e si fa lentamente liquefare una seconda volta, avendo sempre l’avvertenza di levare ogni sporcizia, o schiuma, che sopra vi apparisse; si versa poscia pian piano sopra la Pietra, che deve essere aggiustata o, in picciol contorno di piombo, o di cartoncino fermato all’intorno con un filo di ottone, affinché riceva la materia senza pericolo che si versi; e questa rappresa si stacchi destramente dalla Pietra… Fatte, che si sieno le impronte, se ne levano via le labbra, si tosano, si limano, e si dà loro una forma regolare. Per ultimo apparecchio si circondano con piccioli pezzi di cartone dorato sull’orlo, dove si trovano rinchiuse, come in una cornice, e che oltre a questa pulitezza, che loro procurano, servono ancora di riparo contra l’urto, e le rendono più durevoli. Se si hanno molte di queste impronte si dà loro ordine, e per poterle più comodamente considerare, s’incollano sopra a de’ cartoni, o sopra tavolette, le quali si ordinano, come tante cassettine in un picciolo armadio, come suol farsi delle medaglie.» (pp. 338-339, 343). Lo zolfo fonde a 112,8 gradi centigradi, basta la temperatura di una candela. Griselini, Francesco (1717-1784?). nel suo “Dizionario delle arti e de’ mestieri” così descrive la tecnica di prendere l’impronta di un cammeo: “bisogna aver della mollica di un pane, che sia poco cotto; si pigia fra le dita e si maneggia, e si rimaneggia in più riprese fino a tanto, che cominci a diventare pastosa; vi si frammischia allora una piccola quantità di minio, o di cadmio, s’impasta di nuovo e quando si ha ottenuto di renderla assai molle, ed arrendevole, vi si imprime il rilievo, che si leva via incontanente, e lo stampo si trova fatto, e molto ben formato; imperrocché questa pasta ha una specie di elasticità naturale, che fa ch’ella si arrendi senza lacerarsi; e siccome abbraccia un rilievo in tutte le sue parti, così si separa da esso senza formare alcuna resistenza … in poco tempo questa pasta si indura, ed acquista tanta consistenza, che diviene uno stampo capace di ricevere il gesso, o il zolfo liquido, che si vuole in esso gettare.”

La moda delle impronte, dette anche calchi, tratte da pietre incise o da sigilli divampò nel Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento, causata e contribuendo a causare il gusto neoclassico. Al punto che uno dei principali artigiani Franco Maria Dolce si lamentava che: “le altre che si vedono in giro sono copie de li nostri originali con l’acquisto in solfo delle nostre impronte e sopra de medesimi ne formano i gessi e sovra tali gessi ne gettano altro zolfo talché quel minuto quel spirito e vivacità, quale da fuori la pietra originale, e la pasta sunta dall’originale medesmo, rimangono affatto morte”.

Soprattutto a partire dal Settecento, le impronte hanno costituito uno degli strumenti principali per lo studio e la conoscenza della glittica e della sfragistica. Chiamasi glittica lo studio delle pietre incise e sfragistica quello dei sigilli, mentre non esiste un termine per descrivere lo studio delle loro impronte. Le impronte erano realizzate in vari materiali: in cera, in ceralacca, in zolfo, spesso sostituito alla fine del Settecento da un tipo particolare di scagliola bianca mescolata a volte con piccole quantità di zolfo, materiale più resistente che consentiva una migliore definizione dei dettagli dell’immagine. Come sottolinea Winckelmann: “un giovane che voglia istruirsi nelle arti del bello troverà un’occupazione piacevole e proficua nello studio sui calchi delle migliori pietre incise”.

Le impronte sono un mezzo di conoscenza degli originali superiore alle stampe e ai disegni, che spesso erano modificati, provocando anche involontariamente alterazioni, più o meno notevoli, della composizione. I disegnatori e gli incisori di tavole eseguivano con grande libertà la riproduzione delle pietre incise.

È estremamente difficile distinguere le impronte di opere antiche da quelle eseguite all’epoca su opere moderne. Di uno dei maggiori artisti del Settecento, Anton Pichler (1697-1779), l’archeologo danese Giorgio Zoega dice: “Non abbiamo nessun artefice in questo mestiere a lui equiparabile per quanto riguarda la grandiosità del disegno e la delicatezza nell’esecuzione. Molti dei suoi lavori furono persino dagli acquirenti esperti considerati come pezzi antichi, specie le teste, nella cui elaborazione egli giunse ad una tale perfezione da escludere quasi ogni criterio per distinguerle da quelle incise sulle gemme dell’antichità”. In quanto: “l’accostamento ai modelli imitati giunge al punto che è ben difficile distinguere ciò che è copia da ciò che è falsificazione (con firme di artisti greci!)”. L’ influenza dell’antico giunse al punto che anche i ritratti di personaggi contemporanei furono eseguiti alla maniera antica.

Le impronte sono oggi un valido riferimento per studiare raccolte e collezioni disperse e furono in passato il principale mezzo per la diffusione su larga scala di temi e motivi. Nel corso del Grand Tour, i viaggiatori potevano commissionare, ai laboratori degli incisori, come souvenirs personalizzati, intagli oppure calchi riproducenti in miniatura le antichità ammirate durante le visite a monumenti, ville, palazzi. Per rendere accessibili le gemme conservate in collezioni sparse in diverse parti d'Europa, era necessario un processo di riproduzione che consentisse a costi contenuti e in serie di copiare singoli oggetti identici all'originale. Oltre alle illustrazioni xilografiche, in alternativa si fecero le impronte, molto più accurate di un disegno bidimensionale realizzato con un doppio contributo dovuto alla mano dell'incisore grafico e al gusto del tempo.

Dagli anni Settanta del XVIII secolo, sulla scia dei ritrovamenti a Ercolano e Pompei, furono istituiti laboratori specializzati nella produzione di impronte sotto la guida di incisori di gemme, che cercarono di ottenere campioni di quante più gemme possibili per servire il crescente interesse; la grande richiesta è uno dei motivi dell’esistenza di tanti multipli, presenti anche nelle collezioni importanti. Le lacune nelle loro collezioni erano spesso colmate con copie fatte da loro stessi. Gli incisori di gemme, che aspiravano a una maggiore successo, mettevano sul mercato anche composizioni moderne all'antica, che competevano con i modelli antichi e sono difficilmente distinguibili dagli originali. I principali laboratori erano a Roma, ma anche a Venezia, a Firenze, a Milano, ecc. le impronte sono state conservate principalmente nelle dattilioteche, che erano in origine destinate a contenere le raccolte di gemme incise e di sigilli. Nuovi adattamenti pratici ed eleganti di daktytyliothekas sono stati creati per conservare le impronte fatte di gesso, zolfo e ceralacca combinando gli armadietti per gioielli e il formato dei libri. Il tipo più usuale sembra un libro, ma in realtà è una scatola portaoggetti. La parola latina è formata dalla combinazione delle parole greche anello daktylios e scatola théké e aveva nell'antichità due significati; indicava sia un portagioielli contenente anelli decorati con pietre preziose incise e sia in generale anche una collezione di sole pietre incise (gemme, intagli). La tradizione romana ne ha conservato la memoria dal I secolo a.C., anche per il fatto che i principali politici dell'epoca vi erano raffigurati, come Pompeo, Giulio Cesare, ecc.

Le Dactylotheques sono improvvisamente passate di moda alla fine del XIX secolo. Il cambiamento nella teoria dell'arte ha comportato l'apprezzamento delle opere originali a scapito delle copie artistiche. Inoltre, con il perfezionamento dei metodi archeologici, è risultato evidente che una parte significativa delle gemme antiche da cui si traevano le impronte erano di origine moderna. Con l'avvento della fotografia, l'esistenza e il valore delle dattilioteche sono stati a lungo dimenticati. Oggi con lo sviluppo delle tecnologie di imaging tridimensionale, assistiamo a un nuovo interesse per le collezioni di impronte, che sono considerate le migliori tecniche del passato di riproduzione. Oggi sono disponibili in vendita a prezzi modici repliche delle impronte storiche. Per la datazione si può ricorrere alla analisi dei materiali, come ad esempio quella dei cartoncini, che costituiscono le cornici.

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