TESTI

Questo saggio è stato pubblicato, corredato da foto nel testo, in “Arredi del Settecento”, edito da Artioli, Modena.

Dal capriccio alla linea, di Pierdario Santoro.

In questo breve saggio cercherò di gettare un’occhiata su tutto un secolo il Settecento. La mia personale carriera d’antiquario  influenza certamente il modo di affrontare gli argomenti, sia dal punto di vista storico, che da quello filosofico; e mi porta a porre un accento particolare sugli aspetti di vita pratica delle persone e sul loro modo di organizzare e di rapportarsi all’ambiente che li circonda. Per mia fortuna posso avvalermi della valida collaborazione di mia moglie Mara Bortolotto, che con i suoi studi accademici riesce a trasmettermi anche una visuale più vicina a quella tradizionale delle Belle Arti. Ritengo che la vita reale delle persone determini la loro cultura e la produzione artistica almeno quanto l’attività degli intellettuali d’ogni genere. Particolarmente in relazione a questo secolo, che ha visto nascere la “Società”, intesa come opinione pubblica comune a differenti ceti, contrapposta al potere del re, inteso come assoluta sorgente e regolazione d’ogni manifestazione sociale. Devo forzatamente trattare non solo della situazione italiana, ma anche di quell’europea ed in particolare della Francia, che in questo secolo è l’arbitra assoluta del gusto in Europa e particolarmente in Italia; perciò quanto detto per essa vale spesso anche per il Bel Paese.

Nessun secolo presenta mutamenti tanto radicali e profondi, quanto il Settecento. Esso si apre regnante Luigi XIV il re sole, la cui potenza appare addirittura superiore a quella dell’astro con cui fu identificato. La Francia è il suo re; immedesimazione superiore a quella dei romani con il loro imperatore. Non solo egli è l’arbitro della vita pubblica, ma come il sole permea di se anche quella privata. Dalle sue scelte  e dal suo giudizio dipende persino lo sviluppo dell’arte. La sua è ancor più che assoluta una monarchia totalizzante. La fine del secolo vede la morte sulla ghigliottina del suo erede Luigi XVI ed il termine della monarchia più antica d’Europa; la nascita di una società nuova progettata sull’uguaglianza e la libertà individuale.

Con la morte  del re sole si chiude un’epoca, finisce il Barocco.

Nell’avvicendamento degli stili non si assiste mai ad un passaggio netto, ma sempre ad una più o meno graduale trasformazione dei caratteri di uno nell’altro. Così già dalla fine del Barocco l’Arte Aulica il Grand Goût inizia a cedere il passo. Luigi XIV sotto l'influenza della Maintenon rinuncia, alla fine del suo regno, a gran parte di quella vita di corte, che ha reso Versailles il centro del mondo. Dall’ultimo quarto del Seicento con la perdita d’influenza di Le Brun comincia con la querelle des anciens et des modernes la contrapposizione tra progresso e tradizione e tra ragione e sentimento, che si concluderà con la nascita del preromanticismo. La Reggenza di Filippo D’Orléans segna una svolta nei costumi di corte. In Francia la corte si trasferisce da Versailles a Parigi, ma ciò non si realizza contemporaneamente nel resto d’Europa, dove al contrario si continuano ad edificare residenze extraurbane quali: il parco di Nymphenbourg, presso Monaco; il parco di Ludwinsbourg, vicino Stoccarda, ideato da Giuseppe Frisoni; lo Schönbrum, di Fischer von Erlach; l’Oranjenbourg, a Charlottembourg presso Berlino; il parco di Sans-souci, a Postdam, progettato dallo stesso Federico II, la palazzina di caccia di Stupinigi, presso Torino; lo Zwinger, a Dresda; La Granja, a Sant’Idelfonso presso Madrid; la reggia di Caserta.

La residenza del re viene spostata alle Tuillerie. Quella del reggente al Palais Royal, ove egli abbandona la rigida etichetta del Gran Goût per abbracciare lo stile parigino, disinvolto edonista e libertino. Egli inoltre tenta di ristabilire i diritti dell’aristocrazia e crea i Conseils, onde sostituire i ministri borghesi, imposti da Luigi XIV,  con dei nobili; ma dopo solo tre anni deve rinunciarvi per l’incapacità e l’ignavia di costoro, ormai troppo abituati a vivere senza impegni la vita di corte, cui li aveva assuefatti e costretti per anni Luigi XIV al fine di ridurli a semplici comparse del potere.

Durante il secolo aumentano solo apparentemente le distinzioni di ceto e s’irrigidiscono le divisioni di classe. In realtà la borghesia continua la sua inarrestabile ascesa e la stessa aristocrazia finisce per livellarsi sui gusti di essa e aderire sempre più fortemente alla sua cultura. Tutto il Settecento assiste alla lotta per affermare le distinzioni tra i ceti, divisioni che tuttavia diventano sempre più formali che sostanziali. Dalla metà del Seicento alla nobiltà restano solo la proprietà terriera e l’esenzione fiscale, mentre l’amministrazione della giustizia e la direzione della burocrazia passano allo stato ed ai suoi funzionari, quasi sempre borghesi. La progressiva svalutazione del denaro costringe i nobili a vendere i loro possessi fondiari a vantaggio principalmente della borghesia, portando la piccola nobiltà terriera alla povertà ed alla decadenza. Per contro la grande aristocrazia di corte, composta dalle così dette quattromila famiglie, consolida ricchezza e potere, essendole riservati gli uffici di corte, le prebende elargite dal Re e le alte cariche nell’Esercito e nella Chiesa (il cui accesso agli alti gradi fu precluso alla borghesia dopo il 1781). Nel Barocco è sempre presente la corrente classicista, ma solo a partire dal 1660 è in Francia che essa riesce ad imporsi. Con le due forme auliche del Barocco di corte e di quello di chiesa coesiste una corrente verista, che iniziatasi in area cattolica si afferma in Olanda.

Dall’inizio del Settecento sono già attuali quelle trasformazioni, che caratterizzeranno il Rococò. Scompare l’impostazione solenne e monumentale del Barocco, sostituita da una sensibilità più intima e leggiadra; passando da una progettualità grandiosa e solenne ad un gusto sensuale e edonistico.

Il Rococò resta arte sostanzialmente aristocratica, in cui il virtuosismo diviene il carattere principale a scapito dell’azione spontanea. Uno stile in cui l’esteriorità e la convenzione spesso prevalgono sulla capacità espressiva, anche se ciò non avviene mai a scapito della qualità. Esso incarna alla perfezione l’autocompiacimento dell’aristocrazia detentrice del potere, ignara del crescere di un’opposizione sempre più forte ed agguerrita, o consapevole inconsciamente dell’inevitabile vittoria della borghesia. Per tutto il Settecento con il termine barocco non si designa lo stile di tutto un  secolo, ma si criticano le manifestazioni più disordinate ed eccessive ed i caratteri più irrazionali e privi di logica della corrente classicista: in architettura le colonne a se stanti, che non reggono nulla, le facciate, i cornicioni e gli architravi ricurvi come se fossero di gomma; in scultura il carattere illusionistico e le superfici trattate come dovrebbero esserlo solo nella pittura; in pittura la movenza delle figure atteggiate come in una recita e l’illuminazione improbabile ed artificiale. L’alternanza di Barocchismo e di Classicismo, di libertà espressiva e di regolamentazione artistica, di capriccio e linea è intrinseca allo sviluppo. Senza contrasto e superamento non può esistere evoluzione, ma solo stasi. Questo mutare delle espressioni culturali dell’uomo è strettamente collegato al cambiamento delle sue stesse condizioni materiali. Tale cambiamento non può nascere senza una cultura che lo sostiene e lo esprime. Non esiste un secolo descrivibile unitariamente, perché in cento anni coesistono e si alternano differenti gruppi sociali con motivazioni ed espressioni artistiche diverse.

Tuttavia quando parliamo di movimento che privilegia la linea o di quello che sceglie il capriccio non dobbiamo pensare a delle chiusure rigide, ma a dei recinti con maglie larghe. Mentre penso a questi concetti, mi trovo al mare in una delle spiagge riminesi e mi è sorto spontaneo questo paragone. Il Classicismo è come l’ombrellone, non siamo obbligati dal sentire comune a porci all’ombra di esso, possiamo anche sdraiarci al sole, ma siamo considerati indisciplinati e criticabili se usciamo da uno spazio che l’ombrellone idealmente delimita; per il Barocchismo esiste la spiaggia libera.

Dalla rivoluzione copernicana in poi non è più possibile rinchiudere l’arte in una visione  deterministica. L’uomo non si sente centro della creazione, ma parte di essa; non vive l’esistenza come attesa del giudizio divino, ma sente la potenza proteiforme della creazione.  Anche l’arte è partecipe di questa soffio vitale e nel Barocco ogni opera ed ogni sua parte cercano di esprimere l’anelito all’infinito. Le linee spezzate, gli scorci prospettici, la luce proveniente da qualsiasi direzione, tutto tende a portare l’osservazione verso l’infinito.

Con Bernini finisce il tempo dell’artista universale. Adeguandosi allo spirito del tempo il mestiere artistico si modernizza, nasce nel Settecento l’Estetica. Tale termine fu coniato dal filosofo tedesco Baumgarten, seguace di Lebniz e di Wolff, traendolo dalla parola greca aìstesis, in altre parole sensibilità,  sensazioneNella “Estetica” del 1750 egli la definisce come la scienza della conoscenza sensibile; i  suoi oggetti privilegiati sono: l’eloquenza ed il bello.

L’arredamento assume un’importanza mai avuta in precedenza, ed a volte superiore alle stesse arti figurative ed all’architettura, giungendo a fungere da valore guida. Gli stili non coincidono esattamente con i re di cui portano il nome.

Con il Settecento l’arte non vuole più meravigliare, ma attrarre e dilettare. Si realizza il passaggio dalla grande manière alla douceur de vivre; dall’austero Le Brun al sensuale Watteau; da Poussin a Tiepolo, fino all’erotismo di Boucher; ed in letteratura da Laclos a Crèbillon, ed a Restif de la Breton. Il Rococò esprime una cultura mondana in cui bello ed artistico sono sinonimi ed il principio di bellezza diviene un concetto assoluto.

Al Rococò ed al Neoclassicismo si affianca un terzo movimento, il Preromanticismo. Tutta l’arte del Settecento possiede un respiro europeo, che porta alla sua immediata diffusione. Questo riguarda anche i realisti eredi di Caravaggio  e di Rembrandt; i poveracci ed i diseredati raffigurati nelle scene di genere sono simili ovunque. Solo le vedute restano in parte legate ad una scuola locale per la loro caratteristica. Nel Seicento tutto, anche l’arte, era finalizzato alla persuasione: in campo religioso ad accettare i valori della controriforma; in campo politico quelli dell’assolutismo. Nel Settecento, contrariamente ai secoli precedenti, non è possibile una netta distinzione tra arti maggiori ed arti minori.

Il Rococò impersona il gusto dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, che realizzano gran parte della produzione edile con la costruzione di hôtels e petites maisons, al posto dei castelli e dei palazzi edificati dal re nel Seicento. E’ uno stile, che predilige i boudoirs dalle delicate tinte pastello, ai solenni saloni di rappresentanza. Anche nei confronti della Reggenza questo stile si presenta decisamente più delicato, capriccioso, vivacemente mosso, ma di una leggiadria che racchiude ed ispira intimità. Certo nel confronto con l’arte barocca: soverchiante, senza freni, eccessiva, straripante; il Rococò può apparire di una tal minuta delicatezza da sembrare gretto ed insulso. Eppure quando vediamo il tratto sicuro ed arioso di un Tiepolo e di un  Francesco Guardi, l’indagine naturalistica di Fragonard, la malinconica sensualità di Watteau, allora sentiamo il respiro distendersi e rallegrarsi lo sguardo. Con esso si afferma quel principio di libertà dell’artista, quel valore dell’indagine naturalistica, che porta all’obiettiva e realistica raffigurazione, scevra del limite, della regola, della norma. Proprio questa libertà coloristica, questa tecnica impressionistica, segna la nascita del sentimentalismo ed aprono la via al Preromanticismo borghese. Così un’arte per se stessa aristocratica si colloca tra la grevità del Barocco ed il sentimentalismo del Romanticismo ed a causa della naturale quanto inevitabile evoluzione dei suoi mezzi espressivi prepara il suo stesso superamento. L’affermazione della borghesia porta con se nuovi ideali: l’individualismo, legato all’iniziativa personale; il concetto nuovo di proprietà intellettuale; la ricerca costante dell’originale; il sentimento contrapposto alla regola razionale. Durante questo secolo si assiste alla trasformazione più radicale mai prima verificatasi. Il passaggio del potere dall’aristocrazia alla borghesia e parallelamente nell’arte dal prevalere della decorazione, a quello dell’espressione.

Tale passaggio è realizzato grazie al progressivo abbattimento dei canoni aulici sia da parte di Rousseau, Greuze, Hogarth, Richardson con la loro critica sentimentale e naturalistica, sia da David, Mengs,  Winckelmann, dal versante classicista e razionalista. Passaggio realizzatosi in Inghilterra prima che in Francia, ma in tutta Europa l’ideale puritano, d’operosa onestà e di semplicità, trionfa e prepara la Rivoluzione e la vittoria definitiva della borghesia. La critica all’accademismo ed all’ideale classico, eterno ed immutabile, è contemporaneamente critica al potere assoluto voluto da Dio. Durante la Reggenza decade la Grande Manière. L’Accademia sa adeguarsi alle mutate esigenze e si mostra in generale piuttosto liberale. Essa rimane arbitra del Gran Goût, ma ormai pochi artistici ne seguono i principi, e per essere ammessi non è obbligatorio accettarli. L’iscrizione è libera e tutti i grandi artisti ne fanno parte. Essa si limita a classificare le scenette galanti e quelle pastorali tra i petits genres.

Cadono in disuso sia il grande quadro storico, utilizzato principalmente a fini propagandistici; che quello sacro, già da qualche tempo divenuto un espediente per dipingere il seguito reale. Il ritratto diventa una forma d’arte molto diffusa anche tra la borghesia. Nel 1704 al Salon ne sono esposti duecento, nel 1699 erano solo cinquanta. Watteau e le sue fêtes galantes s’impongono ed egli si sostituisce nel favore del pubblico al pittore di corte Le Brun. La critica d’arte fino al Settecento era concepita come storia delle vite degli artisti, al cui interno si trovavano anche alcuni giudizi sul loro operare. Con i salons nascono i resoconti critici (il primo è quello di La Font de Saint-Yenne del 1747); in essi si esprimono pareri sulle opere e si riporta il giudizio del pubblico. Diderot scrive sui salondal 1759 al 1781, più da giornalista, che da critico d’arte, ma nei suoi giudizi è evidente l’importanza  dell’opinione pubblica, alla cui formazione partecipano gli stessi artisti. L’ideologia illuminista rende possibile una critica d’arte con il carattere dell’attualità. La fête galante è sempre anche festa campestre ed è in questo ritorno all’Arcadia che si esprime il desiderio di una vita lontana dagli impegni dell’etichetta di corte in cui far coincidere civiltà, bellezza e spiritualità, con la natura. Come ho già scritto nel libro “Arredi dell’Ottocento” l’Arcadia nel Settecento è soprattutto un artificio, che consente l’evasione dalla realtà in un mondo ideale fittizio. Per non ripetermi rimando il gentile lettore a quelle pagine.

L’erotismo è componente fondamentale del genere pastorale e nei petits genres ed in pittura perdura per quasi tutto il secolo; mentre nel romanzo rimane una tendenza minoritaria. Naturalmente chi non conta su commissioni pubbliche deve forzatamente rivolgersi ai petits genres.

Verso il 1680 inizia a contrapporsi allo stile aulico ed accademico, alle pose grandiose, una concezione più individualistica, più libera ed intima, che si dirige principalmente contro il classicismo, piuttosto che contro il barocchismo dell’arte aulica. L’aristocrazia antimonarchica e l’alta borghesia a partire dalla Reggenza si alleano nel rinnovamento del gusto; che tuttavia evolve rapidamente nello stile aristocratico-aulico del Rococò. Stile avverso ad ogni aspetto regolare e geometrizzante, sempre più incline all’improvvisazione ed al colpo d’occhio. Mai dal Medioevo l’arte è stata così artificiosa, complicata, lontana da ogni ideale classico.

Il Rococò esprime una tensione che riesce a dominare la forza centrifuga impressa alle forme. Ciò è reso possibile solo dal talento di un’artista ed allora l’opera riesce a comunicare questa sensazione di tensione e di forza, come di molla pronta a scattare, trattenuta dall’armonia della composizione. Quando manca il talento si perde ogni grazia e prevale la forza centrifuga, che disaggrega le forme e le rende solo disordinate. È uno stile che, per essere artistico, richiede grandi capacità e talento.

Il Rococò segna il passaggio rivoluzionario al vaglio della ragione e del dubbio sui grandi valori passati. S’infrange la barriera tra il mondo dello spirito e quello dei sensi. Predomina l’edonismo sullo spiritualismo, il piacere estetico ed erotico sugli ideali etici ed eroici. Fino al prevalere delle “sfere inferiori” su quelle “superiori”. Esso tocca vari aspetti del costume e vede imporsi l’intimo sul dignitoso; segna l’avvento della bergére, della comode, della chaise longue. Con il sovvertimento dei valori, l’affermazione delle qualità inferiori si nobilita. Nella pittura soprattutto in quella di genere con Boucher, Watteau, Fragonard, trionfa la così detta pittura dei seni e dei culi. La dolcezza della vita è in sostanza quella delle donne. L’amore si trasforma da passione ed istinto in consuetudine, regola di vita, esercizio stanco di un’attività normale. Il nudo diventa abituale ed ovunque è rappresentato in tutte le sue forme. Questa arte si rivolge ad aristocratici gaudenti e sazi, alla ricerca di nuovi stimoli, sostituisce alle opulente e mature donne rubensiane tenere fanciulle ancora adolescenti. Da Tiepolo a Günther di Baviera, ritroviamo nella figure stesse dei santi e delle sante i caratteri delle dame e dei cavalieri incipriati. L’arredamento impone una visuale domestica ed imprime la sua visione edonistica ed erotizzante tipica degli arredi alla pittura sottomettendola alle sue esigenze. Anche dove il nudo femminile non è espressamente rappresentato è in ogni caso presente un erotismo latente, persino negli ambienti destinati ad alti prelati. Boucher acquisisce un’influenza tale da caratterizzare la produzione artistica di un’epoca; come solo il pittore di corte Le Brun aveva potuto vantare. Alle categorie artistiche: architettura, scultura, pittura, si aggiunge la decorazione. “Si modifica con ciò la concezione figurativa: essendo eletto a motivo dell’opera un principio di decorazione e non più la realtà, la decorazione s’identifica con l’espressione artistica, con la forma, nella più rigorosa concezione dell’arte per l’arte. Questo scambio, nell’ambito delle categorie, avrà come contropartita lo scomparire della decorazione; dopo il Rococò non esiste più la decorazione vera e propria, essa è venuta dissolvendosi in questi aspetti rococò come oggetto stesso di figurazione”. H. Sedlmayer-H. Bauer, voce Rococò dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma, 1963, vol. 11, col. 636.

Se ciò è valido per la pittura, sia come elemento della rappresentazione, che come  elemento del soggetto pittorico; ancor più nell’architettura esso tende a conformare alle esigenze dell’arredamento la struttura interna stessa. In generale la novità del Rococò riguarda gli interni, che si adattano totalmente alle esigenze della decorazione, introducendo ad esempio ampie finestre necessarie all’ingresso di grandi quantità di luce, secondo le esigenze del nuovo stile. Particolare curioso a volte le lastre di vetro difettose sono utilizzate per le finestre dove la luce le maschera in parte. La porta finestra sarà adottata alla fine del secolo. All’esterno sostanzialmente si continuano le linee interpretative del Barocco per passare direttamente al sentire Neoclassico. Anche dove le linee orizzontali concave e convesse e quelle per piani verticali connotano le architetture, si tratta in ultima analisi di una riduzione degli spazzi e dei volumi sostanzialmente ancora barocchi. Così è per il Barocchetto italiano. In molti casi, tipico esempio Bologna, le facciate dei palazzi non vengono toccate e s’interviene esclusivamente negli interni, riducendo gli scaloni alla cui sommità discrete gallerie sostituiscono gli immensi atri. Si richiedono quei “ricercati agiamenti” descritti dall’Algarotti, modificando e rimpicciolendo a misura d’uomo le stanze private, piuttosto che gli ambienti di rappresentanza.

 

I principi di convenienza e di distribuzione.

Fondamentale è l’influenza del professore d’architettura Jacques François Blondel, che nel trattato “De la Distribution des Maisons de Plaisance et de la Décoration des Edifices en general » in due volumi del 1737-38 illustra come pianificare la decorazione di una costruzione moderna. Egli ha redatto anche gli articoli dell’Encyclopédie concernenti l’architettura.

Sorgono due nuovi concetti: quello di convenance (convenienza) e quello di distribution, (distribuzione) nel senso di disposizione degli ambienti. Il primo impone che ogni ambiente sia organizzato secondo la destinazione d’uso. Ciò comporta la necessità d’ambienti con caratteristiche dissimili gli uni dagli altri, al contrario dell’esterno, che invece richiede una certa uniformità. Da tale assunto la distribution diviene una nuova forma d’Arte. Gli arredi hanno un loro preciso significato, solo in relazione alla loro collocazione. La decorazione, nella “vaghezza”, degli ornamenti, attraversa, congiunge ed armonizza i generi e le funzioni. La “vaghezza”, ecco il termine descrittivo che meglio si adatta allo stile. Ad esempio un’invenzione ornamentale tipicamente locale come la mascherina sorridente bolognese, trionfa, in quell’ambito, ovunque: dagli archibugi d’Ercole Lelli, alle cantorie  disegnate dal Torreggiani, ad ogni tipo d’arredo, sia esso un laico canapè od un’ecclesiastica sagrestia. I ricci compaiono dappertutto ad uniformare la decorazione, siano il culmine della capigliatura di un aereo putto o la cimasa di una leggiadra sedia; fino a diventare forma strutturale, come nella splendida scala a ventaglio costruita, nella mia Bologna, per il senatore Cesare Malvasia da Carlo Bibiena nel 1750.

La decorazione dei soffitti passa in parte di moda, perché più difficilmente organizzabile con la decorazione complessiva dell’ambiente, che spesso si ferma alle sovrapporte ed alle lunette di raccordo tra le pareti ed i soffitti.

Si giunge ad una divisione e specializzazione delle arti, in cui la decorazione e la struttura arredativa dell’ambiente riducono e sottomettono ai loro fini la scultura e la pittura secondo appunto il principio di “convenance” vale a dire di destinazione. Le pitture alle pareti sono solo di genere decorativo e la pittura da cavalletto è relegata alle pinacoteche. Anche il paesaggio classico d’Annibale Carracci, dell’Albani o del Domenichino cede il posto in Italia alla grande tempera murale inserita nella parete in una cornice di stucco. Eseguita con soggetti antinaturalistici di paesaggi improbabili ed immaginifici, con colori inverosimili; che anche quando sembra di riconoscere qualche luogo preciso, sempre vi appare qualche elemento in più: una cascata, una rovina, un ponticello; personaggi di “maniera”, inseriti in paesaggi di “maniera”.

La riduzione degli spazzi a maggiore misura d’uomo e la loro destinazione ad un utilizzo pratico, porta a prevedere la collocazione dei mobili contemporaneamente od addirittura prima di quella dei dipinti. Le boiseries ricoprono interamente e con continuità le pareti, utilizzando diversi materiali: legno, arazzi, quadri, carte dipinte, specchi, ecc. Esse erano realizzate dagli stessi artefici della mobilia. Oltre allo scopo ornamentale il rivestimento dei muri assolve la funzione di coibentazione degli ambienti, sempre piuttosto freddi e malamente riscaldati. Per mezzo di cornici si riquadrano le porte, le finestre, i camini ed il mobilio. In questi elementi fissi s’introducono i pannelli decorativi, che possono essere realizzati: con legno pieno intagliato;  con elementi riportati; con  dei telai su cui sono montate le stoffe, le carte dipinte ed i quadri. Tali pannelli sono rimovibili in modo da potersi sostituire agevolmente sia per la pulizia ed il restauro, sia per il cambiare della moda.

Gli ambienti tradizionali sono impoveriti di rappresentanza, ma arricchiti di comfort. Dalla Reggenza si costruiscono nuovi locali con destinazioni specifiche: salotti per il ricevimento, sale da musica e da conversazione, studi, biblioteche, boudoir. Nel 1740 compare la sala da pranzo destinata esclusivamente a tale uso. In Francia generalmente si colloca il tavolo da pranzo smontabile in un’anticamera, da cui, appena terminato il pranzo, ci si ritira per conversare in un’altra sala. In Inghilterra al contrario si ritirano le donne e la conversazione riprende tra gli uomini. Tale differente abitudine è attribuita da Robert Adam all’attitudine inglese di discutere di politica in ogni occasione ed alla differenza di clima, che induce a rimanere più vicini alla bottiglia. Un viaggiatore francese si meravigliò molto che quando le donne si erano ritirate, gli uomini si alzassero da tavola ed utilizzassero per i propri bisogni tranquillamente davanti a tutti un vaso chiuso posto in un angolo della sala da pranzo, senza interrompere la conversazione. 

Bérain e Le Pautre, già attivi sotto Luigi XIV, sono tra gli iniziatori del nuovo stile. Abbandonano i rivestimenti di marmo per ricoprire le pareti di boiserie, di stucchi, di stoffe e di dipinti, che si armonizzano con il mobilio.

È uno stile di transizione e presenta mischiati elementi del vecchio e del nuovo. Sempre durante questo momento di transizione si evolve lo stile rocaille, ispirato ad una più libera interpretazione della natura. Così chiamato dall’adozione della caratteristica conchiglia, quale fondamentale elemento decorativo. Già dal 500’, ad esempio nel modo di progettare le fontane, come nella più famosa di tutte quella di Trevi, si era affermato un certo gusto per le grotte. L’introduzione dell’asimmetria è il vero connotato della rocaille, soprattutto nei mobili.

In Inghilterra non si assiste alla diffusione del Rococò, ma alla nascita autonoma dello stile  neopalladiano; che si rifà direttamente al grande architetto veneto e ricrea, nel ben diverso clima inglese, le architetture classicheggianti, nate per la ben più soleggiata Italia. Il primo esempio è la costruzione di Wanstead House, progettata da Colin Campbell per il banchiere sir Richard Child nel 1720. Tale stile rimane in voga fin verso il 1750. Gli interni sono arredati ispirandosi agli ambienti italiani della fine del 500’; non esistendo indicazioni per l’arredamento negli scritti del Palladio. Questo stile non ha praticamente seguito in Europa, influenzata dagli stili francesi, ma conosce notevoli emulazioni nelle colonie e soprattutto in America. La borghesia, già affermatasi in Inghilterra, è comunque attaccata al classicismo, che sente più vicino alle sue concezioni razionali, e non favorisce l’attecchimento dell’aristocratico stile francese. I tentativi di costruzioni rococò vedono l’inserimento dei motivi decorativi su strutture neopalladiane, con effetti quantomeno poco riusciti. Egualmente anche gli interni esprimono un rococò disunito e poco convincente.

Lo stile Luigi XV porta il nome di questo re, anche se le principali artefici furono donne. Cominciando da  Madame Du Barry a Madame De Pompadour, che fa edificare il castello di Crèsy, quello di Champs en Brie e quello di La Celle, il suo Hotel di Versailles e quello d’Evreux; e gli ermitages di Versailles, di Compiégne e di Fontainebleau; ed a tutte le altre preziose, che affermano il gusto di mezzo secolo nei loro raffinati salotti e con le loro ordinazioni ai maggiori artisti dell’epoca. L’impronta femminile è evidente anche nella costruzione delle residenze da diporto, che conservano ovunque in Europa la terminologia francese: ermitages, bagatelles, monbijou, sanssoucis, favorites, monrepos, ecc.

I colori sono tendenzialmente chiari sia alle pareti, che nelle laccature dei mobili. Trionfano i bronzi dorati e quelli argentati, che saranno il connotato del secolo. Le finestre come abbiamo detto arrivano fino a terra con dimensioni mai viste prima per inondare di luce gli ambienti ed a tale scopo anche i parapetti in muratura sono sostituiti da balconi di ferro battuto. Grazie a questi elementi la decorazione, che pur rimane massiccia, perde quel senso d’oppressione del Luigi XIV. Ad alleggerire la percezione, che abbiamo di tali ambienti, contribuisce un elemento caratteristico di questo stile, la riserva. Ovunque, dalle pareti al mobilio, sono presenti incorniciature di spazzi vuoti o pieni. La riquadratura sia essa di stucco o di bronzo dorato, di tappezzeria o dipinta, disegna in ogni caso uno spazio. Lo spazio è utilizzato quale elemento morfologico di decorazione,  presente tra i montanti degli schienali, come tra i braccioli e le sedute; reso vibrante dalle gole scolpite negli elementi curvilinei, che lo delimitano e di cui esso stesso fa risaltare le ardite giravolte e l’eterea spazialità.

Nel Rococò sono utilizzati molteplici elementi decorativi, non solo d’origine naturalistica, come: palmette, foglie d’acqua, rosette, foglie d’acanto, conchiglie di sagoma irregolare, scimmiette, delfini, ali di pipistrello, ecc. Ma anche altri originali o ripresi dal passato, come: perle, ovuli, losanghe, spirali, e tutto il repertorio classico delle grottesche, delle candelabre, ecc. Rispetto al Barocco, in cui la composizione è frutto di un progetto intellettualistico, ora tutto risulta splendidamente amalgamato in un’unitaria armonia, dettata da un gusto sicuro sentito come appartenente ad una comune sensibilità. La sovrapposizione d’elementi apparentemente disparati, crea contiguità, non accozzaglia. L’imitazione Ottocentesca si distingue e si riconosce perché eclettica, vale a dire creata per aggiunte ed apparentamenti, che avvicinano gli elementi senza riuscire, nella maggior parte dei casi, ad amalgamarli. Nel Rococò si crea l’opera, nell’Eclettico la s’imita.

Lo spirito mondano del tempo traspare dalle opere, che possono sembrarci frivole, ma sempre piacevoli.

 

Il Neoclassicismo.

 Il Neoclassicismo si contrappone al Rococò, ma in una prima fase, più che con una rottura drammatica, ciò avviene in modo morbido, per assorbimento e dissoluzione dello stile precedente. Al di là di ogni altra contrapposizione formale o filosofica, il connotato saliente di tale contrasto risiede nell’adozione della linea come abito mentale, guida ed orientamento, presupposto ad ogni attività artistica. Se in architettura ciò appare evidente, è nel mobilio che troviamo la massima caratterizzazione di tale principio. Qui materialmente la produzione acquista caratteri nuovi. La borghesia sostituisce i propri valori a quelli dell’Ancièn regime, liberando l’arredo dalla collocazione e dandogli valenza autonoma. L’arredo, secondo un concetto moderno, può adattarsi ad ogni ambientazione, persino con stili differenti; è prodotto per soddisfare un criterio di gusto codificato internazionalmente, permettendo di seguire le scelte più personali. Il principio di convenance cade perché inutile, ora che la produzione non si affida più all’invenzione ed al capriccio, ma ad ideali assoluti, cui è obbligo conformarsi. Nel Settecento permangono connotati regionali, che permettono l’immediata riconoscibilità e localizzazione del prodotto artistico, che continua a mostrare le influenze culturali territoriali, nella forma, ed ancor più nell’utilizzo dei materiali. Con l’unificazione dell’Impero, la maggiore uniformità politica e culturale, unita ad uno scambio facilitato d’artisti e materiali, porterà ad un’omogeneità maggiore dei prodotti artistici. Con l’avanzare dell’Ottocento e l’affermarsi dell’industrializzazione, l’uniformità della produzione diventerà la regola, imposta dalle necessità della sua standardizzazione.

A partire dalla metà del secolo inizia la reazione all’imperante Rococò. Con il Neoclassicismo, il ritorno agli ideali classici è radicale  ed il rifiuto del Rococò programmatico. Ricollegandosi al classicismo barocco annovera tra i suoi primi esponenti: Cochin, Gabriel e Soufflot, che crescono sul terreno di una cultura ancora aulico-aristocratica; ma ben presto la direzione passerà ai nuovi ceti emergenti espressione della borghesia.

Il Primo Neoclassicismo nasce sia dalla reazione alle esasperazioni rococò, che dalle motivazioni politiche della nascente borghesia, ma è soprattutto debitore dell’ispirazione classicista nata nei salotti e presso le gran dame.

Nel Neoclassicismo distinguiamo nettamente tre fasi, in un’evoluzione continua l’una dall’altra.

La prima è una fase di transizione, che tra il 1750 ed il 1780 vede nascere lo stile Luigi XVI, fase che potremmo definire del rococò-classicheggiante, in cui coesistono in un carattere ibrido ed eclettico, forme rococò e classiche; tipico esempio l’architettura, in cui a facciate classicheggianti corrispondono interni rococò. Prevale la noia e la stanchezza per tutto ciò che d’eccessivo il Barocchetto, com’è chiamato in Italia, andava producendo. Il desiderio della semplicità classica predomina, divulgata dalle migliaia di stampe circolanti, per altro senza che nessuno sapesse appieno in che cosa consistesse esattamente questa semplicità classica. Questo eclettismo corrisponde alla mescolanza del pubblico, in cui collaborano ed interagiscono strati differenti della popolazione. In generale il Neoclassicismo agisce in questa prima fase solo come elemento di discussione polemica, restando il gusto predominante rococò. Mai come in passato queste tendenze sono influenzate dal rinnovato contatto con le antichità, appena riesumate di Ercolano e Pompei.

La seconda fase fino alla Rivoluzione vede allearsi contro il Rococò il Neoclassicismo ed il Preromanticismo. Con Winckelman l’ideale di “nobile semplicità e tranquilla grandezza” s’ispira alla linea chiara, semplice, pura, all’armonia, all’ordine, alla regolarità. Il vuoto virtuosismo, l’artificio, la finzione del Rococò sono sempre più considerati abbietti, morbosi e contro natura. Tradizionalmente s’imputa agli scavi archeologici lo stimolo determinante in direzione del Neoclassicismo, ma è altrettanto vero il contrario, che tale interesse archeologico è favorito dal mutato clima neoclassico. In realtà il classicismo, mai completamente sopito, trova conferma ai suoi ideali nella realtà viva delle dimore romane riportate alla luce. La novità del Neoclassicismo risiede nella sua inconciliabile opposizione al moderno, allora rappresentato dall’imperante Rococò.

Gli scavi di Ercolano e di Pompei contribuiscono alla nascita del Neoclassicismo dando corpo reale ai modelli finora astratti delle regole tramandate da Vitruvio e Plinio. Finalmente si può ricorrere ad un nuovo patrimonio di modelli della classicità. Già si configurava una forte corrente classicista nei Carracci, in Domenichino, Albani, Guido Reni, e poi in Nicola Poussin ed in Carlo Maratta; nella biografia di quest’ultimo, morto nel 1713, il Bellori ravvisa in tali pittori l’incarnazione dell’idea del bello superiore alla natura, contrapposta ai capziosi formalismi dei manieristi ed alla corruzione del Barocco. Un quadro come “il Parnaso” di Raffaello Mengs non sarebbe stato possibile senza i precedenti del Domenichino e dell’Albani, nel momento del trionfo di Boucher e di Fragonard. Se il maggior contributo alla lotta degli Antichi sui moderni appartiene alle riflessioni teoriche di Winckelmann, in “I pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura” del 1756 e nella “Storia dell’arte antica” del 1768; altrettanto importanti ed anticipatori sono gli scritti del canonico De Gordemoy, che nel “Nouveau Traité de tout l’Architecture” (scritto tra il 1706 ed il 1714) difende la ragione contro l’ignoranza e la preoccupazione per i difetti ed il cattivo gusto dell’arte barocca. Seguono il “Saggio sopra l’Architettura” del 1756 del conte Algarotti, in cui si accolgono le teorie di Carlo Lodoli sull’architettura razionale e funzionale. Poi del matematico Paolo Frisi il “Saggio sull’Architettura Gotica” del 1766, in cui si esalta l’idea della magnificenza e della semplicità, che gli architetti greci e romani esprimevano nell’uso esclusivo delle line rette e circolari, per un risultato di semplicità geometrica.

Intorno alla metà del secolo si diffonde, come accennato, un diffuso spirito archeologico rianimato dagli scavi di Ercolano prima e di Pompei poi. Ad Ercolano gli scavi eseguiti in galleria sono condotti dal 1738 al 1765; da tale anno proseguono solo quelli di Pompei, realizzati a cielo aperto. La possibilità di poter finalmente vedere alla luce naturale gli ambienti e le decorazioni classiche è uno dei motivi, che spiega la maggiore diffusione e precisione archeologica dell’ispirazione neoclassica ai motivi pompeiani a partire da tale data.

La visita in Italia dell’architetto Souflot e dello scrittore-incisore Cochin al seguito del fratello della marchesa de Pompadour de Marigny nel 1748, inaugurano la moda del Gran Tour, giro turistico comprendente la visita alle sedi più prestigiose dell’arte classica, sia l’antica greco-romana, che la moderna con Raffaello e gli altri grandi del Rinascimento. Meta privilegiata era forzatamente Roma. Questo viaggio conclude la formazione culturale comune, sia agli artisti, che al pubblico dei conoscitori. Già lo Shaftesbury nel 1713 pensa di trovare nell’arte greca quella perfezione, che non ravvisa in quella contemporanea, condannando l’architettura gotica, la pittura olandese, la farsa italiana e la musica indiana ed esaltando le proporzioni degli antichi, gli ordini corinzi e ionici. Lo stesso Blondel critica già  nel ’37 gli eccessi decorativi del Rococò.

Lo stile Luigi XVI non porta solo il nome di questo regnante, ma s’identifica con i Borboni e non sviluppa la minima critica alla struttura del potere. Certo accoglie le istanze di razionalizzazione ed in parte di semplificazione proprie dell’Illuminismo, ma non accoglie le esigenze eroiche, stoiche e moralizzanti della borghesia rivoluzionaria. Esso rimane stile della nobiltà dell’Ancien Regime. Intorno al ’60 le società erudite inviano degli architetti ad eseguire misurazioni delle opere antiche, che portano a chiarire le proporzioni, la scala e le dimensioni reali dei particolari decorativi, in contrapposizione alla visuale piranesiana intrisa di barocchismo e d’interpretazioni irreali; da questi rilievi scaturisce la pubblicazione nel 1758 di “Ruines des plus beaux Monuments de la Grèce” di Le Roy e nel 1762 di “Antiquities of Athens” di James Stuart e Nicholas Revett; che imprimono nuovo impulso all’interesse per l’antico.

Le innovazioni principali sono costituite dal ritorno alla simmetria e dalla scomparsa della linea sinuosa; resta la linea curva, ma concepita geometricamente quale: arco, elisse o losanga. Al rigore della linea sfuggono solo gli elementi decorativi stilizzati di tipo mitologico o naturalistico. Tutti i supporti si rettificano. Scompaiono le gambe a zampe d’animale, sostituite dal tronco di piramide e di cono rovesciati, scanalati o riquadrati da cornici. Gli elementi decorativi assumono le dimensioni e le proporzioni più varie, lo stesso fregio come ad esempio la lira può essere particolare decorativo od elemento strutturale.

Le fusioni di bronzo continuano come in precedenza a costituire l’elemento tipico del secolo. La fantasia non conosce limiti e plasma i modelli in cera in mille modi, aggiungendo al repertorio elementi imitanti la tappezzeria: nappe, cordoncini, perle, strisce di cuori, festoni, drappi, nastri annodati nell’onnipresente nodo d’amore, ecc. L’ispirazione dall’antico porta a caratterizzare la decorazione con teste alla greca od all’egizia e con animali mitologici. Continua e si rafforza l’ispirazione ai motivi esotici ed orientali.

Come si vede prosegue ed addirittura si accresce la tendenza combinatoria, altro carattere del secolo, ma anche in questo caso resta valido il discorso fatto in precedenza sulle differenze con l’Eccletismo e l’imitazione. La continuità con lo stile precedente è evidente, ma se non esiste una netta frattura pur tuttavia appare una palese differenza interpretativa. Il Rococò ricerca l’inedito, vuole stupire l’individuo ed accentuare l’unicità dell’interpretazione. Il Neoclassicismo individua nel recupero degli stilemi del passato una volontà programmatica. In pittura invece gli intenti divergono e se la nobiltà persegue un’ideale fuga della realtà nell’Arcadia e nell’erotismo; la borghesia tenta di imporre valori legati, ad una nascente affermazione di una visione romantica.

In Francia le corporazioni continuano ad organizzare il lavoro degli artigiani. Nel 1769 Roubo scrive: ”La maggior parte dei falegnami-ebanisti non producono i loro telai, ma li fanno fabbricare a poco prezzo da altri falegnami che si occupano solo di questo”. Nel XVIII secolo si dividono gli ebanisti dagli intagliatori di legno dorato, cui in particolare spetta la produzione dei sedili, ciò porta a non applicare più bronzi dorati ad essi. Il titolo di maître si ottiene dopo aver lavorato tre anni come apprendista, poi tre come compagno ed aver eseguito un capolavoro come prova dalla propria competenza. Oltre al costo di quest’opera si deve poi pagare una tassa variabile dalle 120 alle 530 lire. In Italia spesso si producono mobili in miniatura, sia come modelli da presentare al committente, sia come capodopera meno costoso di un mobile di misure normali. La preziosità dei materiali rende impossibile all’artigiano di produrre autonomamente gli arredi e lo obbliga a farsi anticipare dal committente le somme necessarie al loro acquisto, od a rivolgersi al commerciante. In Francia il Marchand-mercier è autorizzato alla vendita di qualsiasi articolo, dalla chincaglieria ai gioielli (termine con cui s’indica qualsiasi arredo prezioso compresi i mobili), ma non può produrre nulla in proprio; è lui che inventa i modelli ed anticipa le somme necessarie all’acquisto dei materiali e spesso è anche il proprietario dei modelli. È questo imprenditore che per aggiornare continuamente la sua offerta riesce a migliorare costantemente la produzione, spingendo l’ebanista, chiuso all’interno delle rigide regole della corporazione, a fabbricare sempre nuovi modelli. Anche per questo motivo i grandi ebanisti sono indicati con il termine di operai; comune anche agli altri artisti. D'altronde ai nobili è vietato qualsiasi lavoro manuale, pena la decadenza dal titolo. I mercanti sono la categoria più ricca e le loro insegne possono esser dipinte anche da grandi artisti; come quella del marchand-mercier Gersaint, che ne ha dipinte da Watteau e da Boucher. L’opera è frutto di un a collaborazione tra vari soggetti: il mercante che la idea, l’ebanista che la produce, il disegnatore, lo scultore che fornisce i modelli per i bronzi, il bronzista, il doratore ed eventualmente il laccatore od il pittore che decora le placche di porcellana, ecc. Oggi a causa del concetto dell’opera unica dell’artista, si è posto l’accento principalmente sull’ebanista; trascurando gli altri artefici.

Nella “Critica del giudizio”del 1790 Emanuele Kant (1724-1804) distingue il giudizio di gusto, universale per la sua comunicabilità, da quello intellettuale, universale in rapporto all’oggetto. Il gusto è quindi definito: “La facoltà di giudicare su ciò che rende universalmente comunicabile, senza la mediazione di un concetto, il sentimento suscitato da una determinata rappresentazione”. In quest’analisi si condensa l’estetica settecentesca, che riconosce un campo della ragione ed uno del sentimento. L’ Encyclopédie ha fra l’altro lo scopo di suscitare un nuovo modo di pensare per mezzo del chiarimento dei concetti sulle arti e sulle scienze, e concatenando ragionatamente le singole discipline delle conoscenze umane. Alla fine del secolo, in questo clima, i capricci della rocaille sono ormai intollerabili e intorno al 1796 il pittore davidiano Maurice Quai modifica la parola rocaille inrococò.

In Inghilterra assistiamo ad una parallela vigorosa affermazione di uno stile rinnovato greco, che culminerà nella pubblicazione di “Household Furniture  and Interior Decoration executed from designs by Thomas Hope”, Londra 1807. Thomas Hope costituisce in Inghilterra il tramite tra il Luigi XVI, l’Impero e l’Ottocento. Egli si trasferisce a Londra nel 1796 dall’Olanda, in una casa edificata da Adams; quindi nel 1806 arreda la celebre Deepdene house, nel Surrey. Questo stile “alla greca” si affermerà, insieme alla sua variante egizia, anche in Francia durante il Consolato, dopo la campagna napoleonica d’Egitto. Parallelamente rinasce tra il 1785 ed il 1820 un rinnovato entusiasmo per il gusto cinese. Il diffuso interesse per l’Oriente sta a dimostrare che alla base del linguaggio moderno della rocaille stanno diverse fonti. Su vari fronti le “Lettres persanes” (1721) di Montesquieu, le “Figures chinoises et tartares » (1709) di Watteau, il quadro di Boucher “l’audience de l’empereur de Chine” le "Disputes sur les cérimonies chinoises" di Voltaire, le figurine a lacca povera venete e le porcellane di tutta Europa, dimostrano il persistere del gusto “cinese” e la contestazione del classicismo greco-romano quale ideale unico di bellezza.

In Inghilterra si afferma anche il concetto di pittoresco. Esso dapprima  definisce l’arte di conformare i giardini alla visione fantasioso-archeologica del paesaggio a rovine della pittura, che è nata dalle visuali offerte agli stranieri dai paesaggi italiani durante i loro “Grand Tour”. Questi giardini sono disseminati di finte rovine, grotte fittizie, ponticelli su rivi artificiali; e si contrappongono al tradizionale giardino alla francese. Essi ottengono gran successo in Europa, più scarso in Italia; forse perché il paesaggio offre naturalmente molti di questi romantici scorci. Nella pittura d’affresco, come decoro d’ambiente, nascono le stanze foresta, come quelle del palazzo comunale di Bologna allestite per i direttori della Repubblica Cispadana, recentemente aperte al pubblico.

Il Burke nel 1756 distingue due categorie: il bello, piacevole, tenero, gentile, attraente; il sublime, sentimento di paura, di difficoltà, di pena, d’infinito. Nel 1794 Richard Price aggiunge appunto il pittoresco, consistente nel mutare di luci, suoni, colori, forme, nella rudezza e nell’irregolarità.

Si definiscono come:

Pittoresco: i paesaggi di Salvator Rosa, con la valorizzazione del piacere estetico di fronte a celi tempestosi, dirupi, caverne, ecc.

Sublime: le sculture ed i dipinti di Michelangelo, con il sentimento d’attrazione ed insieme di timore di fronte a fenomeni naturali terrificanti o ad opere che esprimono forme grandiose, eroicizzate, drammatizzate, in deroga alla regola classica.

Il Price porta ad esempio la differenza, che corre tra un tempio classico ed in buone condizioni, che è solo bello; ed uno in rovina, che invece è pittoresco.

La terza fase del neoclassicismo è quella dell’Impero, ma essa riguarda già il secolo successivo.

 

La rivalutazione del Medioevo ed il revival gotico.

È un fenomeno europeo. In Inghilterra si presenta con l’apprezzamento per il giardino irregolare, le cineserie, il sublime, l’esaltazione preromantica della virtù cavalleresca e degli eroi nordici irlandesi nei “Canti di Ossian”, tradotti tra il 1760 ed il 1775. In Italia con la rivalutazione del Medioevo in genere e dei primitivi da parte di, Muratori, Maffei, ecc. in Germania con la corrente letteraria dello Sturm und Drang. In Italia l’entusiasmo per l’architettura gotica non fu mai eccessivo.

Lo stesso Mozart  il cui miracoloso genio resta illuminista nella forma, non è scevro da presentimenti romantici, come ad esempio nel suo breve Rondò in do minore K.511. Hegel nella “morte dell’Arte” sancisce la libertà della scelta eclettica: “l’arte è divenuta un libero strumento che l’artista può maneggiare uniformemente secondo la natura della sua abilità soggettiva nei riguardi di ogni contenuto, di qualsiasi genere esso sia”.

La fine del secolo vede il trionfo dell’epica classica imperiale, ma lo stesso Napoleone è un ammiratore di Ossian e come dimenticare i Capricios di Goya del 1799.

Ma il sentimento di un’antichità classica perduta per sempre coincide con un’eguale sensibilità romantica nei confronti del Medioevo; non a caso Preromanticismo e scavi archeologici coincidono. Winckelman e Rousseau non solo sono contemporanei, ma vivono lo stesso rimpianto per un passato simbolo di perfezione ormai non più raggiungibile, sia esso l’ideale classico dell’uno od  il mito del buon selvaggio dell’altro. La borghesia vede nel riferimento al Medioevo la possibilità di rapportarsi a valori precedenti ed alternativi a quelli aristocratici, che invece si richiamano principalmente al classicismo del Rinascimento, del Manierismo e del Barocco; così come il Neoclassicismo sarà accolto dalla borghesia rivoluzionaria quale stile più adatto a rappresentare le virtù eroiche e democratiche del nuovo stato laicizzante. È in Inghilterra, la più borghese delle monarchie, che nascono i primi riferimenti al Gotico, già dal 1730 quando l’architetto William Kent realizza Esher Place, la cui decorazione interna presenta particolari neogotici.

 

I vedutisti.

Il vedutismo consiste in una specializzazione dei pittori di paesaggio, concentrata in tre città: Roma, Napoli e Venezia. Lo sviluppo assunto dalla pittura profana: ritratti, paesaggi, nature morte, gruppi di persone ed interni, unendosi a quello di nuovi mezzi tecnici, segna la sua nascita.

L’intento è soprattutto quello pratico di documentazione di parti del paesaggio urbano. Spesso il dipinto interessa uno scorcio preceduto dalla pubblicazione di una stampa, da cui spesso prende spunto.

Il genere paesaggistico e quello vedutistico si originano nei Paesi Bassi per poi diffondersi  all’Italia ed al resto d’Europa. Le vedute sono chiamate prospettive, indicandosi con il termine prospetto quello che sta davanti. La prospettiva è la possibilità geometrica di riportare su di un piano un soggetto tridimensionale. L’esigenza di corrette proporzioni e rese geometriche rendono il vedutismo  attinente all’architettura ed alla scenografia teatrale. Due sono gli strumenti principalmente usati per eseguire il lucido (s’intende un mezzo trasparente) della veduta. Già Leonardo suggeriva di disegnare dal vero su di un vetro in trasparenza il rilievo del paesaggio. Pare che per primo il pantografo sia stato realizzato da Leon Battista Alberti. Esso consiste in un telaio romboidale incernierato in modo che fissato uno dei vertici si possa seguire con una punta l’originale, mentre contemporaneamente una matita esegue il suo ingrandimento. Il secondo strumento è la camera ottica, inventata dagli arabi. Essa consiste in una cassetta con un foro al centro di una parete, munito di lente per la messa a fuoco ed un vetro al posto della parete opposta su cui si proietta l’immagine rovesciata. Dal Seicento l’introduzione di uno specchio posto in diagonale permette la proiezione ed il raddrizzamento dell’immagine sul lato superiore della camera agevolandone il ricalco. Gli stessi artisti hanno cercato di nascondere il largo uso che ne hanno fatto, per non rischiare di squalificare a mera copiatura la loro opera. Oggi si tende a considerare alla stregua di fotografie i lucidi ed i disegni preparatori pervenutici, anche autografi. Ci dimentichiamo un po’ alla leggera che la fotografia stessa è attualmente considerata espressione artistica.

Nel Settecento usano tali strumenti i maggiori vedutisti quali Van Wittel  ed il Canaletto; l’udinese Carlevarijs nelle 104 acqueforti de “Le fabbriche e le vedute di Venezia” del 1703, aveva fatto ricorso alla “camera oscura. L’Algarotti ci testimonia che: “Molto di essa si vagliono i più celebri pittori”. Il lucido ottenuto con la camera ottica è poi ingrandito con il pantografo, che oltre a tutto aiuta a seguire i contorni con maggiore stabilità. In realtà il dipinto è frutto di numerosi interventi personali dell’artista, che non si può limitare ad una semplice copiatura. La camera ottica permette riprese solo in piena luce con scarsezza di particolari per le parti in ombra, non rende i colori fedelmente e comunque non secondo la sensibilità del pittore, deforma le linee prospettiche creandone un’arbitraria convergenza, rende sufficientemente bene le parti più lontane, male o per nulla quelle vicine.

Si considera come primo esempio del vedutismo italiano l’illustrazione del percorso della processione, che trasporta il corpo di San Gregorio Nazianzeno da S. Maria in campo a San Pietro, svoltosi nel 1580; dipinto da Antonio Tempesta nelle logge di Gregorio XIII. I palazzi storici sono rappresentati uno accanto all’altro, senza alcun ordine reale. Questo modo di rappresentare porta direttamente alle vedute ideali di Claude Lorain, Ghisolfi, Lemaire e Salucci; e da questi alle trasformazioni settecentesche dei capricci, quali le ritroviamo ad esempio nel Panini.

L’autentico iniziatore del vedutismo del Settecento fu Van Wittel. Il Pascoli sottolinea la: “intelligenza della prospettiva, dell’architettura e dell’ottica colle cui regole sempre operava”. Conosciuto con il nome italianizzato di Vanvitelli egli conobbe un immenso successo dovuto anche alla richiesta dei turisti in visita a Roma di vedute realistiche dei luoghi. I suoi dipinti sono vere e proprie documentazioni quasi fotografiche. Ciò è dovuto anche alla collaborazione in una prima fase con Cornelis Meyer tecnico idraulico. Egli si giova di diversi aiuti per la realizzazione delle numerose repliche delle sue vedute e di una tecnica consentitagli dall’uso del pantografo, che gli fa  non solo ingrandire o rimpicciolire i quadri, ma anche le diverse parti all’interno dello stesso dipinto. Le vedute d’architetture permettono di essere replicate nel tempo senza troppe modifiche, data la sostanziale immutabilità del soggetto. Sono sufficienti piccoli adattamenti, se sono intervenute modifiche degli edifici, e lo spostamento in primo o secondo piano delle parti accessorie: figure, barche ed altri particolari di contorno. Grande è la sua influenza non solo sui pittori italiani, ma anche sugli stranieri: sia per il lavoro all’estero di pittori di vedute italiani come Canalatto, Bellotto, Antonio Joli, ecc; sia per l’imitazione indotta dall’assidua frequentazione degli stranieri in Italia. Le singole famiglie commissionano dipinti, onde rappresentare i propri possedimenti. In tutta Europa il gusto per le vedute si espande rapidamente, chiaro sintomo delle esigenze razionalistiche del secolo dei lumi.

 

La vita privata.

Nel corso dello XVI e XVII secolo si afferma sempre più il concetto d’onore, costituito essenzialmente  dal guadagnare l’approvazione e l’invidia degli altri grazie all’apparire. Conservare l’onore vuole dire salvare le apparenze. Qualunque mezzo è valido: l’insolenza, l’ostentazione, la spesa eccessiva, la prodigalità esercitata al momento giusto sotto gli occhi di tutti, ecc.

Jean Baptiste La Salle pubblica nel 1703 le “Règles de la bienséance e de la civilté chrétienne”, in cui prescrive le norme dell’apparire, relative all’educazione dei bambini: ”Benché non ci sia bisogno di far apparire nulla di studiato nel proprio aspetto esteriore, occorre tuttavia saper misurare tutti i propri atteggiamenti e regolare bene il portamento di tutte le parti del corpo”. Quello che conta è l’apparenza, bastino le parole di A de Courtin: “se si fosse così miserabili da trascurare di mettersi in ginocchio davanti a Dio, per mancanza di devozione, per mollezza o pigrizia, occorre almeno farlo per buona creanza, a causa delle persone di rango che si possono incontrare in quel luogo.”.

Lo stato cerca di regolamentare l’apparire. Divieto dei duelli; leggi contro il lusso eccessivo, soprattutto dell’abito; revisione degli statuti nobiliari, al fine di eliminare i falsi nobili; nobiltà di toga. Entra anche nell’ambito privato, disponendo l’imprigionamento dei familiari, che tengono comportamenti disonorevoli, su richiesta della stessa famiglia.

La diffusione della stampa e l’alfabetizzazione rendono sempre più frequente la lettura privata, fonte di meditazione individuale e di personale interpretazione. La lettura silenziosa sostituisce quella a voce alta, praticata in comune. Molti non sono in grado di leggere in silenzio, e per molto tempo fino all’Ottocento permarrà l’uso della lettura pubblica. Anche la preghiera, da esercizio esclusivamente collettivo, comincia ad essere praticata in privato, magari su di un mobile apposito, l’inginocchiatoio, collocato in un angolo della camera.

Inizia un’arte degli interni, in cui il piccolo mobile riveste un’importanza peculiare, tale da entrare prepotentemente anche nella rappresentazione pittorica, e non unicamente in quella borghese degli ambienti olandesi. Si sviluppa una nuova arte del vivere, con la sua attenzione non solo all’abito, ma anche alla tavola. Nascono i cuochi e le ricette, la scelta dei vini, regole di comportamento, ma soprattutto nasce il “gusto” personale; quale strumento di distinzione sociale, ma anche di proprio giudizio. Si realizza il passaggio dalla convivialità medioevale, in cui la coppa del vino circola di bocca in bocca, il piatto delle vivande è raggiunto dalle mani di tutti, ed anche la scodella è condivisa da più persone; a quella Sei-Settecentesca, con l’affermazione di un apparato più complesso. Ad ognuno il proprio piatto, forchetta, bicchiere; e quello che viene preso da accessori comuni, come le saliere, salsiere, ecc, deve essere prelevato con appositi utensili. Ciò denota certo la volontà di distinguersi, grazie alla ritualizzazione del vivere sociale, ma anche la necessità di creare una distanza netta dall’altro. È tale contatto che si teme, non certo la trasmissione di batteri due secoli prima che siano scoperti.

L’evoluzione della tavola nel Settecento, evidenzia in maniera sensibile quella del gusto. Le spezie esotiche cedono il passo agli odori indigeni. Alla cipolla si affiancano l’erba cipollina, lo scalogno, l’aglio di Spagna. Trionfano: il cerfoglio, il dragoncello, il prezzemolo, l’alloro, il timo ed il basilico; ancora capperi, olive, alici, limoni ed arance amare. L’uso di prodotti locali rende più accessibile l’arte culinaria, anche ai ceti più bassi. Il consumo delle carni è esteso a classi diverse, la distinzione è operata sulle scelte delle parti: ai ceti popolari i tagli allora ritenuti meno pregiati o meno soggetti alla resa nelle ricette, ai nobili ed ai borghesi agiati i pezzi di maggior qualità. Si passa dal consumo prevalente dei grandi uccelli, a quello degli uccellini ritenuti di miglior gusto. Il cigno, l’airone, la gru ed il pavone, sono sostituiti da tordi, beccaccini, beccafichi, ecc. Analogamente cade in disuso il consumo di foche e di balene. Si riconosce maggior valore al palato e meno alla vista. In passato i grandi uccelli erano scuoiati senza romperne la pelle, che, una volta cotti, era nuovamente rimessa, in modo da presentarli completi dei loro piumaggi. Un’altra differenza ancor più sostanziale è rappresentata dall’aspetto dei cibi. Nel Settecento ci si preoccupa del colore dei cibi in relazione alla loro buona cottura ed alla resa organolettica. In precedenza viceversa il colore serviva a rendere il cibo appetibile, si coloravano le pietanze perché l’aspetto era determinante al gradimento; un pranzo più era colorato, più era considerato raffinato. Non si disdegna di conversare di cibo, anche negli ambienti più elevati. Il gusto alimentare è spesso paragonato a quello per le arti. Nel “Dictionaire Philosophique” scrive Voltaire: “Come, nell’ordine fisico, il cattivo gusto consiste dall’essere allettati solo da cibi troppo piccanti e ricercati, così, nelle arti, consiste nel compiacersi degli ornamenti ricercati e nel non sentire la schietta natura.”; ed ancora: “L’assaggiatore sente immediatamente la mescolanza di due liquori; l’uomo di gusto, il conoscitore vedrà con una rapida occhiata la mescolanza di due stili.” L’aristocrazia impone continuamente nuove mode, sia a tavola, che nel vestire; in modo da marcare continuamente la differenza tra essa, creatrice del gusto, e la borghesia, continuamente alla rincorsa nel tentativo di imitarne i modi. La produzione artistica non è solo produzione di maggiore agiatezza, ma soprattutto campo elettivo dove esercitare il proprio buon gusto e marcare la distinzione con chi tale gusto non possiede. La storia della casa dal Cinquecento è in continua evoluzione, di pari passo con quella dei rapporti sociali. L’evoluzione verso un moderno concetto di privato si denota dalla riduzione progressiva dei vani e dal moltiplicarsi degli spazi accessori individuali, come : l’alcova; il gabinetto (inteso come studio); il corsello (lo spazio tra il letto ed il muro della camera, spesso munito di finestra), dove si concentrano mobili dedicati alla persona, quali: la poltrona, lo scrittoio, ecc. La privatizzazione si connota: nella specializzazione degli stessi ambienti; nella costruzione di scale, corridoi, ingressi, che consentono l’accesso alle camere, senza l’attraversamento dall’una all’altra; nella diversificazione delle fonti d’illuminazione e di riscaldamento; nel passaggio dai grandi camini architettonici a quelli piccoli ornamentali, ma muniti di condotte e ciminiere; nella diffusione delle stufe. Contemporaneamente per tutto il Settecento assistiamo all’espansione di un individualismo dei costumi, interrotto dall’affermazione della famiglia, quale centro della sfera degli affetti dell’individuo e vera base del sentimento borghese.

Ambienti sono appositamente dedicati alla riunione di gruppi conviviali, che vedranno primeggiare le femmes savantes, soprattutto in Francia ed in Italia. Centri alternativi alla vita di corte, essi costituiscono un ambito intermedio tra la folla ed il ritiro solitario. In Inghilterra evolveranno ben presto in strutture organizzate, con regole proprie: i clubs.

La famiglia muta lentamente, da luogo di vincoli al cui esterno l’uomo trova libertà di comportamento, a rifugio alternativo allo stress del lavoro e degli obblighi sociali ed a sede di nuovi contenuti morali; fino a giungere ad indicare nel buon capofamiglia l’esempio di virtù cui ispirare l’intera società. Questa evoluzione si colloca all’interno della lotta della borghesia per l’egemonia, rendendo la famiglia specchio contrapposto alla vita dissoluta e parassita dell’aristocrazia. 

Fino al Settecento assistiamo al consolidarsi del potere dello stato, che surroga le funzioni prima assolte dai privati, sostituendo al sistema delle reti clientelari quello dei funzionari statali. Il potere militare, poliziesco e giuridico fino allora è esercitato da persone, che agiscono in nome del re, ma con mezzi propri, contentandosi di ricevere dal sovrano di tanto in tanto doni generosi, rientrando delle spese, vivendo spesso d’espedienti, come il gioco d’azzardo. Nel Settecento il processo è compiuto, la scissione tra la cosa pubblica e la sfera del privato è definitiva. Da una parte lo stato moderno, non obbligatoriamente assolutista, ma sempre amministrativo e burocratizzato; dall’altra la famiglia. Assieme alla nascita della sfera del privato si sviluppa una nuova maniera di vivere in società, che partendo dalla corte permea tutta la collettività, rendendo più forte il controllo delle emozioni ed innalzando la soglia del pudore. Al rafforzamento dello stato moderno, che organizza non solo lo spazio pubblico, ma regola e difende pur nella sua autonomia quello privato, si contrappone la nascita del pubblico, inteso come insieme indifferenziato di soggetti sociali. Si realizza con i “lumi” quell’associazione intellettuale tra i circoli letterari, le logge massoniche, i caffè, che porta alla creazione dell’opinione pubblica, in grado di esercitare il potere di critica, anche negli ambiti d’esclusiva pertinenza dello stato e persino riguardo alla politica ed all’autorità del principe.

Fondamentale per la costituzione di una sfera privata è l’estensione dell’alfabetizzazione. Fino alla scolarizzazione universale dell’Ottocento, essa avanza con alterne vicende. Nel nord Europa è mediamente più alto il numero delle persone che sa fare la propria firma e si aggira, come si desume dalla conta delle firme negli atti di matrimonio e sui verbali dei processi, intorno al quaranta per cento della popolazione. In alcune regioni esiste per altro un notevole divario tra chi sa leggere e chi sa anche scrivere; infatti il protestantesimo impone la lettura privata della bibbia, ma ad esempio vede sfavorevolmente l’apprendimento della scrittura da parte delle donne.

Nel sud Europa tale percentuale cala fino ad uno su dieci, con il rapporto di una donna ogni tre uomini. All’inizio dell’Ottocento dai documenti di stato civile si desume che nelle cinque città di Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna su cento sono in grado di firmare quaranta uomini e ventuno spose, per contro in campagna solo diciassette e cinque ( il contado costituiva l’ottanta-novanta per cento della popolazione). 

Presso i ceti più elevati si espande anche la lettura privata femminile, come denotano i quadri d’interno, vedi quello famoso di Chardin o quello di Baudoin, in cui sono raffigurate donne sole intente alla lettura di romanzi alla moda nei loro boudoir. Ma continua ad essere diffusa la lettura collettiva ad alta voce tra amici.

La vita di corte impone all’individuo di rappresentare il rango attraverso la forma, in un’immagine sempre pubblica, soggetta al giudizio degli altri. L’imposizione di una vita collettiva obbliga a delimitare più rigidamente lo spazio fisico e ad introdurre regole, che impediscano il contatto fisico: ad ognuno il proprio letto, piatto, posate. Per contro nel privato si può dare corso a quelle manifestazioni assolutamente vietate in pubblico. S’istituisce un codice, che richiede una comunione stretta con l’amico, sia esso amante o confidente. Da qui la necessità di possedere qualcosa da portare indosso, che ricordi la relazione intima ed annulli in ogni momento la distanza, rendendo sempre presente l’amato: un pegno d’amore, una miniatura di ritratto, un oggetto toccato dall’amata, un ciuffo di capelli. Anche nell’arredo il passaggio tra la nudità degli ambienti rinascimentali e l’orror vacui dello XIX secolo, costituisce il consolidarsi dell’oggetto, quale testimone del ricordo dell’altro e delle proprie passioni. La separazione tra ambito pubblico e privato diviene definitiva.

Il fasto, inteso come manifestazione del potere assoluto del principe, annulla la distanza tra la sfera pubblica e quella privata, imponendo il rituale dell’etichetta, codificando i comportamenti, subordinando ogni manifestazione alla rappresentazione della magnificenza della monarchia. Con Luigi XV il fasto evolve in lusso. Il lusso è l’affermazione personale del proprio stato sociale, la misura tangibile della distinzione. Esso permette anche al borghese di marcare le differenze e di avvicinarsi, almeno nei modi di vivere, all’aristocratico; annullando in parte la distinzione per nascita. L’allestimento di piccoli appartamenti, dei loro arredi, della decorazione, dei vestiti d’uso domestico, l’attenzione dedicata alla culinaria, denota l’autocertificazione del ruolo, che non ha più bisogno della scena pubblica, del riconoscimento sociale.

La costituzione di uno spazio privato, diviene a sua volta oggetto d’indagine pubblica. Quegli intimi sentimenti, quelle azioni, che mai si sarebbero potute svolgere in  pubblico, diventano oggetto preferenziale delle autobiografie destinate alla stampa e del romanzo borghese. Anche la cura personale risente di questa netta separazione tra il pubblico ed il privato, tra il dentro ed il fuori. Fino alla metà del Settecento non si usa l’acqua se non per la pulizia delle mani e del viso, che sono le uniche parti che si mostrano. Simbolo della nettezza della persona sono il colletto ed i polsini, che devono essere sempre lindi ed inamidati. L’acqua è agente estraneo, che penetra ovunque e viola la privatezza del corpo. Ci si pulisce a secco, raschiando la pelle, asciugandola dal sudore e cospargendola di profumi. Dalla metà del secolo assistiamo ad un ribaltamento, ma solo formale, della situazione. L’uso d’acqua calda e fredda diventa una nuova forma di distinzione, un lusso ulteriore da esibire. Un rituale igienista soggetto a regole autonome e che diventa a sua volta strumento di coercizione dei comportamenti. Lentamente le regole delle buone maniere, anche se apparentemente sembrano sopravvivere, sono superate da un atteggiamento nuovo. La diffusione dei modelli di comportamento è anche una delle cause del loro abbandono. L’aristocrazia vede nella loro propagazione anche ai ceti borghesi la fine di quel fattore di distinzione, che n’aveva decretato il successo. Dice l’abate Bellegarde: “I borghesi, i provinciali i pedanti sono gran facitori di riverenze; opprimono la gente con i loro eterni complimenti e omaggi fastidiosi; fanno omaggi davanti a tutte le porte e bisogna discutere un’ora per decidere chi passerà per primo.”.

L’alta borghesia ormai consolidatasi tende a marcare la differenza con il piccolo borghese e può condividere quanto scritto nell’Encyclopédie, quando circoscrive il rispetto della regola civile all’aspetto più esteriore dei comportamenti in società e ritiene che essa interessi solo le persone di condizione inferiore. Il ciclo della buona creanza termina con la Rivoluzione, che sancisce con le parole di Chemin la nuova morale: “Nel tempo in cui gli uomini non si stimavano e non erano stimati che per la loro nascita, il loro rango e le loro ricchezze, occorreva un lungo studio per conoscere tutte le sfumature di riguardi e d’educazione da osservare in società. Oggi non c’è che una regola da seguire nel commercio della vita, ed è di essere, con tutti, liberi, modesti, franchi e leali”.

 

Sviluppo economico in Italia.

Per tutto il secolo, ed in maniera accelerata dalla metà di esso, assistiamo ad un incremento della popolazione europea, che sale dai 100-120 milioni d’abitanti del 1700, agli 120-140 del 1750 ed agli 180-190 del 1800. L’Italia dai circa 15,15 giunge ai 18 milioni. Nel corso del secolo si passa da tredici a ventidue città con più di centomila abitanti, di cui ben cinque in Italia. Napoli dai 186000 arriva ad averne 409000, divenendo la quarta città d’Europa, con oltre il doppio della popolazione di Roma. La longevità media si aggira ad esempio in Francia sui 29 anni. Le grandi epidemie continuano a mietere vittime per tutto il secolo. Da quella di vaiolo, che uccide nel 1719, solo a Parigi, 14000 persone e devasta l’Europa nel 1770; a quella di malaria in Spagna; alla pertosse che, tra il 1749 ed il 1764, uccide nella sola Svezia 40000 bambini. Ma in totale la mortalità rallenta nel corso di tutto il secolo. Scompare dopo il 1720 la peste bubbonica ed in generale le malattie si presentano in forma meno virulenta che nel passato. Le cause sono molteplici: dalle migliorate condizioni igieniche, come ad esempio l’obbligo di seppellire i morti fuori della cerchia urbana; all’uso  più abbondante dell’acqua per lavarsi, all’adozione di locali appositi per i bisogni corporali. Per l’incoronazione di Luigi XVI, a Reims nel 1774, è allestito per suo uso personale un water closet di stile inglese, se si pensa che a Versailles, sotto Luigi XIV, non c’erano bagni. Senz’altro la causa principale è quella che è stata chiamata la rivoluzione agricola. Essa non conosce un andamento uniforme. In Italia interessa il settentrione, a nord del Po ed in particolar modo la Lombardia e la Val Padana, dove si adotta una coltivazione più intensiva; mentre sotto la Toscana avviene esattamente il contrario, con l’abbandono, l’incuria ed il generale ristagno dell’agricoltura, favorito anche dalle condizioni avverse del terreno. Dallo stato Pontificio alla Sicilia un insieme di circostanze, dal malgoverno, alla sussistenza del latifondo e di tecniche agricole arcaiche, dà origine ad una diminuzione della superficie arativa e ad un aumento di quella a pascolo e di quella ricoperta da bosco; portando addirittura ad un arretramento della produzione agricola. Lo stato Pontificio si divide in due zone, l’agro romano suddiviso in latifondi appartenenti al patriziato ed in maggioranza tenuto a pascolo ed a nord le piccole fattorie condotte a mezzadria. Anche in Toscana è preponderante la mezzadria. Nel Regno delle Due Sicilie predomina: nel napoletano il latifondo, appartenente alla nobiltà, al clero ed ai comuni, che contrasta con la piccola proprietà dei poderi lungo la fascia costiera, retta a compartecipazione degli utili; in Sicilia la massa di diseredati è  sfruttata dai ricchi proprietari terrieri, per mezzo d’intendenti, i gabellotti. La servitù della gleba viene abolita nel Settecento nella Savoia e dalla metà del secolo anche nel sud d’Italia. Da allora il contadino italiano è formalmente un libero lavoratore, se si può considerare libero un contadino oberato di debiti e di servitù (come ad esempio la corvée, consistente nell’obbligo di lavorare gratuitamente alla manutenzione delle strade), controllato dai gabellotti, vessato in ogni maniera.

Causa di tale rivoluzione non è l’avvento di nuove macchine, ma l’introduzione di una rotazione più razionale delle colture, comprendente le radici, i legumi e determinanti il trifoglio e l’erba medica, importati dall’America, che porta all’eliminazione del maggese. È in Italia che uno sconosciuto agricoltore veneto dello XVI secolo adotta per primo il ciclo comprendente il foraggio; dall’Italia tale tecnica si diffonde in Olanda e da lì al resto d’Europa. Oltre ad una migliore resa del suolo si ottiene foraggio per l’allevamento degli animali.

È in Inghilterra che comincia ad affermarsi verso il 1760 la recinzione dei campi. Campi chiusi con coltivazioni più uniformi, affidati alla conduzione di un singolo fattore, si rivelano molto più produttivi dei vecchi campi aperti, coltivati spesso in comune dal villaggio. Il fattore tende a adottare una mentalità più imprenditoriale, operando continue migliorie; al contrario che nella coltivazione comune, dove nessuno vuole o ha interesse a realizzarle. D'altronde se nell’ultimo ventennio del secolo è già stato recintato in Inghilterra circa il venti per cento del territorio, con un aumento considerevole e costante della produzione agricola, questo consente anche un’ulteriore accelerazione dell’inurbamento di masse di contadini cacciati dalle loro terre, con tutto il seguito di sofferenze umane che ciò comporta. Sempre in Inghilterra la selezione artificiale degli ovini dà un ulteriore impulso al loro allevamento ed alla conseguente maggiore produzione di lana.

Nel commercio marittimo Venezia è in piena decadenza e dopo il 1715 non è più in grado di controllare i traffici mercantili dell’Adriatico. A scapito di Venezia, si amplia il commercio d’Ancona e di Trieste, ma ancor più di Livorno, che vede raddoppiare la propria popolazione.

 

Note sulla vita dei contadini italiani nel Settecento.

I contadini italiani costituiscono dall’ottanta al novanta per cento della popolazione.

Nel1770 la dote, normalmente portata da una contadina, equivale al reddito di due anni di lavoro di una famiglia media. Della dote fa di solito parte il letto, costruito con assi di legno e completo di lenzuola, materasse, saccone, coltrice e coperta. Questo apparato equivale al valore di circa tre mesi di lavoro di un bracciante agricolo o ad un mese di quello di un muratore. Il letto è spesso l’unico mobile posseduto ed i più poveri non hanno neanche quello. Il letto è sempre di legno e solo dal Settecento iniziano a comparire, per qualche benestante, parti in ferro. Le misure del letto sono piuttosto ampie, comparabili ad un moderno letto matrimoniale, perché su di esso non dormono solo la moglie ed il marito, ma anche altri componenti della famiglia. La struttura di legno è coperta dal saccone, composto di un sacco grande quanto il letto riempito di paglia; da cui il termine pagliericcio. Sopra al saccone si trovano una o più materasse (materassi). Tali materassi possono essere imbottiti di lana, sempre della qualità peggiore, o di capecchio, ottenuto dai cascami della pettinatura della canapa e del lino; questi ultimi costano la metà del primo. La coltrice vale più del materasso ed è posta a diretto contatto del corpo. Essa è costituita da una specie di materasso imbottito di piume miste, dei vari volatili da cortile, e può giungere a pesare trenta chili. Le penne non sono cambiate, ma se n’aggiungono continuamente per lungo tempo. Esistono dal Settecento anche coltrici riempite con la bambagia (cotone), più commerciali. Il guanciale è fatto come la coltrice. Ogni famiglia possiede poi quattro o cinque lenzuola di lino. Un altro uso dei tessuti è costituito da telai di lino oliati o cerati, che posti davanti alle finestre fungono da vetri. I vetri cominciano a diffondersi relativamente in fretta nel Settecento. Altre stoffe utilizzate sono gli asciugamani ed i tovaglioli. Sempre in questo secolo anche i contadini cominciano a soffiarsi il naso nei fazzoletti, piuttosto che con le dita o le maniche, almeno a tavola.

Tipica è la famiglia-stipite, ossia organizzata in modo che i figli al momento del matrimonio restano sotto lo stesso tetto dei genitori. Questo sia per garantire la successione nella direzione del podere, sia per ovvie esigenze abitative. Spesso il matrimonio del figlio maggiore è ritardato, finché un certo numero di figlie e di figli minori non è uscito dalla famiglia, in modo da non sovraffollare troppo la casa. In queste famiglie la divisione dei ruoli è rigidamente organizzata, in modo da attutire i contrasti sorgenti dalla coabitazione. Alla madre resta la direzione della cucina, alla nuora la gestione dei figli e l’aiuto nei campi. A tavola ad ognuno spetta un posto preciso.

Il contadino abita spesso unicamente in una capanna, disposta a schiera con le altre, costruita con pietre a secco, con sulla strada la porta ed a volte una finestra, divisa in due spazi: sul retro più buio si dorme e vi possono essere alloggiate anche le bestie, sul davanti si cucina. Simili abitazioni sono state rinvenute ad esempio in Sicilia. Ci sono anche i poveri, famiglie composte dal figlio bracciante e dal padre inabile o cieco, o dalla madre malata, che vivono al limite dei villaggi in tuguri fatiscenti o ai margini dei campi e dei boschi in capanne di frasche; affidandosi alla carità pubblica.

Si dorme in più persone nella stessa stanza e spesso nello stesso letto, usando come divisori dei semplici drappi. D'altronde anche nelle locande i viaggiatori dividono la stanza con altri, anche non appartenenti alla loro comitiva.

La moda cambia frequentemente, naturalmente per i ceti altolocati ed in parte per i cittadini. Così si esprime Leonardo da Vinci in un passo nel Codice Urbinate: “Nell’altra età cominciarono a crescere le maniche e eran talmente grandi che ciascuna per se era maggiore della vesta; poi cominciarono ad alzare i vestimenti attorno al collo tanto ch’alla fine copersero tutto il capo; poi cominciarono a spogliarlo in modo che i panni non potevano essere sostenuti dalle spalle, perché non vi si posavano sopra. Poi cominciarono a slongare si li vestimenti che al continuo li uomini avevano le braccia cariche di panni per non li pestare co’ piedi; poi vennero in tale estremità che vestivano solamente fino ai fianchi e alle gomita, e erano si stretti che da quelli pativano gran suplicio e molti ne crepavano di sotto: e li piedi si stretti che le dita d’essi si soprapponevano l’uno all’altro e caricavansi di calli”. Evidentemente i sacrifici per essere alla moda si sono sempre fatti. Questi cambiamenti avvengono in tutte le città d’Europa e servono sostanzialmente per sfoggiare la propria ricchezza e marcare la differenza di ceto con chi non si può permettere di essere alla moda. L’abito del contadino è giocoforza ridotto all’essenziale e rimane sostanzialmente immutato a lungo. Si compone: di una camicia di lino misto a capecchio, piuttosto lunga fino alla coscia, con uno spacco sul retro e due sui fianchi, priva di colletto, e con le maniche poco oltre i gomiti, che non ci si toglie neanche per andare a letto; un paio di calzoni di lana “ammezzati”, vale a dire poco sotto il ginocchio; quelli lunghi si diffondono dall’Ottocento, ma sono poco pratici perché s’inzaccherano facilmente. Essendo i calzoni corti, nei giorni di festa, quando s’indossano le scarpe, s’infilano anche un paio di calze. Completa l’abbigliamento un corpetto di lana, una sorta di panciotto senza maniche. D’inverno si porta sopra a tutto il giubbone, corta giacca imbottita di bambagia. Al posto del giubbone si possono indossare: il tabarro, tenuto fermo in vita da una cintura e munito di cappuccio; il ferraiolo, corto mantello molto usato dai pastori perché protegge dalla pioggia, chiamato anche cappa o pastrano, in bolognese la capparella; la zimarra, di lana a volte rivestita di pelliccia, chiamata anche palandrana. Il contadino può anche presentarsi con solo la camicia e scalzo, ma non gli manca mai in testa un cappello, di lana o di paglia. Totalmente assente qualunque tipo di biancheria intima. L’abbigliamento della contadina è del tutto simile, soltanto al posto dei calzoni porta la gonnella, peraltro indossata fino al trecento anche dai maschi. Elemento tipicamente femminile è il grembiule, abbastanza prezioso e decorato quello della festa, più semplice quello da lavoro. Oltre al cappello di paglia ed a vari tipi di cuffie la donna mette anche uno scialle, posto sul capo o sulle spalle. L’abbigliamento infantile è una replica di quello adulto e spesso è ricavato da un adattamento degli indumenti paterni ormai logori. Tutti i tipi di tessuto, costituendo la principale spesa della famiglia, sono usati finche rattoppati e logori non stanno letteralmente più insieme, dopo essere passati da una generazione all’altra; ciò è ancor più valido per il vestito della festa, che dà il cambio per un giorno a quello di lavoro indossato tutta la settimana.

Questa è la ripartizione media percentuale del reddito contadino nel Settecento: alimentazione 79, tessuti 13, investimenti in attrezzature 4, imposte 3, varie1.

Dopo la fine delle pestilenze la popolazione comincia lentamente ad incrementarsi. Nel Settecento assistiamo ad un generale aumento dei braccianti salariati e della povertà che ne consegue. Essi possono lavorare solo per parte dell’anno, durante la semina ed il raccolto, e devono ricorrere ad espedienti per il restante. A tale immiserimento contribuiscono in misura determinante le variazioni dei prezzi. In particolare salgono quelli dei generi alimentari e calano quelli ad esempio dei tessuti. Dal Cinquecento alla Rivoluzione il grano raddoppia, i tessuti crescono solo del 40%. Tutto ciò porta ad un impoverimento delle masse dei salariati ed al loro progressivo inurbamento; si costituisce così la forza lavoro per la nascente industria. Anche le festività religiose, che oltre alle cinquantadue domeniche comprendono altre quaranta o sessanta giornate di feste obbligate, secondo le parrocchie, sono progressivamente ridotte, al fine di consentire una migliore organizzazione del lavoro.

 

Il teatro italiano del Settecento.

L’influenza delle culture europee emergenti, soprattutto di quella francese, porta in Italia alla realizzazione di un polo d’influenza costituito da letterati, aristocratici, dottori universitari ed ecclesiastici. Sul modello di quanto analogamente accade in Francia ed in Inghilterra; dove però ciò avviene soprattutto sotto lo stimolo della borghesia emergente. La mancanza di una seria legislatura a tutela della proprietà intellettuale, quello che oggi è il diritto d’autore, non porta alla nascita di categorie forti ed influenti di letterati pubblicisti e drammaturghi. Questo polo intellettuale pretende di utilizzare esclusivamente l’italiano letterario e persegue l’obiettivo di una teatralità che abbia nel testo il suo svolgimento unitario. In ciò si contrappone ai comici, che invece si esprimono nei vari dialetti della penisola, e praticano una teatralità basata sullo spettacolo e sull’efficacia degli elementi sensibili, dovendo confrontarsi con la realtà del pubblico. L’elaborazione intellettuale di una cultura italiana unitaria di respiro europeo, la censura formale degli spettacoli pubblici e del modo di operare dei professionisti, porta ad un distacco di quest’elite dalla reale situazione estremamente frazionata e parcellizzata del pubblico.

Tutte le cronache del tempo ci mostrano lo stupore reciproco dei viaggiatori. Gli italiani all’estero restano interdetti di fronte al silenzio ed all’attenzione con cui sono seguiti gli spettacoli. Gli stranieri in Italia si meravigliano della focosa partecipazione del pubblico, delle grida, del generale frastuono e della disattenzione degli spettatori, del lancio d’oggetti. Ovunque il teatro è un momento d’ostentazione del lusso da parte dell’aristocrazia, e all’estero anche dell’alta borghesia. In Italia ancor più gli aristocratici considerano il teatro come luogo di riunione, dove far mostra della propria distinzione; dove ci si ritrova soprattutto per conversare, giocare, mangiare, sputare dai palchi in platea ed amoreggiare nei palchetti chiusi da due tende. Lo spettacolo è solo un pretesto per sfoggiare, soprattutto nelle grandi occasioni, abiti ed acconciature tanto elaborate da aver richiesto addirittura di elevare l’entrata ai palchi. Questo spettacolo nello spettacolo, il desiderio di mostrarsi è senz’altro alla base dell’amore dei nobili italiani per il teatro. Anche il resto del pubblico non presta molta attenzione allo svolgimento della rappresentazione, ma si accalora per i singoli virtuosi, cui si richiedono continue ripetizioni delle arie. Gli attori poco graditi vengono espulsi dalla scena a furia di fischi e di schiamazzi. Si creano delle vere e proprie lobbies, che vedono la partecipazione organizzata dei nobili, i quali giungono a stampare biglietti, con il nome dei favoriti da sostenere, da lanciare dai palchi alla loro comparsa.

Il teatro all’italiana, con la sua tipica struttura ad alveare, non è concepito per permettere un’omogenea visione della scena, ma piuttosto per rimarcare le distinzioni sociali. La fascia centrale comprendente il primo, il secondo ed il terzo ordine di palchi, è dedicata all’aristocrazia. A Venezia le dame vi accedono a volto scoperto per distinguersi dalle cortigiane, che a volto mascherato occupano i palchi inferiori. Nelle fasce laterali prendono posto i borghesi. Naturalmente l’uso di subaffittare i palchi porta ad una certa promiscuità, ma la distinzione permane. Ai borghesi è ad esempio consentito di frequentare il ridotto riservato ai nobili solo in occasione del carnevale, purché ben vestiti e mascherati, ma comunque, anche in tale occasione, solo ai nobili ed agli ufficiali è permesso durante il gioco tagliare i mazzi di carte; oppure al teatro Ducale di Parma è consentita ai soli nobili l’illuminazione dei palchi con un lume; ecc. In platea, nei teatri veneziani, si è costretti ad indossare abiti dimessi, aumentando il contrasto visivo, a causa del continuo piovere dai palchi di sputi, avanzi di cibo, moccoli di candele. Il basso prezzo dei biglietti della platea lo rende un ambiente malfamato dove si corrono rischi reali. A Roma con un decreto si fa obbligo di tenere sgombri i corridoi laterali per facilitare l’intervento della guardie in occasione delle risse.

Lo spettacolo è percepito come un succedersi di scene e d’episodi vissuti come collegati alla realtà della vita, poca o nulla l’attenzione allo svolgimento della trama. Lo spettacolo è sentito come un assemblaggio d’attrazioni e non come un opera culturale, da ascoltare con rispetto e nel rispetto degli altri spettatori. Così nella commedia assume importanza la compagnia più che il testo, e nell’opera seria la personalità dei virtuosi. Questi ultimi d'altronde accentuano il loro ruolo di divi rivolgendosi direttamente agli spettatori, distraendosi, guardando le scene, prestando per primi poca attenzione allo svolgimento scenico.

Tutto ciò non contribuisce alla maturazione della specializzazione professionale dell’attore ed al consolidamento dei testi, né all’affermazione dell’autore, privato per altro in partenza dei diritti artistici ed economici sull’opera. L’edificio teatrale è destinato a costituire un’unità polifunzionale non specializzata, dedicata allo spettacolo in senso lato: balletti, opere, commedie, esibizioni acrobatiche, intermezzi musicali, giochi pirotecnici, circo d’animali ammaestrati, ecc. Il modello di teatro, come modernamente inteso, è di contro rappresentato dalle recite dei dilettanti, che hanno un peso cospicuo. In esse si esprimono i drammaturghi tragici. Maffei, Martello, Monti ed Alfieri. Questi ultimi nel progetto di riforma del teatro non fanno che portare la cultura ed i comportamenti tipici dei teatri privati. Qui il rispetto dovuto al grado sociale dei recitanti od all’etichetta di corte fa regnare da parte degli spettatori il silenzio, l’attenzione e l’immobilità. Scrive Goldoni nelle sue memorie: “Giunto a Parma, mi portarono a Colorno (dove l’etichetta francese era di rigore) dove stava la corte…Lo stesso giorno andai alla commedia…; era la prima volta che vedevo degli attori francesi; ero stupito dalla loro bravura e del silenzio che regnava nella sala…vedendo a un certo punto l’amoroso abbracciare vivamente la sua bella, quell’atto naturale, permesso ai francesi e proibito agli italiani, mi piacque talmente che gridai a tutta voce: bravo! La mia voce, indiscreta ed ignota, offese la silenziosa assemblea; il principe volle sapere da dove veniva; mi nominarono, e si perdonò la meraviglia di un autore italiano”.

La riforma sfocia nel periodo giacobino nella realizzazione di un pubblico moderno, un insieme indifferenziato d’individui, che si sorvegliano a vicenda, che hanno pagato un biglietto per godere di uno spettacolo e del suo omogeneo svolgimento; mentre nell’Ancien Régime lo spettatore è diviso in un aggregato di classi, che fanno uso del teatro quale luogo di rappresentazione sociale.

 

La cultura e la musica.

Con il pamphlet dell’abate Raguenet “Parallèle des Italiens e des Français, en ce qui regarde la musique et les opéras" inizia in Francia la lunga querelle, che occuperà tutto il secolo, sulla superiorità tra la musica italiana e la francese, in cui ritroviamo gli stesi temi della disputa tra gli antichi ed i moderni. L’abate di ritorno da un viaggio in Italia si schiera a favore della musica italiana, considerata geniale, estrosa, commovente, inebriante; di contro alla monotonia, la pesantezza e la freddezza di quella d’oltralpe. La polemica riguarda in sostanza il solo melodramma. D'altronde esso è considerato generalmente dai filosofi e dai critici d’impostazione classicista come nemico della natura e quindi della ragione, con i suoi artifici, la sua capacità di commuovere e di illanguidire, ritenuto frutto della corruzione della tragedia, un risultato degradato dei tempi moderni, è l’opinione di Voltaire come di Fontanelle. È la musica che influenzando il testo lo corrompe, ciò avviene in modo particolare per il melodramma italiano. Questa capacità di suscitare sentimenti, tanto vituperata, sarà ciò che segnerà il suo trionfo in futuro. Joseph Saveur è il matematico, che riesce a misurare il numero assoluto di vibrazioni di un suono, fornendo le basi scientifiche per considerare l’armonia naturale, in contrapposizione all’irrazionalità della melodia. Jean-Philippe Rameau musicista e filosofo resta con i suoi scritti nella critica tradizionalista, ma dal raro punto di vista del musicista erudito. Certo l’armonia è la base della musica, stabilita su regole naturali e non arbitrarie come la melodia; ma possiede proprio per questo una sua intrinseca ragione di esistere, sciolta dalle altre arti compresa la poesia. L’espressione e la varietà degli accordi sono in grado di esprimere la vasta gamma delle emozioni, secondo canoni fissi ed immutabili. Egli pone le fondamenta del riscatto futuro della musica strumentale pura.

I piccoli concerti per un pubblico selezionato cedono il passo alle sonate, alle sinfonie ed ai concerti per sottoscrizione, aperti ad un pubblico misto d’aristocratici e di borghesi. Assistiamo anche all’evoluzione tecnica degli strumenti: la viola cede il passo al violino, il pianoforte nasce nel 1709 dall’evoluzione del clavicembalo, il flauto diventa di moda dal 1750 ed il clarinetto subito dopo.

Rousseau domina la seconda metà del secolo. Nel suo pensiero la poesia precede la prosa, quale espressione originaria dell’uomo primitivo, che con il canto esprime la melodia e l’articolazione del linguaggio. È la civiltà che introduce l’arbitraria divisione tra il linguaggio razionale e la musica sentimentale. Egli ribalta il discorso di Rameau e considera naturale il sentimento ed il variare delle melodie da popolo a popolo, razionale ed artificiale la regola dell’armonia. La divisione tra i popoli del nord e quelli del sud nasce storicamente. I primi sviluppano un linguaggio più freddo, meno musicale, adatto ai brusii dei salotti; i secondi lo conservano più naturale, melodioso, adatto al canto ed ai discorsi infervorati. Nel “Essai sur l’origine des langues” scrive: “Vi sono lingue che si accordano con la libertà: sono le lingue sonore, prosodiche, armoniose, il cui suono si percepisce molto da lontano…Presso gli antichi ci si faceva ascoltare facilmente dal popolo sulla pubblica piazza; gli si parlava tutto il giorno senza fatica…oggi se un accademico legge una sua mozione a malapena è udito all’estremità della sala…Ora io dico che una lingua con cui non ci si possa far intendere davanti ad un popolo riunito è una lingua servile; un popolo libero non può parlare questa lingua”. In tutti gli enciclopedisti e viva la necessità che l’arte dovesse, oltre che divertire, educare; quindi anche la musica deve trasmettere dei contenuti. D’Alembert c’illustra la posizione dei conservatori: “Avete una mentalità ben limitata, ribattono i nostri grandi uomini politici, tutte le libertà sono legate tra loro e sono ugualmente pericolose. La libertà della musica presuppone quella di sentire, la libertà di sentire porta con sé quella di pensare, la libertà di pensare quella di agire e la libertà di azione è la rovina degli stati”. La preferenza per l’opera italiana o per quella francese equivale allora ad una scelta di campo: per la libertà democratica o per la tirannide.

 In Italia a parlare di teatro sono soprattutto i letterati, che, nonostante gli spettacoli siano sempre affollati, dal Muratori all’Alfieri, forse con la sola eccezione del Verri, disdegnano uno spettacolo giudicato insulso, frivolo e diseducativo; per loro il melodramma resta una tragedia con in più la musica, non necessaria ed addirittura disturbante. L’Algarotti afferma nel 1755 nel “Saggio sopra l’opera in musica”, che al compositore: “Oggi non gli può entrare in capo ch’egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della musica ne viene dallo essere ministra ed ausiliaria della poesia”.

Antonio Panelli nel suo saggio “Dell’opera in musica” (1772) accoglie la riforma di Calzabigi e di Gluk ed indica nel patetico la dimensione propria del melodramma, evitando i virtuosismi eccessivi, le ripetizioni delle arie, le note troppo acute o gravi.

Gluk sintetizza la sua riforma del teatro in questa frase, scritta nel 77 al Jurnal de Paris: “L’unione tra la parola ed il canto deve essere talmente stretta che la poesia deve sembrare scritta sulla musica non meno che la musica sulla poesia”. Gluk e Calzabigi si pongono in una nuova atteggiamento di sintesi delle posizioni antagoniste precedenti; accogliendo le critiche dei tradizionalisti sugli eccessi del melodramma, senza cadere nella condanna moralistica, ad esempio espressa ancora dall’Alfieri nell’introduzione allo ”Abele”, senza ritenerlo un genere peggiorativo della tragedia; accettando di comunicare le emozioni vere, mirando non al bello, ma all’espressivo. Il secolo si chiude con l’ultima querelle, che indica nel bel canto italiano di Piccinni gli ideali classicheggianti di un’arte bella, levigata priva d’alcuna asprezza. Le posizioni si ribaltano ed ora i sostenitori del bel canto italiano si trovano nel versante della tradizione e quelli di Gluk e della Francia su quello opposto dell’innovazione. La sintesi di Gluk chiude un’epoca, sarà Mozart a segnare una nuova via per il melodramma, ad indicare al romanticismo la soluzione per superare la divisione tra l’opera seria e quella buffa.

Nella seconda metà del secolo nasce la storiografia della musica. La perdita di tutta la musica greca e romana, la difficoltà di decifrazione di quella medioevale, e la produzione d’opere fino allora destinate a vita molto breve, avevano impedito la sua ricostruzione storica. Ora la querelle tra antichi e moderni, introducendo il confronto tra i generi ed il concetto d’evoluzione musicale, porta alla necessità di studiarne lo sviluppo. Da una parte i tradizionalisti, che vedono solo nel passato il modello di riferimento; dall’altro chi crede nel progresso dei lumi, in grado viceversa di riscattare l’umanità dalla barbarie del passato. Citiamo come esempio d’appartenenza ai primi padre Martini, tipico esempio d’erudizione antiquaria, che inizia la pubblicazione di una monumentale storia della musica, di cui escono solo i primi tre volumi nel 1757, ’70, ’81, fermandosi alla musica degli ebrei nel tempio. Di particolare importanza la biblioteca da lui lasciata a Bologna. Nel campo dei secondi  Charles Burney con la “General History of music from the Earliest Ages to the Present Period del 1776-89. Egli vede la musica non come una scienza, ma come cultura inserita nel periodo sociale e storico. Contribuiscono alla critica ed alla storiografia della musica anche i giornali, come: lo “Spectator” inglese, od il glorioso “Mercure de France”, od “il Caffè” del Verri.

Resta generale l’atteggiamento moralista di condanna degli attori. Molière è seppellito di sera, nel cimitero di Saint-Joseph, riservato ai pazzi, ai suicidi ed ai bimbi morti non battezzati; e ciò fu possibile solo grazie ad un preciso ordine del re. Benché non vi sia stato alcun annuncio, diverse centinaia di persone seguono il suo funerale. In occasione della sua morte il compianto è generale, per quanto il solito bigotto scrive che si trattava di: “Un pagliaccio miserabile che, avendo in vita sua pensato solo a far ridere la gente, non ha considerato che Dio se la ride dei peccatori che aspettano l’ultimo momento per invocarlo.”.

Fino al 1681 le ballerine sono impersonate anche in Francia da uomini travestiti. A Roma i castrati continuano ad interpretare le parti femminili fino all’arrivo dei francesi di Napoleone.

 

Il gioco e la prostituzione.

Il Settecento è anche il secolo del gioco. Tutti i ceti sono pervasi da questa febbre del rischio, ma soprattutto l’aristocrazia sublima nel gioco un desiderio di vitalità, che sente sfuggirgli. Intere sostanze sono dilapidate al tavolo da gioco. Anche i borghesi sono coinvolti, ma in maniera differente; è spesso solo dopo l’acquisizione di un titolo, diventati a loro volta nobili, che essi assumono tutti gli atteggiamenti degli aristocratici, quasi che il lusso e lo spreco caratterizzino questa classe. Vivere giocando come un  Casanova e cercare di far soldi col gioco è una pratica ritenuta del tutto lecita. Venezia è il grande casinò d’Europa. Qui dal 1638 Palazzo Dandolo è trasformato nel famoso Ridotto, casa da gioco pubblica gestita dallo stato, aperta durante il Carnevale, che però allora poteva durare fino a sei mesi. Nel 1768 esso è costituito da una grande sala centrale e da dieci ampie camere laterali. I Croupiers, vestiti con la toga nera e la grande parrucca bianca, chiamati tagliatori dalla loro funzione di tagliare il mazzo nel gioco più famoso quello del Faraone, sono esclusivamente nobili, spesso decaduti e bisognosi dello stipendio percepito per tale funzione. I giocatori possono entrarvi unicamente mascherati; il che favorisce il mischiarsi di nobili, avventurieri, dame e cortigiane. Il Maestro del Ridotto funge da direttore e provvede alle varie esigenze dei giocatori, compreso il prestare denaro su parola; la parola è d'altronde considerata sacra ed il prestito và reso entro il giorno successivo. Si giocano molti giochi, ma i più diffusi sono nell’ordine il Faraone, la Bassetta, il Biribisso (antesignano della moderna Roulette) ed il Trictrac (odierno backgammon). Si prediligono i giochi ad alto rischio in cui conta più la fortuna che l’abilità, ma si giocano anche gli altri come il Tressette o gli Scacchi. Il Ridotto pubblico è chiuso nel 1774, essendo il gioco indicato quale principale causa di decadenza della Repubblica Veneta, ma ciò non ferma di certo il gioco d’azzardo, anzi esso si diffonde ancor più nei casini e nei ridotti privati. Tutti gli stati d'altronde continuano a gestire il gioco del Lotto e le Lotterie. Il Lotto nasce a Genova e la prima giocata a Venezia pare sia del 5-4-1734.

Il gioco è sempre stato oggetto di repressione, indicato quale strumento del Demonio e distruttore delle famiglie, dei patrimoni quando non addirittura degli stati. Numerosi e continui sono nei secoli le leggi ed i bandi succedutesi in ogni paese, al fine di reprimere, anche con svariate pene corporali, il gioco d’azzardo; ma altrettanto numerosi i manuali sul gioco, spesso mascherati di buone intenzioni. Come quello edito in Bologna nel 1774, da frate Antonius Bartolotti provicario del Santo Ufficio. Nella cui presentazione al lettore si insiste sulla moralità dell’opera, che dopo aver posto il gioco d’azzardo: ”Fra gli onorevoli piacevoli divertimenti destinati al ristoro, e al sollievo della fragile umana natura, merita certamente di essere annoverato il giuoco, il quale … pare che più di ogni altro possa condurre a ricreare la mente da seriose faccende ingombrata”. Si riconosce che esso può essere fonte di litigi e della rottura delle amicizie più profonde, ma s’imputa la causa alla cattiva conoscenza delle sue regole, per cui:  “A rimuovere dunque un si fatto principio, io ti presento, o leggitore,  una serie di vari giochi, o a dir più vero, le leggi ti porgo.”. Segue l’esposizione di ventisette giochi, dal relativamente innocente, si scommette su tutto, gioco del biliardo a quello totalmente d’azzardo del Garillè.

Libertino significa giocatore, ma anche soprattutto dissoluto. Il gioco si accompagna spesso alla frequentazione di cortigiane e di prostitute.

Nello spirito della controriforma la vita sessuale è apparentemente rigidamente regolamentata. Il coito è ammesso solo ed unicamente quando finalizzato alla procreazione. Per i moralisti, d’impostazione agostiniana, perfino il vago pensiero del piacere, anche durante un rapporto iniziato con la sola intenzione di procreare, è da considerarsi quantomeno peccato veniale. Un’impostazione più duttile, ispirata dalla lettura di San Paolo, riconosce il “debito coniugale”, in altre parole l’obbligo di ottemperare ai doveri coniugali; ed ammette il coito anche per impedire che la lussuria faccia compiere peccato. In tutti i casi è da considerarsi peccato mortale il rapporto esterno al matrimonio, che può comportare anche il bando perpetuo; e se compiuto tra celibi è obbligatoria la riparazione, con il matrimonio, se la coppia appartiene allo stesso ceto ed in caso contrario con somme di denaro. I rapporti sodomiti, sia etero che omosessuali, sono sanciti persino con la pena di morte. Questo clima giuridico in realtà risulta spesso più formale che sostanziale. La presenza delle cortigiane e delle prostitute ne sono la prova più evidente. Gli aristocratici ed anche i regnanti mantengono amanti private e pubbliche, come la celebre marchesa di Pompadour, una delle donne più potenti del tempo, che quando entra a corte è così annunciata: “Voila la putain du Roi”. Anche in questo caso accanto alla pubblicazione di continui editti e bandi repressivi fiorisce quella d’ogni genere di stampa licenziosa ed erotica. L’esempio più eclatante è forse costituito dalla stampa a Venezia, già nel 1673 per opera del romanziere Ferrante Pallavicino, membro di quell’Accademia degli Incogniti che raggruppa l’intellighenzia intellettuale, de “La Retorica delle Puttane composta conforme li precetti di Cipriano, dedicata alla Università delle Cortigiane più celebri” nella cui dedica ai lettori egli dichiara di non volere insegnare alle donne ad essere buone puttane, ma agli uomini la necessità di fuggirle. In essa si descrive l’ambiente del meretricio, che deve essere pulito e: “Dovrà provvedersi di figure lascive, addobbando le stanze o almeno la parte che è in faccia al letto di pitture rappresentanti atti impudici. Fanno mirabile effetto…”. Quindi le condizioni del contratto: “quando il prezzo è pronto, e eguale a pretensione ragionevole, l’intero corpo della Puttana è venduto; quindi non più sua, è di chi la comprò per determinato tempo, nello spazio del quale deve accomodarsi totalmente a sua disposizione”. Totalmente comprende anche l’adeguare il linguaggio a quello del cliente e se: “Si compiace taluno d’udire orrende bestemmie o le più esecrabili ingiurie, quasi delirante farnetichi e impazzisca per l’estremo piacere. Conviene assentire all’umore di costoro e parlare a loro grado…”. Ricordiamo che per la bestemmia pubblica o privata esistono pene severissime, che per i bestemmiatori incalliti giungono fino alla pena di morte. Anche i rapporti contro natura devono essere concessi, ma: “Quando anche vuol sostenere la propria riputazione, non ricusi questo modo di compiacere a tal prurito e col sonno o con semplice inavvertenza comportandosi quasi delusa, di maniera che incolparsi non possa di aver volontariamente condisceso. Neghi con le parole e poi conceda con gli atti…”. Tutto ciò scritto con mascherati intenti moraleggianti dimostra inequivocabilmente il clima superficiale, edonista ed ambiguo dell’epoca.

 

La vita dei parigini.

Parigi conta, all’inizio del Settecento, circa cinquecentomila abitanti ed è la città più popolosa d’Europa, seguita da Londra. Il lavoro è organizzato diviso per quartieri. La regia manifattura dei Gobelins, situata nel quartiere di Saint-Marcel, impiega sino a settecento operai. La maggior parte dei tappezzieri sono fiamminghi, i marmisti italiani. Le altre manifatture regie sono situate: al Faubourg Saint-Antoine le seterie leggere ed i brunitori di specchi, al Faubourg Saint-Germain le vetrerie, a rue Saint-Avoye i tessuti dorati, al Château de Madrid le calze di lana, ecc. Occupano centinaia di lavoranti, che per undici ore al giorno hanno come unico riposo il diritto di cantare inni religiosi durante il lavoro.

Gli artisti stranieri si concentrano in rue du Sépulcre, l’attuale via du Dragon, corrispondente nello stesso periodo a via Margutta ed a via del Babbuino a Roma. Presso al ponte di Notre-Dame si concentrano pittori, rigattieri e mercanti di quadri, di mediocre qualità, chiamati con disprezzo: pittori di Pont Notre-Dame.

La corte si trasferisce a Versailles nel 1682. Intorno al Louvre si concentrano le abitazioni dei ministri e degli alti funzionari. L’île de Saint-Louis ospita i lussuosi palazzi dei ricchi avvocati, che hanno ottenuto la patente nobiliare (nobiltà “di toga”), acquistando una delle alte cariche dello stato. Questi non sono chiamati palazzi, ma soltanto case, nonostante siano tra i più belli di Parigi, per marcare la distinzione con l’aristocrazia di sangue. Il matrimonio delle figlie dei nobili avviene di norma con altri nobili “di spada”, cioè d’antica estrazione, per salvaguardare il nome. Al contrario i maschi sposano tranquillamente le figlie dei ricchi borghesi, se appena la loro dote è sufficientemente cospicua. Si dice: “ingrassare le proprie terre”. I poveri sono distinti in due tipologie: i “poveri vergognosi”, che non vivono d’elemosine ed i mendicanti.

Al centro della via scorre il canale di scolo, perciò è necessario camminare lungo i lati e cedere il passo alle donne in cinta ed ai nobili. Le fogne percorrono circa dieci chilometri, ma di questi otto a celo aperto. Al grido: “attenti all’acqua” sono svuotati dalle finestre i pitali. Naturalmente i rivieraschi gettano ogni cosa direttamente nelle acque. Spesso gli accessi stradali alle fogne sono ostruiti e le acque putride si riversano nelle strade. Questo “fango di Parigi” provoca un forte puzzo, descritto da tanti scrittori, che quando si sporcano i vestiti la macchia “andava via con tutta la stoffa”. Si propone di istituire “sedili” pubblici, ma tutti, nobili e plebei, continuano a fare i loro bisogni per strada pubblicamente, come peraltro si fa a Versailles alla presenza stessa del re. Un servizio antincendio è predisposto ed al suono di una campana a martello gli addetti accorrono con secchi e prelevano l’acqua dalle vasche delle fontane ed anche dai pozzi privati. Dal 1705 è creato un vero e proprio corpo del genio dei pompieri.

Le insegne sono generalmente dipinte da pittori modesti e si ricorre spesso ai rebus od ai giochi di parole. Ad esempio la casa di un tale Chalier (chat lier in francese legare il gatto) è indicata da un gatto legato; un cigno accanto ad una croce per “Al segno della croce” (cigno, Cygne, che in francese, si pronuncia uguale a segno signe); per “Au grâcieux” (gli eleganti) tre grassoni nell’atto di segare (da gras grassi e scieur segatori, che si pronunciano uniti uguale a grâcieux).

Per i trasporti per le brevi distanze si usano le portantine, di proprietà o pubbliche, e le Vinaigrette, trainate da un uomo. I fiacre, ovvero le carrozze a noleggio per una sola corsa, prendono il nome da un santuomo, il cui ritratto appare per qualche tempo sulle loro fiancate. Si possono poi noleggiare belle carrozze a giornata. I borghesi e gli artigiani usano dei carretti. Le carrozze private sono più di quattromila. Le carrozze grandi a doppio fondo a quattro od a sei cavalli, otto spettavano solo al re, che mantenevano la distanza dai pedoni, circolano principalmente intorno al Louvre, anche perché altrove le strade sono troppo strette. Sembra che tale limitazione al traffico abbia costituito una delle cause dello spostamento della corte a Versailles, mentre l’assenza di fogne, che aveva reso l’aria della reggia irrespirabile, sia stata una delle cause del ritorno successivo della corte a Parigi. I vetturini conducevano le carrozze a tutta birra ed i pedoni devono affrettarsi a farsi da parte, addossandosi ai muri o tuffandosi nei portoni.

La sanità pubblica è costituita dagli ospedali, gestiti normalmente dalla chiesa. Il più importante è l’Hôtel de Dieu, che accoglie da due a quattromila pazienti e sui cui letti, progettati per quattro-sei malati coricati testa piedi, si giunge a stiparne fino a dodici, più altri quattro sul tetto del baldacchino. I medici anche se volenterosi sono totalmente privi di nozioni igieniche, ignoranti e spesso saccenti. Le operazioni, di cui le più comuni sono le amputazioni, sono eseguite senza alcuna anestesia nei corridoi alla presenza degli altri ammalati. La mortalità è altissima. L’assistenza è affidata ad un direttore, ecclesiastico, ad una madre superiora, a vari cappellani per la cura spirituale dei malati, di cui quattro sacerdoti per gli agonizzanti. Le cure spettano ad otto medici coadiuvati da apprendisti chirurghi e farmacisti, che eseguono le visite a partire dalle sei del mattino, seguiti da suore e giovani medici, che dal 1707 devono seguire due anni di tirocinio dopo gli esami, che si svolgono ogni due anni. Tali esami consistono in una tesi cardinalizia su di un argomento d’igiene, ed in una tesi a piacere su argomenti spesso stravaganti, del tipo: la sregolatezza comporta la calvizie? Può un sano bere  due volte al mese? Può un uomo trasformarsi in donna? E’ migliore il tal vino od è più sano il tal altro? Ecc. Poi seguono per una settimana gli esami d’anatomia. Durante i corsi d’anatomia si eseguono alcune dissezioni di cadaveri, solo d’inverno, unica stagione in cui  possono essere conservati, generalmente di condannati a morte. Particolare interessante tali dissezioni sono eseguite da cerusici-barbitonsori, che operano secondo quanto loro indicato dall’alto della cattedra dal professore, la cui dignità non consente nessun’operazione manuale.

Vi sono poi cento suore vestite di nero e cinquanta novizie di bianco, che praticamente vi passano la vita. Il problema principale è la mancanza di spazio, causa principale della cattiva igiene, nonostante l’abnegazione delle tre suore lavandaie e delle sei suore lavanderine, che persino nelle più rigide giornate invernali, anche di notte lavano le lenzuola immerse fino al ginocchio nelle acque gelate della Senna.

Oggi le chiese dell’epoca ci sembrano splendide, ma pensate come devono apparire al popolo minuto allora, rivestite d’opere d’arte, ormai in gran parte assenti, durante lo svolgimento delle funzioni solenni o dei funerali in pompa magna, in cui lo straripare dei ceri fece coniare il termine di camere ardenti. Esse costituiscono ai suoi occhi un vero e proprio abbagliante spettacolo, l’unico a cui può assistere, essendo peraltro il solo palazzo cui ha accesso. I predicatori occupano un posto d’eccellenza. Le dame mandano i propri servi ad occupare i primi posti fin dal mattino. Dal pulpito si assiste a vere prove d’eloquenza, di cui il pubblico colto apprezza i giri di parole, le allocuzioni ricercate, la valentia retorica. Un sermone di Bourdaloue può durare anche sei ore. Il culto delle reliquie arriva a livelli, che oggi appaiono ridicoli. Si adorano gli oggetti più improbabili: pezzi della corona di spine, la spugna imbevuta d’aceto della passione, la lanterna di Giuda, la verga di Mosé, le gocce del latte della vergine, gli immancabili frammenti della croce, ecc.

I caffè appaiono nel 1669, per imitazione dell’ambasciata turca. In essi si serve anche la cioccolata, da bere (la coccolata solida sembra sia stata realizzata per la prima volta da Majani di Bologna nel 1789), e le varie bevande alcoliche e non. Vi si può anche fumare, nonostante sia vietato. I caffè sono più di trecento, ma ciononostante sono piuttosto malvisti, perché i dottori ritengono che il caffè porti all’impotenza. Innumerevoli cabaretsforniscono pasti a partire da pochi soldi per arrivare a prezzi esorbitanti per quelli alla moda vicino al Louvre, che servono in vasellame d’argento pranzi degni dei principi. Nelle bettole esclusivamente si beve.

Tra gli spettacoli si prediligono i fuochi d’artificio, la cui tecnica è stata importata dall’Italia.

Per gli amatori d’arte non c’è bisogno di musei, oltre alle chiese si possono visitare le case più belle, spesso a pagamento. Anche le gallerie private sono visitabili, anche se con maggiori difficoltà. È ritenuto doveroso rendere accessibili le opere d’arte private.

D'altronde in Inghilterra recentemente ho incontrato un commerciante, che si fa pagare per visitare la sua bottega.

La fiera di Saint-Germain dura due mesi ed è un vero e proprio avvenimento. Ventiquattro padiglioni divisi da strade coperte ospitano numerose botteghe di proprietà od in affitto, che nel periodo di chiusura fungono da rimesse per le carrozze pubbliche. Al suo interno, facendo parte del comprensorio dell’abbazia, non sono valide le regole delle corporazioni ed anche i maestri stranieri e coloro che sono senza licenze possono vendervi liberamente. Tutti i generi di lusso vi sono presenti, divisi per tipologie e per strade. Ad esempio nella strada dei pittori francesi e stranieri si ammucchiano uno sull’altro una quantità incredibile di quadri. Però i quadri dei pittori privi di licenze devono essere portati di notte e con vari stratagemmi, perché intorno ai terreni dell’abbazia sono in agguato poliziotti incaricati dalle corporazioni di sequestrare loro le tele. I nobili vi si recano la sera e le dame mascherate sono accompagnate dai loro ammiratori, che offrono loro continuamente gioielli e fazzoletti ricamati.

Dal 1665 i diplomati dell’Accademia, vincitori del primo e del secondo premio, possono recarsi a Roma ed esservi mantenuti per tre anni a spese del re per perfezionarsi a contatto con le grandi opere del passato. Quando tornano entrano a bottega da un maestro dove si formano alla sua scuola. È loro richiesto di apprendere il più possibile lo stile del maestro. In un’epoca in cui non è ancora definito il concetto di proprietà artistica, non  si pretende autonomia ed originalità. In questo modo si possono eseguire le grandi opere ed i cicli pittorici collettivamente, magari specializzandosi ognuno in un campo: chi le mani, chi i piedi, chi gli alberi, ecc. Compito del maestro è eseguire gli schizzi preparatori, coordinare ed omogeneizzare il tutto ed eseguire le parti più complesse come i visi. Da qui l’oggettiva difficoltà di distinguere oggi la mano del singolo artista. L’opera è soggetta ad una trattativa tra il committente e l’esecutore, che definisce non solo i costi, ma anche le misure ed i soggetti; spesso si allegano precisi schizzi e disegni, preventivamente approvati. Tutto ciò è considerato naturale e nessun artista si sente menomato o limitato nella sua libertà artistica. I ritratti prendono sempre più piede e secondo l'importanza del personaggio se n’eseguono più repliche da distribuire ai parenti e se ne fanno diversi nelle varie età della vita; un poco come oggi con le fotografie. I Salons permettono ad un grande pubblico di vedere le opere degli artisti più in voga. Il più antico di cui sia giunto a noi il catalogo, è del 1673 e vi partecipano anche tre donne. Grande è il loro successo. L’entrata è gratuita e vi accedono a migliaia anche i popolani. I collezionisti arrivano a possedere centinaia di quadri e migliaia di disegni, più un incalcolabile numero d’incisioni. Con i resoconti delle esposizioni nasce la moderna critica d’arte, che non si trova più sparsa all’interno degli scritti sulle vite degli artisti, ma si occupa direttamente delle opere e si propone di rappresentare il giudizio del pubblico.

Nelle dimore più ricche si riceve gente di continuo e gli ospiti si presentano anche non annunciati. In particolare approfittano di questa situazione i letterati, che passano da una all’altra casa o sono ospiti fissi, anche per la notte. Si mangia a mezzogiorno ed alle sei e se gli ospiti sono troppi alcuni sono sistemati anche in cucina assistiti da servi. Si apparecchia in anticamera, non esistendo che rarissime sale da pranzo destinate esclusivamente allo scopo, ed il maggiordomo, che nelle case di rango può essere anche un nobiluccio con la spada al fianco, coordina i lacchè. I pranzi sono abbondanti ed a base di carne, il venerdì e negli altri giorni di magro di pesce, con pochi legumi e la frutta. Si mangia a capo coperto. I bicchieri non sono sulla tavola, quando si desidera bere si fa segno ad un servitore, che immediatamente serve; il bicchiere di vino và bevuto di un sol fiato. Sotto Luigi XVI si abolisce la tortura e si svuotarono le carceri, tanto che i Parigini nel famoso assalto alla Bastiglia non liberano che sette prigionieri.

 

La massoneria.

Molte sono le opinioni su quest’associazione e sulla sua influenza reale o presunta negli avvenimenti di questo secolo, in cui essa conosce un impressionante sviluppo. Alcuni elementi sono indiscutibili. Essa annovera per tutto il secolo tra le sue file personalità di primo piano. In Inghilterra da quando il 24 giugno 1717 le quattro logge londinesi si fondono nella Grande Loggia d’Inghilterra e grazie all’opera di Jean-Théophile Desaguliers, eletto gran maestro nel 1719, la massoneria azzurra comincia la sua espansione, ad essa aderiranno via via i più importanti personaggi fino allo stesso principe di Galles. In quindici anni essa diviene il centro della massoneria inglese ed in trenta del mondo intero. Si aprono logge: a Mons 1721, a Gand ’22, a Parigi ’26, in Russia nel ’31, in America ’31, a Firenze ’33, in Polonia ’35, a Lisbona ’35, a Ginevra ’37,  ad Amburgo e Mannheim ’37, a Copenaghen ’43.

La massoneria nasce all’interno delle associazioni di muratori (maçons), che durante il Medioevo partecipano alla costruzione delle grandi cattedrali gotiche. I rituali d’iniziazione, l’obbligo di mantenere celati i segreti di costruzione, il cameratismo e l’egualitarismo ne costituiscono le basi. Col tempo in tutta Europa queste corporazioni si trasformano in associazioni più o meno segrete. Desaguliers scrive nel 1723 le “Costituzioni dei liberi massoni” dando un ordinamento stabile ed uniforme alle logge. Se in Inghilterra la massoneria diviene lo strumento di sostegno della monarchia inglese anglicana dopo gli Stuart, in Francia s’identifica con il movimento dei lumi ed annovera fra i suoi aderenti i maggiori intellettuali dell’epoca: Voltaire, Rousseau e Diderot, che non è certo fosse massone, ma senz’altro è favorita dai massoni la sua maggiore opera l’Encyclopédie. In America sono massoni Benjamin Franklin e Gorge Washington e la massoneria fornisce una parte della struttura organizzativa ed ideale alla Rivoluzione americana. Sembra che lo stesso saccheggio delle navi inglesi, con il successivo scarico in mare del loro carico di the, episodio fondamentale della ribellione contro la tassazione imposta dagli inglesi ed azione che è considerata l’inizio della rivolta, sia stato organizzato dalla massoneria. Certamente gli ideali d’eguaglianza e di progresso propugnati dalla massoneria sono tra gli elementi preparatori della grand’esplosione della Rivoluzione francese. Le 104 logge esistenti, con la fondazione del Grande Oriente di Francia nel 1772 e l’elezione del Gran Maestro, nella persona del duca di Chartres, nel 1774, diventano nel 1789: 442 in provincia, 65 a Parigi, 69 nei reggimenti, 39 nelle colonie e 17 all’estero. Basti pensare alla parte avuta nella Rivoluzione da un altro grande massone La Fayette. Durante la Rivoluzione la forza della massoneria regredisce e nel 1793 il Gran Maestro la pone in “sonno”, vale a dire ne sospende l’attività. Essa riprende vigore con il più importante tra i massoni, Napoleone, che riempie le logge d’Europa di suoi congiunti.

Il successo della massoneria è dovuto a due fattori sostanziali. Il primo l’egualitarismo, che ponendo sullo steso piano gli iniziati avvicina i diversi ceti al medesimo progetto; anche se per legare a se gli aristocratici si deve arrivare all’istituzione, generalizzata dopo il 1738, di un terzo grado, quello dei Gran Maestri, oltre a quelli d’Apprendista e di Compagno, in cui situare l’alta aristocrazia. Il secondo è il mistero, di cui il segreto delle logge si circonda. Questo alone d’arcano già presente nei rituali, si accentua con la creazione delle logge del Gran Oriente, che inserisce il mito di un’oscura origine da un antico architetto ebreo, costruttore del tempio di Salomone ed altri elementi misteriosi di derivazione egizia, ecc. Cagliostro crea la sua loggia in Francia nel 1785. Tali elementi permettono la penetrazione della massoneria anche nelle aree cattoliche, da cui il papato è fino allora riuscito a tenerla sostanzialmente fuori. La società settecentesca è particolarmente attratta dall’essoterismo, che rimane collegato alla ricerca alchemica della pietra filosofale, e quindi alla prospettiva di un facile guadagno; ma la sua attrattiva scaturisce soprattutto dalla necessità di cercare nuovi principi di riferimento, dopo la crisi delle certezze religiose e culturali indotta dalle lotte di religione e dalle nuove scoperte scientifiche. La massoneria assume i connotati di una vera e propria religione, non opposta al cristianesimo, ma all’organizzazione ecclesiastica; è pervasa da uno spirito messianico teso al progresso dell’umanità ed alla diffusione degli ideali illuministici, propagandati direttamente o attraverso il controllo d’altre associazioni, come: in Francia la “Società degli Amici dei Negri”, che propugna la fine della schiavitù; od in America i “Figli della Libertà”. La sua influenza è determinata dalla massiccia adesione dell’aristocrazia, che senza rendersene conto, affascinata dal gusto dell’eccentrico e del mistero, prepara la sua stessa caduta.

 

Lo schiavismo.

Abbiamo accennato ad uno degli ideali dell’Illuminismo, quello dell’abolizione della schiavitù; ma in che clima culturale evolve tale richiesta ed il parallelo mito del buon selvaggio.

Nel Settecento comincia quel processo di revisione critica, che porterà alla dichiarazione dell’abolizione della schiavitù durante la Rivoluzione francese.

Bisogna chiarire che le simpatie dimostrate dai philosophes illuministi indicano  una reale presa di coscienza del fenomeno; ma non sono dettate prevalentemente da pensieri umanistici o religiosi, bensì da principi d’opportunità economica e dal riconoscimento della necessità storica del superamento di quest’istituto. 

Le rivolte di schiavi, che interessano tutto il secolo e che si risolvono nel Marronage, ossia nella riunione in grosse bande dei ribelli, inducono gli amministratori coloniali a considerare il reale pericolo, che esse costituiscono per i coloni e l’economia coloniale. Esse sono documentate costantemente, ad esempio quelle del 1720 e del 1734 in Giamaica da Prèvost nella “Histoire des voyages” e da Reynal per il periodo 1739-70. La prima reazione di fronte all’estendersi delle rivolte, è il tentativo di comprenderne le cause e di attribuirle alla spietatezza dei padroni nei confronti dei loro schiavi. Continue sono le esortazioni agli amministratori ed ai coloni, di trattarli umanamente, secondo il codice “negro”. Di non affamarli, di favorire i matrimoni e di somministrare il battesimo obbligatorio. Non si mette in discussione il principio della schiavitù, ma con la paura delle rivolte, che provocarono la morte del dieci per cento dei bianchi, si condanna il comportamento dissennato dei padroni “cattivi”, che con le loro angherie costringono il negro alla rivolta. L’organizzazione in bande dei marrons costituisce una forte attrattiva nei confronti di tutti gli schiavi. Si comincia a rendersi conto, che la situazione sta precipitando ed a lungo andare si farà insostenibile. Esiste una chiara connessione tra i documenti e le relazioni provenienti dalle colonie ed il formarsi di sentimenti antischiavistici. La soluzione proposta inizialmente è quella ad esempio dell’intendente per le colonie Poivre, che nel 1767, al suo arrivo nelle colonie, così riassume i motivi di lagnanza nei confronti dei cattivi padroni: “Lo spirito della legge ha permesso ai francesi di possedere schiavi nelle colonie…Questa legge esige, che il padrone li vesta e li tratti con umanità…tuttavia vi sono molti vecchi schiavi ai quali i loro padroni non hanno ancora pensato di far conoscere la verità della religione…che concedono come solo nutrimento le radici caustiche e velenose del songe che permettono agli schiavi di andare a strappare sulle rive dei fiumi…che, infine, si vedono nell’isola molti di questi disgraziati privi di qualsiasi veste, e che più di milleduecento sono stati costretti a fuggire nei boschi per i maltrattamenti…Lo schiavo, indennizzato secondo lo spirito della legge della perdita della propria libertà con la conoscenza della religione, consolato dalla certezza delle sue promesse, incoraggiato dalla saggezza delle sue massime, servirà il proprio padrone con gioia e fedeltà.”. Perciò nelle ordinanze che seguono si prescrive il battesimo obbligatorio, la proibizione di far lavorare senza il preventivo permesso del curato la domenica e gli altri giorni di festa, l’obbligo di somministrare due libbre di mais al giorno, e di non dare per punizione più di trenta frustate.

E’ necessario riformare il sistema schiavistico pena il fallimento della politica coloniale ed il grave danneggiamento del commercio, che ormai ha assunto dimensioni troppo consistenti nell’economia borghese.

Ci si rende ben presto conto che tali palliativi non sortiscono risultati stabili ed adeguati. Nel 1771 un articolo pubblicato da Dupont de Nemours nella “Ephéméride” tira le somme di quanto antieconomico risulti il sistema schiavistico. Egli afferma che nella tratta-commercio dei neri non vi è guadagno. Basta sommare il prezzo d’acquisto, la perdita cagionata dalla mortalità, calcolabile in dieci anni di vita utile per lo schiavo ed in quindici per il sorvegliante, le spese per il vestiario ed il nutrimento, le spese per l’esercito ed i pericoli connessi alla lotta contro le rivolte, il tempo perduto, il costo delle proprietà e delle piantagioni distrutte, il valore degli arnesi danneggiati dall’incuria, la pessima resa di raccolti mal preparati. Tutto ciò causato dalla condizione di schiavo, che determina la pigrizia, la cattiva volontà e la rivolta. Bessner afferma: “Non basta perorare la causa degli schiavi in base al principio del diritto naturale” e “Lavoratori liberi mantenuti e trattati meglio degli schiavi sarebbero più svelti e più vigorosi. Ad una forza meccanica aggiungerebbero l’intelligenza e la buona volontà che mancano alla maggior parte degli schiavi”. Per i filosofi fisiocratici umanitarismo ed economia politica coincidono è dalle condizioni di vita che dipende la qualità del lavoro. Più che un crimine la schiavitù è un errore. Il lavoro degli schiavi non rende ed il trattamento loro riservato è decisamente antieconomico. Allora ecco la soluzione: meglio liberarli e trasformarli in lavoratori salariati.

Diderot dà nell’Encyclopédie la seguente definizione di libertà: “La proprietà di sé”. E Reynal scrive: “fino a quando non nascerà tra loro un Montesquieu, saranno più prossimi alla condizione di uomini ragionevoli, diventando nostri contadini che non restando nel loro paese sottomessi a tutti gli eccessi del brigantaggio e della ferocia”.

La borghesia interviene dunque prepotentemente anche in questo dibattito introducendo i propri principi d’economicità, contrapposti alle pretese di differenze e superiorità razziali, continuando a demolire il principio di distinzione per nascita.

 

Il mito del buon selvaggio.

L’idea religiosa della creazione rivelata entra in crisi allorquando gli europei, in quest’epoca di grandi esplorazioni, entrano in contatto con le popolazioni esotiche indiane, amerinde e nere. Tali popoli non rientrano nello spirito europocentrico delle concezioni tradizionali. La chiesa si sforza di farli ricomprendere nella scrittura biblica, indicandoli come figli di Japhet, di Cam o di Caino. Gli indigeni possono rientrare a far parte della cristianità grazie all’evangelizzazione. I missionari creano il mito del selvaggio buono, la cui vita naturale e semplice risalta paragonata alla corruzione degli europei. Per contro “libertini” ed umanisti indicano in loro l’esempio della superiorità della morale naturale, innata nell’uomo di là dal credere o meno in Dio. Questi popoli non sono visti nella loro realtà, ma idealizzati. La loro felicità nasce dalla loro ignoranza dei mali tipici della civiltà. Nel dibattito se la felicità è propria della condizione d’uomo civile o di quella di selvaggio, risiede il vero interesse antropologico dell’epoca. Il selvaggio serve solo come momento di confronto e d’indagine critica della società occidentale. La parola antropologia nasce nel 1788 a Losanna, allorché Edouard Chavannes pubblica “Antropologie, ou science générale de l’homme”. In precedenza antropologia è un termine usato in medicina. Ai philosophes le uniche informazioni giungono dalle relazioni di viaggio. Tali relazioni sono estremamente frammentarie e si occupano più delle peripezie del viaggio che della descrizione delle popolazioni incontrate. In oltre il punto di vista è sempre quello personale del viaggiatore. Non è ancora nato il concetto d’indagine imparziale. La visione illuminista è quindi viziata da problemi oggettivi ed ancor più da un approccio ideologico. Nel momento in cui s’incomincia a dedicare più attenzione all’indagine sul campo, ormai è troppo tardi, il contatto con la civiltà ha già spazzato via tradizioni e culture; quando non ha eliminato fisicamente le popolazioni oggetto d’indagine. Nel 1783 Diderot scrive: “se consideriamo l’odio che i selvaggi nutrono tra tribù e tribù, la loro vita dura e bisognosa, la continuità delle loro guerre, le innumerevoli insidie che non cessiamo di tendere loro, non potremmo evitare di prevedere che essi saranno scomparsi dalla faccia della terra prima che siano passati tre secoli”. D’altronde la pietà per le loro sorti trova una sola risposta unanime, un unico rimedio, la civilizzazione, che insieme all’evangelizzazione diventano la giustificazione della colonizzazione. Esiste una scala su cui distribuire l’umanità: sul gradino più alto l’europeo, cui la storia ha dato la civiltà e sugli altri gli indigeni, barbari ed ignoranti che la natura ha finora privato di quella che è considerata una tendenza dell’evoluzione.

 

Il romanzo in Europa ed in Italia nel Settecento.

Il romanzo costituisce nel Seicento una porzione già considerevole della letteratura e diviene nel Settecento il genere dominante. Abbandonato il gusto per la formula ricercata, spiritosa, aristocratica; comincia quell’indagine psicologica del protagonista, ma anche degli altri personaggi, tipica del romanzo borghese.

Non si giunge allo sviluppo che esso avrà nello XIX secolo, ma gli eroi si fanno più umani, privati dell’alone d’eroismo e l’amore diventa una condizione vergognosa ed umiliante, che s’impossessa dell’anima, assoggettandola ai suoi voleri ed occupando il centro dell’azione.

Diderot apprezza nella pittura aneddotica, tipica di un Greuze, i soggetti, che da soli indicano la trama di un intero romanzo. La media borghesia colta apprezza questo genere didattico-didascalico, che sente vicino ai suoi ideali. In vero queste scene stereotipe, con il figlio disubbidiente e libertino contrapposto a quello buono ed onesto, le fanciulle oneste quanto ingenue, ecc, ci offrono un’immagine preconfezionata; indice di una considerazione tutto sommato piuttosto scarsa dei ceti elevati nei confronti di una piccola borghesia, ritenuta chiusa in una realtà gretta e meschina, lontana dal grande respiro degli ideali.

La pittura del '700 è insieme controprova e reagente nei confronti del romanzo. Nella pittura di genere, che si estende in Europa a partire da quella seicentesca olandese, ritroviamo un vero e proprio “racconto”, che anticipa la letteratura e le si pone accanto come modello. Si tratta di quei quadri di piccole dimensioni, raffiguranti scene di vita quotidiana, che anche in Italia trovano espressione ad esempio in Giuseppe Maria Crespi ed in altri, che dipingono alcuni dei momenti di vita borghese e contadina, come la spulciatura; od in Giacomo Ceruti, detto il “Pitocchetto” proprio per le sue descrizioni delle condizioni di vita dei popolani (chiamati pitocchi) bresciani e milanesi; od in Pietro Longhi con le sue scene d’interni domestici, mercati rionali e mostre d’animali rari; ecc.

Diderot ha compreso perfettamente che nell’opposizione all’aristocrazia, questa pittura è la più adatta da contrapporre allo spirito edonista e libertino di un Boucher; al virtuosismo vuoto del Rococò ed al suo ideale della “art pour l’art”. Nella condanna del libertino e del seduttore si esalta la probità e l’onestà del borghese e si combatte la frivola alterigia dei “tiranni”. Si sta preparando il terreno agli ideali della Rivoluzione.

In Italia il Settecento non offre grandi romanzieri. La situazione socio-politica estremamente frammentata non riesce ad esprimere un pubblico sufficientemente vasto ed erudito. Non è nel romanzo che si deve cercare l’importanza della letteratura italiana, ma in Vico, Giannone, Verri e Goldoni. È significativo dare, in una breve esposizione, uno sguardo sul romanzo italiano, perché esplicativo del sentire comune alla società.

La pace d’Utrecht nel 1713 “ad firmandam stabilendamque pacem ac tranquillitatem Cristiani Orbis, justio potentiae aequilibrio” (per stabilire una pace duratura e per la tranquillità del mondo cristiano, per un giusto equilibrio tra le potenze), sancisce il nuovo assetto europeo. Con essa inizia di fatto il secolo. Nello stesso anno Girolamo Gigli scrive il romanzo il “Gazzettino” nella forma epistolare delle relazioni da inviare ad un giornale. Egli finge di  descrivere l’arrivo di una ambasciata della Cina al papa Clemente XI°; recante la richiesta di poter sposare: “una vostra nipote, o nipote di qualche altro gran sacerdote latino”, offrendo in contropartita, che: “i letti dei vostri principi” vengano riscaldati: “col fuoco amoroso delle nostre Amazzoni”. Tutti gli elementi tipici del romanzo del secolo sono già espliciti: il tema del viaggio, l’esotismo, ed il tentativo di presentare come veri gli episodi raccontati; dietro cui camuffare la satira politica illuminista. Egli prende spunto dai racconti delle notizie di viaggio e delle informazioni sui fenomeni e gli avvenimenti, che ambasciatori, navigatori, viaggiatori, giornalisti e scienziati, avevano reso popolari sotto forma di relazioni e più frequentemente di lettere. “Viaggi del capitano Gulliver” di Swift e la “Vita e avventure di Robinson Crusoé” di D. De Foe (tradotti in italiano nel 1729 e nel 1757) sono in tal senso i romanzi oggi più noti. Zaccaria Seriman scrive nel 1749 “Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali”, con l’aggiunta molto significativa al  titolo primitivo: “traduzione da un manoscritto inglese”. Anche qui è evidente il tentativo di rappresentare come autentiche le notizie riportate; anche qui il viaggio ed un naufragio danno il via all’opera. Egli prende a pretesto la descrizione del paese fantastico governato dalle scimmie, per esporre una critica attuale sugli usi del suo tempo: sull’architettura“in somma l’ammasso era stravagante, e l’artefice sembrava aver poco curato le                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       proporzioni, ed in nulla la verità ch’è l’essenza di tutte le arti”, chiaro richiamo al Classicismo contro il Barocchismo; sull’abbigliamento e la moda “hanno saputo trovar l’arte di rendere ammirabili i difetti”; sui funerali “le consuete visite di condoglianza, che sono un vero martirio a chi è sinceramente addolorato, non meno che a chi non lo è per dover fingere una passione che non sente”; sull’autoritarismo irrazionale espresso nel motto di Zoppilandia “O zoppicare o morire”; sull’esterofilia “E’ introdotto un fanatismo fra gli Scimmiopoliti di non stimare che le cose lontane…gli artefici eccellenti non credonsi potersi trovare che fuori dal regno”; e via di seguito su ogni aspetto della società.

A furia di riempire i romanzi di suggerimenti filosofici si corre il rischio di far diventare i “viaggi” trattati utopistici.

Il romanziere topico del Settecento è senz’altro Pietro Chiari d’area veneta, indicato dalla critica conservatrice come l’esempio d’ogni iniquità: “lordure ch’escono alla stampa in questo secolo detto illuminato” dice, di lui e di Goldoni, Carlo Gozzi nel 1761. È  lui che inizia in Italia il romanzo di consumo. Egli rivaluta i personaggi femminili che ancora Seriman descriveva così: “le femmine sogliono formare i loro giudizi non sopra la ragionevolezza degli oggetti ma sopra i loro capricci”. E nella “Filosofessa italiana” descrive le donne come erudite e sapienti, senza alcun’ombra di sarcasmo. D’altronde esiste ormai un consistente mercato costituito dal pubblico femminile e quindi necessario creare personaggi credibili, che consentano l’identificazione con l’eroina. La filosofessa può quindi affermare che: “Ogni donna ragionevole nelle sue azioni può dirsi filosofo”. Nel “Uomo di un altro mondo” manifesta le diffuse tendenze antidogmatiche ed in questo caso anche anticlericali: “Questi bonzi per verità in più famiglie divisi, ed in più fogge vestiti nel Giappone non meno che nella China, m’erano stati dipinti dal mio vecchio maestro per una razza pericolosa di gente disutile alla società, sfaccendata, presuntuosa ed ignorante, ma che viver sapea lautamente alle spese altrui, abusando della credulità più grossolana dei popoli con ridicole e sempre nuove imposture”. E nella “Cinese in Europa” illustra in maniera chiara di quanto carico ideale è ricoperta l’ideologia del viaggio, strumento di conoscenza e d’allargamento culturale, quale fuga da una realtà  vista come meschina e chiusa: “Chi non viaggia, non vive. Antichissima egli è quest’indubitabile assioma, e le nazioni tutte del mondo poco o molto lo fanno. Come mai se ne fa un uso sì limitato, che gli uomini quasi tutti morir sogliono a somiglianza degli alberi, dove sono nati?”. In un altro romanzo un robot diventa protettore e vendicatore dell’inseguita eroina.

Il 700’ è anche il secolo degli “automi”: delle pendole con automati, in cui meccanismi molto complessi muovono animali, personaggi od intere scenografie, e sono collegati a scatole musicali provviste di fischietti, di flauti, di campanelli, e perfino in grado di riprodurre versi d’animali (come in un modello di cane, al museo de Beaux-Arts di Neuchâtel); delle scatole musicali, che diventano veri e propri gioielli, sia quando sono collegate a pendole, che quando sono inserite in tabacchiere, portabombons, ecc. Gli automi sono veri e propri androidi programmabili, come in quelli dell’orologiaio Jaquet-Droz, il massimo artefice del tempo, in grado di eseguire scritti di quaranta parole, di disegnare o di suonare con le proprie mani musiche al piano (visibili sempre a Neuchâtel); o i bachi in grado di muoversi contorcendosi in maniera assolutamente naturale (visibili al museo del Château des Monts a Le Locle).

Nel “L’uomo di un altro mondo” del 1760 Chiari riprende il tema dell’isola raggiunta avventurosamente e sulle orme del Robinson, da poco tradotto in italiano, sviluppa il tema avventuroso-utopistico. L’isola rappresenta il paradiso perduto, la vita semplice e naturale, la fuga dalla civiltà e dagli obblighi sociali “felicità chiamavamo quella mia solitudine”; la voglia d’esotismo in un’epoca in cui le esplorazioni rappresentano la scoperta di nuovi mondi, lo sviluppo dei commerci e delle conoscenze, ma anche appunto avventura e fuga dalla vita civile. La fuga dell’eroina, che dà inizio al viaggio, diventa immediatamente pretesto per una visita analitica dei paesi esplorati, che altro non sono che trasposizioni dei vari paesi europei, e per la critica dei loro  costumi; secondo l’uso di cui il Gulliver è l’espressione più nota. Questi di Pietro Chiari sono romanzi di repertorio, che non valgono per il loro valore letterario, ma come esempi di un universo romanzesco di cui sono testimonianza culturale, con: il matrimonio d’interesse, quello per amore, l’amore per i genitori, per i figli, l’obbedienza alle istituzioni, il far denaro, ecc.; è curioso ma in questi romanzi nessuno lavora tranne i marinai ed i commercianti.

Antonio Piazza prosegue lo stesso filone e tocca tutti quei temi che saranno sviluppati appieno dal romanzo dell’Ottocento; come la contrapposizione patetica e commovente del cane nutrito e vezzeggiato al bimbo affamato ed abbandonato, o quella di città e campagna, di buoni e cattivi, e l’ineguaglianza dei sessi, ecc. Il Piazza introduce nella “Ebrea” del 1769 il tema del superamento del luogo comune razzista dell’ebreo avaro e senza Dio, facendo appunto di un’ebrea l’eroina. Tipico tema illuministico questo dell’emancipazione, siano essi ebrei o negri. D'altronde egli è cittadino di quella Venezia, che per prima istituì il Ghetto nel 1516, ma è anche quel grande incrocio di razze e di costumi, che costituiscono l’essenza cosmopolita della città. Dobbiamo citare anche il veneziano Giacomo Casanova, anche se scrisse in francese, e non tanto per i celebri “Histoire de ma vie” e “Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs”, che appartengono all’altra grande invenzione del secolo il romanzo erotico; ma per lo “Icosameron ou Histoire d’Edouard et d’Elisabeth, qui passèrent quatre vinghts ans chez les Mégamicres …… ”( titolo per intero: “Icosameron o storia d’Edoardo e di Elisabetta, che passarono ventiquattro anni presso gli Mégamicres abitanti aborigeni del Protocosmo all’interno della Terra, tradotto dall’inglese da Giacomo Casanova di Seingalt veneziano dottore in legge e bibliotecario del Signor Conte di Du Chambellan de S.M.J.R.A.”) pubblicato a Praga nel 1788. Già nel titolo sono indicati i classici temi del viaggio e l’accredito di quanto raccontato, risultante sia dalla pretesa veridicità della traduzione da un originale inglese, sia dalla qualifica di bibliotecario. Il viaggio si svolge al centro della Terra, assoluta novità per l’Italia, e descrive le solite avventure e peripezie degli eroi, fratello e sorella. Interessanti sono i mezzi che porteranno alla conquista del potere da parte loro: la nascita moltiplicativa di un gran numero di figli nipoti e pronipoti, fino al numero di quattro milioni, nati dal loro incesto; la propaganda, grazie alla costruzione di una tipografia. Altri elementi insoliti le invenzioni fantascientifiche del sottomarino, dell’automobile, dell’aeroplano, della penna stilografica. Tutto il romanzo, scritto alla vigilia della Rivoluzione, indica la scelta di campo a favore di un capitalismo e di una monarchia illuminata. Anche Ippolito Pindemonte è veneto e scrive al ritorno da un viaggio in Francia compiuto nell’anno della Rivoluzione lo “Abaritte-storia verissima” nel 1799. Il viaggio si svolge questa volta in Siberia dove sono descritte nazioni quali la Francia, l’Inghilterra, la Germania, ovviamente camuffate sotto altro nome. In questo caso l’autore ricorre all’espediente dell’anagramma e chiama: Nobeli Berlino, Psiali Lipsia, Bonaratis Ratisbona, ecc, e Smerme Mesmer, Stroglioca Cagliostro, ecc. egli affronta polemicamente tutti i temi a la page: l’assolutismo, che non condivide, ma non gli van bene neanche i principi rivoluzionari; la fisionomia; il magnetismo; lo spiritismo; ecc. In buona sostanza egli è un conservatore ed il mondo và bene così com’è, i cambiamenti non cambiano nulla, che in fondo l’uomo è sempre lo stesso.

Alessandro Verri scrive il suo primo romanzo nel 1782 “Le avventure di Saffo”. Esso comincia sempre con il ritrovamento del solito manoscritto inedito e procede in un clima neoclassico, scritto in uno stile classicheggiante, anche se già contaminato dal Romanticismo. Nel 1792 esce la prima parte del suo più celebrato “Notti romane”, che in precedenza conosce una prima versione con un altro titolo “L’antiquario fanatico”. In esso il gusto archeologico finisce col sopraffare sia l’erotismo, che quel poco di collegato alla realtà sociale di Saffo. Lo stile è solenne grandioso vicino alla monumentalità piranesiana. Il secolo si chiude con le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” d’Ugo Foscolo, prima edizione Bologna 1798, e con esso si apre ormai l’Ottocento. Foscolo usa sia l’espansione del sentimento, che la natura: “Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura, ma la natura somma, immensa inimitabile non l’ho veduta dipinta mai”. Nell’Ortis l’eroe muore, ma il suicidio se serve da esempio è utile; se il presente induce solo al pessimismo, il futuro al contrario potrà essere migliore. Si propone l’identità del bello come buono, ma in una prospettiva che supera il Neoclassicismo e prelude all’eroe esteticamente superumano, aprendo la strada che porterà a d’Annunzio ed oltre. Nello stesso anno della pubblicazione dell’Ortis nasce Giacomo Leopardi, il Settecento è ormai alle spalle.

 

Gli arredi tipici del Luigi XV.

Comode (cassettone), generalmente mossa a balestra con il piano dritto e a volte ricoperto da una lastra di marmo, decorata con bronzi, più frequentemente nella Reggenza, ed intarsiata,  maggiormente nel Rococò. A due cassetti con alte gambe mosse; a tre cassetti quasi a terra; a vantaux, in pratica a due sportelli celanti la cassettiera.

Semainier  (settimanale), mobile verticale a sette cassetti, per la biancheria.

Angoliera, se a sportelli senza cassetti detta anche armoire d’encoignure (armadio d’angolo), spesso in coppia od in quattro esemplari, uno per ogni angolo.

Le comode e le angoliere, come altri arredi, sono spesso laccate. S’impiegano le lacche distaccate dai pannelli laccati importati dalla Cina, di cui per lungo tempo non si è in grado di produrre un’adeguata imitazione. Finché non è stata inventata nel 1730 la vernis Martin, di cui si applicano  oltre trenta strati. La laccatura veneziana è sostanzialmente diversa, perché ottenuta applicando una mano di sandracca sui colori ed i disegni realizzati su di un fondo gessoso. Una famosa variante è rappresentata dalla così detta lacca povera, consistente nell’applicazione di stampe, appositamente eseguite e colorate, al posto dei disegni eseguiti a mano. Tali stampe sono realizzate in tutti i temi possibili. Particolare importanza ebbero i Remondini stampatori bassanesi, di cui ci sono pervenuti i cataloghi originali.

Bureau:

Bureau plat, scrivania con piano sagomato, fascia, provvista di cassettini, ed alte gambe mosse.

Bureau a gradin. Come il precedente, con in più da un lato sul ripiano una cassettiera.

Secrétaire à pente. Come il precedente con la cassettiera posta sul piano, che lo occupa interamente ed i cassetti nascosti da una ribaltina, che aperta diventa piano di scrittura; a volte senza gambe, ma con i cassetti sotto il piano che arrivano fino a terra, tipico modello molto diffuso in Italia con il nome di ribalta.

Secrétaire à cylindre. Come il precedente ma con  il piano estraibile e la ribalta cilindrica rientrante a scorrimento od a serrandina, composta di listelli.                                     

Secrétaire-armoire. Come il precedente con una stretta alzata provvista di due sportelli, forniti di specchi. Assunse poi il definitivo nome di trumeau. Termine, che in origine designava lo spazio tra due finestre o due porte, poi lo specchio, che fu posto in detto spazio, successivamente indicò la consolles con specchiera con la medesima collocazione, ed infine il tipico mobile in esame. I più raffinati sono quelli veneti, spesso arricchiti sulle cimase da elementi decorativi intagliati e dorati.

Altri arredi connotano tutto il secolo. Si tratta di mobili leggeri in cui sono posti in particolare evidenza i supporti.

Il letto a la polonaise è la vera invenzione del Luigi XV; e rimane quello tipico del periodo neoclassico. Era disposto con il lato più lungo a muro. Altra sua interpretazione è il letto alla turca, fatto come un grande divano. La stanza da letto da parata resta solo per le grandi famiglie e soprattutto nell’appartamento femminile, tanto da sparire quasi completamente in Inghilterra a partire dalla metà del secolo. Marito e moglie generalmente continuano ad avere appartamenti separati ed è rarissimo trovare letti gemelli destinati alla stesa camera; mentre in Inghilterra, nonostante che ognuno abbia il proprio appartamento, frequentemente i letti singoli sono nella stessa camera. Dietro alla camera da letto femminile trova posto il Boudoir, piccolo ambiente molto intimo e spesso arredato in maniera licenziosa. Nel 1727 è pubblicato un “Manuel des boudoirs” in cui l’autore dietro il pretesto di mostrare le storie scandalose delle giovani signore d’Atene, descriveva luoghi senz’altro a lui assai più vicini. I domestici si dovevano tenere nelle vicinanze per svolgere le mansioni loro richieste; per farli muovere il più discretamente possibile sono ricavati diversi passaggi e corridoi di servizio. Poco prima della metà del secolo l’avvento del campanello legato ad un cordone (la sonnete) permetterà di chiamare i domestici solo all’occorrenza, senza più averli costantemente vicini a portata di voce, con grande vantaggio della privacy.

Nella camera erano anche collocati svariati tipi di tavolini:

tables de chevet con alte gambe mosse, fungono da comodino.

Tables de lit, contenenti quanto serve per scrivere o per truccarsi, con corte gambe, adatti per essere appoggiati a cavallo della persona sul letto.

È anche eseguita una versione comprendente le due precedenti, in cui il table de lit è incastrato, sovrapposto ed estraibile all’occorrenza sul table de chevet, con cui forma un corpo unico.

Vi sono poi tavolini, sovente con il piano di marmo, da tè, caffè e da colazione.

Una ringhierina, in metallo dorato intorno al piano, caratterizza quelli servitori, detti a cabaret( a vassoio).

Il tavolo tondo compare all’inizio del secolo successivo e nel 1810-12 Ortensia si vanta d’essere la prima donna in Francia a collocarlo al centro del salone per appoggiarvi il lavoro di cucito. Tale disposizione diverrà presto abituale, favorita dal miglioramento dei mezzi d’illuminazione, che permetteranno di riunirvicisi intorno; grazie all’invenzione verso il 1780 della lampada d’Argand, che era costituita da un serbatoio per l’olio posto sopra al corpo principale contenente lo stoppino, protetto da un tubo di vetro, che era alimentato per caduta. Per evitare l’ombra proiettata dal serbatoio si costruirono lampade a due stoppini simmetrici. Tuttavia fino oltre il 1820 essa è bandita dalle case importanti, con la motivazione che la luce prodotta è troppo forte e tale da poter arrecare danni alla vista. Si continuano ad utilizzare ovunque candele di cera e comuni lampade ad olio; in America esse sono alimentate con quello di balena.

Le consolles si distinguono per il raffinato gioco di curve e controcurve, con sagome mosse e gambe a capriolo; spesso sormontate da specchiere eseguite con la stessa decorazione e ornate da splendide cimase intagliate e traforate.

Il settore della mobilia più vasto e senz’altro più significativo del Settecento è costituito da quello dei sedili. Come abbiamo accennato a differenza del secolo precedente, in cui i sedili sono tappezzati pesantemente, ora prevalgono i vuoti. La struttura è a vista, favorita da solidi incastri. Le gambe sono, sempre sagomate, spesso nella forma che è definita a zampa di capra, terminante con un piccolo zoccolo d’appoggio, vengono più raramente unite da traverse, che dal 1725 sono via via eliminate. Nel punto di congiunzione tra il piede e le traverse la modanatura crea un piccolo triangolo, in cui si ricava un motivo intagliato. I sedili sono divisi in due categorie. Quelli detti alla reine d’apparato, destinati ad arredare le pareti, decorati con motivi analoghi a quelli della boiserie,hanno lo schienale dritto e spesso non sono lavorati sul retro, che non è destinato ad essere visto. E quelli di dimensioni più ridotte, spostabili, maggiormente utilizzabili. Risulta evidente la corrispondenza dei due tipi di sedili ai principi della distribution e della convenance. Il rispetto del primo è dato appunto, soprattutto per le poltrone d’apparato, dall’uniformità della decorazione e dalla disposizione finalizzata ad aumentare l’effetto ornamentale. Quello del secondo è riscontrabile principalmente nelle sedie d’uso, in cui lo schienale è anatomicamente avvolgente e sufficientemente alto da sostenere la schiena, ma non tanto da disturbare le elaborate acconciature. In oltre si tiene conto delle necessità della moda, infatti in molte poltrone i braccioli ed i loro sostegni sono leggermente arretrati rispetto alle sedute, per consentire alle dame di sedersi comodamente nonostante le gabbie a paniere di stecche di balena, che sostengono le gonne. Esemplare in tal senso è la poltrona detta cabriolet, in cui tutta l’intelaiatura è a vista e si snoda sinuosa senza interruzione di continuità, incorniciando il sedile e lo schienale imbottiti e terminando con le gambe mosse a capriolo. In essa ritroviamo sia un’altezza adeguata dello schienale, sia l’arretramento dei braccioli. Altro modello fondamentale è la bergère, in cui l’imbottitura riempie ogni spazio collegando lo schienale al sedile ed ai braccioli; pur continuando a mostrare interamente la struttura lignea che la incornicia. Inoltre un cuscino imbottito estraibile poggia  sul sedile. Esistono varianti significative. La confidente, che presenta lateralmente alla sommità dello schienale due orecchie, per consentire sia di appoggiarvi la testa, sia di proteggere il viso dall’irradiazione diretta del camino. La voyeuse o pointeuse, che è provvista di un appoggio imbottito sulla sommità dello schienale al fine di permettere ad una persona in piedi di appoggiarsi da tergo con i gomiti; permettendogli di partecipare alla conversazione o come, indica il nome, di puntare le proprie poste al tavolo da gioco. Anche in questo caso è evidente l’adesione ai principi della convenance e della distribution.

Per lo studio le poltrone sono spesso rivestite di canna d’india, con appoggiato un cuscino.

Il divano trae la sua origine dalla necessità di rendere più confortevoli le panche e le cassapanche rinascimentali; ed è direttamente influenzato dalla tipologia orientale da cui deriva. La bergère si dilata e diventa l’ottomana o canapé, totalmente imbottito anch’esso e sorretto da sei od otto piedi.

La veilleuse è imbottita come il canapé, ma presenta uno schienale discendente, che collega un bracciolo più alto ad uno più basso; è il modello di divano più asimmetrico.

La duchesse presenta tre varianti: la chaise longue, una bergère cui si aggiunge un ampio sgabello a sostegno delle gambe (soluzione oggi molto utile per guardare la televisione); la chaise longue duchesse che aggiunge alla precedente un'altra bergère; la duchesse brisé, in cui i tre elementi sono divisi ed utilizzabili separatamente.

La scelta tra la duchesse e la veilleuse dipende solo dalla preferenza per una maggiore o minore simmetria dell’arredo. Altro modello, di derivazione piemontese, è il divano a ventaglio, così denominato per i caratteristici braccioli a grandi volute estroflesse.

Gli arazzi non sono più sospesi indipendenti, ma sono inseriti all’interno di cornici; diventando anch’essi semplice elemento dell’arredo. A causa della concorrenza con gli altri materiali usati per addobbare le pareti, essi si riducono di dimensione ed adattano il soggetto alle esigenze d’armonizzazione con il resto dell’arredo. La parte figurata si restringe al centro, spesso entro un medaglione. Le fasce laterali imitano una cornice a trompe-l’oeil su cui si appoggiano vari elementi decorativi. Scompaiono quasi totalmente i soggetti di carattere storico, sostituiti da quelli esotici, ispirati all’India, alla Cina, al Medioriente. Le fabbriche si moltiplicano in tutta Europa ed anche in Italia dal Regno di Napoli a quello di Sardegna, a quello Pontificio; occupando il posto dell’arazzeria fiamminga, che con la fine del secolo scompare definitivamente, e di quella fiorentina chiusa dal 1737. L’arazzo interromperà la sua secolare storia con la Rivoluzione, per riprendere, in forme spesso meccanizzate, nel secolo successivo.

I pavimenti sono rivestiti con vari materiali come nel secolo precedente. Si ricorre principalmente al parquet di legno. Una novità è costituita dal rivestimento di maioliche. Anche in questo caso i motivi decorativi si semplificano e si riducono di dimensioni. Sono anche eseguiti in stucco tinto e decorato da svariati motivi dipinti.

Le sete a grand’opera, in cui predominava Lione, quelle cinesi, come anche le tele dipinte, occupano uno spazio sempre maggiore. Costantemente raccordate alle tappezzerie dei mobili, si prestano, montate su telai, ad un utilizzo più agile; sia che rivestano muri in cattivo stato, sia che ricoprano decorazioni murali di gusto superato. Dal 1720 le finestre sono corredate dalle tende, sono in uso quelle a due drappi, ma si preferiscono quelle a pacchetto, che si aprono verso l’alto. In Inghilterra alla metà del secolo saranno in voga quelle a due teli, fermate e drappeggiate ai lati della finestra. In generale le tende servivano a addolcire la riquadratura delle finestre e ad attenuare la luce del sole, ma non a proteggere dagli spifferi; a questo scopo provvedevano le tende del baldacchino, che creavano un ambiente chiuso e ridotto, adatto a trattenere il calore. Alla fine del secolo è inventato il sistema d’apertura tuttora in uso, che permette tramite carrucole di aprire e chiudere le tende tirando un cordone. Spesso la tappezzeria, sia parietale che degli arredi, cambia a seconda che sia inverno, arazzi e velluti, od estate, sete e taffettà di cotone; in tal caso a questo scopo i telai dei sedili, degli schienali e dei braccioli sono rimovibili. Nei palazzi particolarmente sfarzosi si possiede addirittura un arredo estivo ed uno invernale ed i solai sono attrezzati per immagazzinare il mobilio a rotazione e per contenere quanto necessario all’arredo, come ad esempio le stoffe per la sostituzione di quelle deteriorate.

I sedili disposti contro il muro non sono di norma rivestiti sul retro o lo sono con tessuti più modesti. Alla fine del secolo si diffondono le foderine di cotone per coprire e proteggere le sedie.  Di fatto i tessuti sono, dal punto di vista tecnico, gli stessi della fine del Seicento, ma i colori ed i disegni mutano con la moda. I disegnatori di Lione cambiano deliberatamente i disegni delle stoffe ogni sei mesi, per incrementare i consumi di moda; esattamente come oggi. È significativo che a Lione i diritti sui modelli dei disegni durino venticinque anni per i tessuti da tappezzeria e solo sei per quelli d’abbigliamento, indicando palesemente il tempo massimo di produzione prima di passare di moda e la diversa frequenza del loro rinnovo.

Grande diffusione conoscono i tappeti, non più prodotti esclusivamente per la Corte, essi sono fabbricati da nuovi opifici oltre che alla Savonnerie. La decorazione è simile a quella degli arazzi.

Ad Aubusson ed a Beauvais nasce un nuovo tappeto ad imitazione di quelli caucasici, lavorati ad ago, ed in cui, essendoci un solo ordito, i vari elementi tessuti sono raccordati da cuciture. Altro elemento caratteristico è costituito dalla necessità di lavorare alla rovescia davanti ad uno specchio al fine di vedere il verso anteriore del tessuto, che è dalla parte opposta a quella da cui si lavora. Genericamente chiamati Aubusson, con essi si rivestono a misura non solo le superfici murali, ma anche i sedili. Dalla seconda metà del secolo comincia la produzione delle moquettes, decorate a motivi regolari, in strisce, che bisogna poi cucire insieme, facendo attenzione a far ben coincidere il disegno; si può anche riquadrarle con apposite bordure. Nell’area anglosassone si utilizza per rivestire i pavimenti una tela cerata dipinta, che si ridisegna quando i decori sbiadiscono; essa sarà sostituita alla fine dell’Ottocento dal Linoleum.

Rarità e gusto del prezioso portano alla realizzazione di splendidi rivestimenti parietali in porcellana, con l’inserimento d’arredi pure ricoperti di essa. Un elemento caratterizzante è senz’altro lo specchio, isolato od utilizzato per coprire intere pareti, che non solo moltiplica le immagini, ma soprattutto accentua i riflessi delle dorature, delle lucenti porcellane, delle lampade e delle lucide sete. È elemento fondamentale in ambienti in cui la luce riveste un’importanza primaria. Si creano anche grandi specchi curvi per gli angoli delle stanze. Il secolo dell’edonismo pare identificarsi con lo specchio. L’illuminazione non è affidata a lampadari appesi centralmente al soffitto, ma ad appliques murali, che inviano la luce rasente ai muri aumentando l’effetto delle ombre e favoriscono la riflessione frontale sugli specchi. Nell’illuminazione non si fanno per tutto il secolo grandi progressi ad eccezione della lampada ad olio a riverbero, munita di un  riflettore, inventata nel 1749. Grande è l’uso, soprattutto in Italia, delle ventole: specchierine che riflettono la luce di bugie applicate sul davanti in basso.

L’arte vetraria assume grande importanza, non solo nella produzione delle suppellettili da tavola, ma soprattutto nella produzione dei prismi per le lampade, che accentuano l’effetto baluginante di riflessione della luce nell’ambiente, creando un effetto liquido, quasi psichedelico.

La manifattura veneta ha perso la posizione di dominio del secolo precedente ed oltre alla Francia, che ormai la sopravanza nella fabbricazione degli specchi (vedi scheda tecnica, gli specchi da camino), vede affermarsi la produzione boema del cristallo.

Il camino diviene nel Settecento elemento decorativo fondamentale. Già dalla fine del Seicento con Berain esso era stato compreso in complesse boiseries, aveva assunto dimensioni più ridotte ed era stato spesso sormontato da uno specchio; ma ora, costituendo uno dei pochi elementi strutturali non amovibili e non soggetti a trasformazioni dovute alla variazione del gusto, la sua decorazione assume un carattere speciale. La bocca è chiusa, quando non lo si utilizza, da un pannello con un decoro armonizzato con il resto della stanza. Sulla mensola sono sempre presenti oggetti ornamentali e pendole in bronzo dorato, destinati a riflettersi nell’onnipresente specchiera. Tutta una serie d’accessori lo addobbano: alari provvisti di splendide mostre (i feux), completi da camino con palette e pinze forgiate e decorate da impugnature lavorate splendidamente, parascintille, vasche esterne per evitare la dispersione della cenere, ecc. In Inghilterra i feux saranno sostituiti da griglie a causa della diffusione del carbone come combustibile. Tutti i materiali sono impiegati: porcellana, bronzo dorato, argento, acciaio lavorato, ecc. questi accessori possono essere sostituiti col variare del gusto, ma sovente, essendo accompagnati allo stile del camino, sono sopravvissuti fino ad oggi. Le stufe raramente entravano negli ambienti di rappresentanza. Quelle in ceramica conoscono una grande diffusione in Austria, Scandinavia e Germania; quelle in ghisa in America, famose quelle migliorate a doppia camera ideate da Benjamin Franklin nel 1742.

Nelle suppellettili il Rococò trova il suo vero campo d’azione. Il cambiamento non riguarda le tipologie, ma si rivela eclatante nella decorazione. Nell’oro, nell’argento, nella porcellana, nel ferro forgiato, nel vetro e soprattutto nel bronzo argentato o dorato si esprime tutta l’arte, il gusto del capriccio, la ricerca parossistica di plasmare oggetti, che sembrano fatti di luce.

Dai manici delle posate, ai candelieri, alle maniglie, agli alari, ecc, ovunque le linee si torcono o si raggrumano in stupefacenti motivi simili a stalattiti, su cui poggiano improbabili figurine. Il bestiario esotico si mostra con tutta la forza dell’immaginifico: elefanti, scimmie, dromedari e cammelli, rinoceronti, leoni, ecc. Poi tutto il repertorio mitologico: sfingi, arpie, sirene, satiri, ecc. Il posto d’onore è riservato ai motivi ispirati dall’Oriente, con i sui cinesini ed i suoi turchi.

Le maniglie di bronzo dorato diventano vere opere d’arte, ed anche nelle aree periferiche assumono grande rilievo decorativo e danno prova della fantasia dei bronzisti.

L’oro non è riservato solo ai gioielli, ma anche al vasellame, che come quelli è fuso, sbalzato e cesellato. L’argento è ancora più amato. Luigi XIV è stato costretto, durante la grave crisi della fine del Seicento, a fondere perfino i mobili realizzati in argento massiccio, per fronteggiare la penuria  verificatasi di tale metallo e potere battere moneta, onde pagare il soldo alle truppe; ma nel Settecento Luigi XV farà nuovamente eseguire arredi in argento massiccio. Anche il bronzo è spesso argentato, ma pochi sono i pezzi giunti fino a noi (sulle cause di tale rarità vedi la scheda tecnica, doratura ed argentatura a fuoco).

Una vera novità è costituita dalla porcellana (vedi scheda tecnica, la porcellana), che sostituisce i lavori preziosi eseguiti in precedenza in avorio, materiale utilizzato in misura molto minore nel Settecento che in precedenza. Inventata a Meissen nel 1708, essa è utilizzata dapprima per il vasellame, decorato a motivi di cineserie, di paesaggi e di piccole marine. Con lo scultore J. J. Kändler si dà esecuzione al progetto d’Augusto il forte di decorare con statue, con animali e grandi vasi di porcellana il suo palazzo. Da allora diviene usuale fabbricare anche piccole figurine. Un oggetto tipico è il pot-pourri, ottenuto montando in metallo un vaso di porcellana munito di coperchio, in modo da ricavare fra il corpo ed esso una galleria traforata attraverso cui può filtrare l’odore delle misture, che vi sono collocate. Tali misture sono preparate dai profumieri, mischiando varie piante e fiori in  acqua di fiori d’arancio e possono essere anche molto costose. Un modo più economico di profumare l’ambiente si ottiene bruciando, su appositi bruciaprofumi, cordoni e pastiglie composti di sostanze odorose. Altro oggetto in voga è la fontana, realizzata montando, su di una terrazza di metallo, un vaso di porcellana, cui è stato inserito alla base un rubinetto.

Cristopher Conrad Hunger porta attraverso Vienna il segreto della porcellana a Venezia, dove dal 1720 Vezzi apre la sua manifattura, seguita da quella Cozzi nel 1764. A Napoli è nel 1734 che viene aperta la manifattura di Capodimonte. A Firenze, erede delle ricerche medicee, quella del marchese Carlo Ginori a Doccia nel 1734. Fino al 1768 a Parigi continua la produzione esclusiva di porcellana in pasta tenera, ma anche se in ritardo, con lo spostamento della manifattura reale a Sèvres, la porcellana in pasta dura francese conquista il primato Europeo; grazie anche all’uso di fondi dai colori brillanti, in cui sembrano ritagliate le riserve bianche, che inscrivono le decorazioni pittoriche, prevalentemente alla Bouchet. Famosi il gros bleu, il rosa Pompadour, il bleu céleste, il jaune jonquille ed il verde pomme.

Anche lo smalto continua ad occupare un posto di rilievo. (vedi scheda tecnica, lo smalto)

Notevole importanza assume la fabbricazione dei ventagli, che costituiscono un elemento indispensabile dell’abbigliamento e caratterizzano tutto il secolo con il loro misterioso linguaggio. (Vedi il saggio sul ventaglio).

La maggior parte delle lastre di  marmo per i piani dei mobili proviene dall’Italia, come pure di quelli in scagliola. Si diffonde anche l’uso di collocare ovunque vasi di fiori e quando la stagione non li rende disponibili si utilizzano fiori finti, la cui fabbricazione diviene una vera e propria industria.

 

I mobili tipici del Luigi XVI.

Sostanzialmente essi mantengono le stesse dimensioni e le medesime finalità d’uso di quelli rococò. Muta l’aspetto nel senso di una maggiore linearità ed essenzialità della decorazione.

La comode, come in precedenza continua a presentare due o tre cassetti od i due sportelli. Cambia la forma, abbandonando le sagome mosse a balestra, con i fianchi sempre dritti. Il fronte può essere: dritto, leggermente bombato, dritto con una bombatura centrale, dritto con le parti laterali a semicerchio (demie-lune mezzaluna); negli ultimi due modelli due gambe sono poste agli angoli posteriori e due sul davanti, lungo la curva, spostate più centrali a delimitare i cassetti, che sono posti nella parte centrale, mentre lateralmente possono esserci due antine celanti ripiani. I bronzi dorati continuano a proteggere gli spigoli ed a decorare gli angoli e possono costituire oltre alle bocchette delle serrature, alle maniglie, alle cornici ed alle ringhierine anche elementi scultorei a se stanti posti sui montanti; essi sono spesso a forma di colonna scanalata, le cui unghiature sono ricavate intagliate nel legno a vista o rivestite da cornici di bronzo dorato; quando la parte inferiore della scanalatura è in parte riempita da un listello a mezzo-tondo si chiama rudentata. Le gambe generalmente sono tronco-coniche rovesciate con all’estremità una tornitura a rocchetto e terminanti a terra con un elemento tornito piriforme, sempre scanalate come sopra descritto; o tronco piramidali rovesciate, riquadrate alle estremità da cornici, scanalate o con le quattro facce incorniciate e spesso decorate da motivi floreali intagliati.

Bisogna rilevare, che il piede a tronco di piramide semplice, privo di decorazioni e scanalature fa parte del periodo successivo, essendo il risultato delle semplificazioni del Direttorio e dell’evoluzione verso forme cubiche rettilinee post rivoluzionarie. Lo stesso discorso vale per le carcasse. I mobili cosiddetti Luigi XVI, squadrati e con le gambe a piramide, tipici della produzione italiana, sono prodotti nella maggior parte dei casi nell’Ottocento e spesso dopo la fine dell’Impero; rientrando già nel sentimento di ritorno al passato e di rifiuto della produzione napoleonica, tipico della Restaurazione, dopo il congresso di Vienna.

Restano in auge: il Semainier  o settimanale, l’angoliera e tutti i tipi di bureau, presenti nello stile Rococò. Sempre con i piedi e le gambe Luigi XVI descritte in precedenza; e soprattutto nei mobili scrittoi con forme lineari e geometricamente più regolari.

Nei secrétaire assistiamo alla scomparsa dei modelli precedenti, compreso il prestigioso trumeau, ed alla nascita del secrétaire à abattant. Questo mobile, per la complessità della costruzione e la ricchezza dalla decorazione, subentra per prestigio al trumeau e si presta a ricevere la decorazione bronzea e l’intarsio, presentando a tale scopo diverse superfici piane. Sulla sommità il piano di marmo, di norma in bianco di Carrara, può essere racchiuso da una ringhierina bronzea. L’ abattant, gli sportelli inferiori ed i fianchi sono rettangoli piani, adatti alla decorazione; come pure la fascia sottopiano in cui è celato un cassetto. In particolare gli angoli sono formati da fasce inclinate a quarantacinque gradi, che rendono il mobile trapezoidale, e possono ricevere oltre all’intarsio, alle cornici ed ai motivi salva spigoli di bronzo, sculture in rilievo e perfino a tutto tondo; rivelandosi particolarmente adatti alle erme, lesene, ghirlande, ecc, che costituiscono la caratteristica del repertorio decorativo neoclassico. Nei modelli più correnti gli angoli sono invece a forma di colonna scanalata, come descritto in precedenza. Troviamo frequentemente in pendant col secrétaire un cassettone con caratteristiche strutturali e decorative simili.

Nei letti il discorso è analogo a quello fatto per i cassettoni. Non vi sono novità di rilievo, né nella forma, né nella disposizione; muta sempre solo la decorazione. Segnaliamo il ritorno del letto a colonne, destinate a sostenere il baldacchino e l’uso frequente di posizionare i letti in nicchie ricavate nella parete. Una novità è costituita dal letto all’anglais, simile ad un grande divano a ventaglio, alle cui estremità sono posti due cuscini cilindrici; e da cui evolverà il letto a bateau, tipico dell’Impero. Si comincia a collocare uno specchio sopra al letto contro il tetto del baldacchino, per ottenere un effetto erotizzante; uso abbandonato quando il ministro delle finanze Colonne rischiò di essere tagliato in due in seguito dalla caduta di uno di essi. Con la diffusione delle carte dipinte panoramiche, c’è chi, per ottenere un effetto analogo, circonda il letto, posto di fronte alla finestra, di specchi in modo da sembrare essere immersi nel verde.

I tavolini sono presenti ovunque, con le forme e le destinazioni più varie: a mezzaluna, a fagiolo, cilindrici, rotondi, rettangolari con gli angoli smussati, ecc; per colazione, da lavoro, scrittoi, per la toilette, ecc. Quasi tutti presentano un’analogia costruttiva, costituita dai montanti a forma di parallelepipedo, che si prolungano nelle gambe affusolate, il tutto spesso in un sol pezzo; sempre decorati, come già descritto, da bronzi o da colonne scanalate. Essi continuano ad essere generalmente disposti a muro e spostati all’occorrenza.

La consolle è sempre di forma rettangolare con angoli smussati, a mezzaluna o semicircolare. Le gambe  sono come quelle già descritte, ma si aggiunge, per aumentarne la stabilità e l’impatto decorativo, un raccordo a crociera allineato nella parte posteriore al muro e sovrastato al centro da un elemento decorativo, normalmente una mezza anfora, appoggiato alla parete e ornato da festoni. Tali festoni ornano anche la cintura sotto il piano, sia che celi o no un cassetto, centrando un motivo intagliato, spesso un paniere. Al di sopra è collocata la specchiera, anch’essa con andamento lineare, è sovente sormontata da un nodo d’amore.

Le specchiere da camino sono a volte sagomate in tre parti: due rettangoli uguali laterali ed uno centrale più alto e più grande, la cimasa con un motivo decorativo intagliato a festoni raccorda il dislivello; anche le lastre di specchio sono spesso divise alla stessa maniera e poste semplicemente accostate.

Nei sedili permane la divisione tra quelli da parete e gli altri. Il mutamento più significativo è sempre quello riguardante la decorazione, che assume motivi neoclassici negli intagli; e soprattutto nelle gambe dove è adottato il tronco di cono o di piramide come descritto in precedenza, anche se ad esempio Luigi XVI non adotterà mai sedili con gambe o schienali rettilinei. Nelle sedie e nelle poltrone da centro notevoli innovazioni sono portate alla decorazione degli schienali, che ora sono spesso a giorno, con cartelle traforate a forma di: lira, covone, paniere, mongolfiera cestino floreale, anfora, ecc.

Dalle pareti tendono a scomparire le boiseries, sostituite dalle tempere murali e dai pannelli di stucco d’ispirazione archeologica o rinascimentale, scompartiti da elementi decorativi architettonici appiattiti come le colonne ed i pilastri. Spesso tali elementi architettonici sono eseguiti in papier mâché, ed in Inghilterra si utilizzano anche fusioni di stagno dipinte.  Il tutto trattato con il gusto dell’ebanista, che spesso le esegue, piuttosto che con quello dell’architetto. Le decorazioni a grottesche, adottate per primi dagli inglesi intorno al 1760 (Wiliam Chambers le illustra nel 1769 nel trattato “Treatise on the Decorative Part of Civil Architecture”), riprendono direttamente quelle antiche, anche se prevalgono i colori chiari e le tinte tenui; con esse dal 1780 si decora qualunque superficie rettangolare verticale, dalle pareti, alle posate, sia in Inghilterra che in Francia. I pannelli di stoffa continuano ad occupare un posto di rilievo, ma con decori ispirati all’antico; sempre coordinati alle tappezzerie degli arredi. In Inghilterra le imbottiture sono più squadrate e ad angoli vivi; per tenerle ferme si fissavano con punti fermati da batuffoli, come nei materassi. Questo sistema assumeva anche una valenza decorativa, che evolverà nell’Ottocento nel capitonné. In Francia tale metodo non era utilizzato fino al 1770, quando il Neoclassicismo squadrerà a sua volta le imbottiture; oggi nel rifare le tappezzerie dei sedili ci si dimentica di tale sistema decorativo. I sedili più confortevoli erano corredati di cuscini imbottiti di piuma, ma anche di crine, di stoppa (il capecchio) e d’altri materiali. Le molle fanno la loro sporadica comparsa fin dal 1760, ma è dalla loro produzione industriale dopo il 1830 che divengono d’uso frequente. Si afferma l’uso della carte dipinte, soprattutto per gli interni residenziali, e nascono i primi cicli decorativi, anche se le dimensioni ancora ridotte dei fogli di carta obbligano a complesse disposizioni, chiamate a domino. Solo nell’Ottocento la manifattura Doufour creerà rotoli continui, come nelle moderne carte da parati. L’onnipresenza delle dorature ci ricorda che siamo ancora nel pieno del gusto Ancien Regime. Dal  1780 si fabbricano carte dipinte con colori brillanti, ad imitazione dello chintz e delle sete lionesi, a motivi neoclassici. C’erano anche delle bande, simili ai galloni di seta, utilizzate per scompartire pareti a tinta unita e carte stampate a motivi trompe-l’oeil di cornici di stucco, di statue neoclassiche e d’interni neogotici. Grazie sempre ai due fratelli Remondini, Giovanni Antonio e Giovanni Battista tipografi di Bassano, Venezia è la prima città d’Italia ad usare tappezzerie di carta impressa. A loro è concesso il 25 settembre 1755 il privilegio ventennale per la stampa di “carte damascate e vellutate ad uso di fornimenti di camera”. L’abate Marco Fassadoni ci fornisce e i seguenti ragguagli: “Per fare queste carte si tigne in prima la carta del colore che si vuole stemperare nella colla, la quale lo rende lucente, e questo forma il fondo dell’opera. Dopo vi s’imprime sopra il disegno con forme di legno simili a quelle degli stampatori di tele indiane. Ciò fatto si spargono sopra delle raschiature di panno fino del colore che si voglia, in appresso si scuote la carta e le raschiature che vi restano appiccicate formano il rilievo vellutato dell’opera, né si distaccano altrimenti che raschiandole fortemente con un coltello. Questo lavoro è uguale in gran parte a quello che si fa con le tappezzerie fatte di tosatura di lana”.

Le carte dipinte ed i nuovi tessuti di cotone stampato portano negli ultimi venti anni del secolo alla crisi delle più costose sete lionesi.

I soffitti sono quasi sempre vuoti, non affrescati e decorati da semplici cornici.

Con la Rivoluzione, fino all’avvento di Napoleone, si costruiscono pochi nuovi edifici. Il primo esempio importante del nuovo stile Direttorio, è la ridecorazione interna della casa del banchiere Récamier nel 1798, su disegni di Louis-Charles Percier. Durante la fase rivoluzionaria, molti ebanisti, compromessi con l’aristocrazia per la quale avevano lavorato, si rifugiano all’estero. Quelli rimasti restano privi della clientela tradizionale e la generale mancanza di denaro, all’infuori che per i fornitori dell’esercito e gli speculatori, strangola il mercato dei beni di lusso. Si vuole allora produrre il primo arredo fabbricabile in serie per il popolo, inteso come borghesia, semplice, lineare ed economico; contrapposto a quello dell’Ancien Regime, che è reso dalle decorazioni e dalla forma mossa, eseguibile solo singolarmente. A ciò si aggiunge la tendenza ideologica verso una semplicità spartana e razionale. L’arredo diventa perfettamente squadrato, parallelepipedi lisci e privi di decorazione, eseguiti, in massello od impiallacciati, con legni locali: noce, ciliegio, olmo, rovere, ecc. Le gambe ed i piedi sono semplici tronchi di piramide rovesciati. È quest’arredo Direttorio, che oggi spesso è scambiato come già detto con quello Luigi XVI, che fornisce i volumi di base al mobile impero; al quale si aggiungono, i piedi ferini, e la placcatura di scuro mogano, per meglio far risaltare l’ornamentazione bronzea. Stessa derivazione per quello restaurazione, influenzato dal Biedermeier, realizzato anch’esso in legni locali, con decori in lamierino ed elementi ebanizzati.

 

Conclusione.

Il secolo cominciato sotto il potere fermo ed assoluto dei Borboni ed il fiorire del capriccio, si conclude con la Rivoluzione ed il trionfo della linea e della razionalità. Sembra confermarsi il concetto secondo cui: un momento storico di stabilità permette e favorisce un’arte movimentata, inquieta ed una società gaudente; un periodo pieno di sconvolgimenti e d’incertezza, pare viceversa esigere un’arte controllata, razionale ed una società seria ed impegnata. Certo in ciò avvertiamo netto il passaggio dalla mentalità parassitaria dell’aristocrazia a quella produttiva della borghesia; ma ancor più la conferma della necessità di contrasti ed opposizioni sempre utili al cambiamento ed al progresso dell’uomo.