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Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore
Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Scheda di approfondimento.
La scagliola, terza parte, la
tecnica.
Questa
scheda è stata redatta dalla dottoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso
il Tribunale di Bologna.
La scagliola terza parte,
tecnica.
IL cartone e la preparazione per
i decori.
Prima di analizzare le operazioni atte alla realizzazione dei decori,
è necessario esaminare la parte ideativa dell'opera. Si eseguivano schizzi e
bozzetti e con il committente si sceglieva il disegno definitivo, ricordiamo
che le opere degli artisti in passato erano sempre sottoposte all'approvazione
di chi ordinava il lavoro. Dal disegno si eseguiva il cartone, che come dice il
nome era di spessore adeguato al suo ripetuto utilizzo, talvolta con riportate
le indicazioni dei colori. Se il disegno presentava parti eguali, si faceva un
cartone solo per ogni decoro e anche per i disegni simmetrici, doppi o
inquartati, lo si usava ribaltandolo. Per le bordure, e le cornici il cartone
era fatto in modo da poter essere usato consecutivamente. I disegni e i cartoni
costituivano un vero e proprio archivio riutilizzabile. Inserendo delle
varianti, mantenendo una corretta proporzione, si producevano un infinito
numero di opere diverse. Il trasferimento del disegno sul fondo di scagliola,
poteva essere eseguito per ricalco, passando sui contorni della decorazione una
punta, che lasciava l’impronta sulla superficie umida, o per spolvero,
utilizzando il sistema, usato nell’affresco. In questo caso si foravano tutti i
contorni del disegno con un punteruolo e si spolverava battendo lungo i fori
con un sacchetto di garza contenente una polvere colorata, così da ottenere
impresse sul fondo le linee puntinate del disegno. Si utilizzava: carbone, per
il nero sui fondi chiari o gesso, per il bianco su quelli scuri. Per
completarlo, si riunivano i vari punti, graffiando la superficie con ferri
appuntiti. Tale compito era spesso affidato agli apprendisti. Questa prima
graffiatura era poi incisa più a fondo, creando una traccia profonda da uno a
sei millimetri, secondo le esigenze. Teniamo presente che le prime incisioni
erano di norma più marcate, dovendo sopportare più raschiamenti e spianature
delle successive.
L'intarsio.
Si proseguiva con la vuotatura, della parte interna al contorno
del disegno, con piccoli scalpellini e sgorbie di vari profili; ricavando gli
alloggiamenti, o casse, e i così detti canaletti, o nicchie dove era colato e
spatolato l'impasto di scagliola colorata. La superficie di queste incisioni
era resa ruvida, granulosa e inumidita per una migliore adesione dell'impasto
al fondo. Quando si usava come supporto il marmo, si eseguivano tracce più
profonde, che non dovevano assolutamente essere lisce, a tale scopo se ne
incidevano ulteriormente i fondi per ottenere i così chiamati
"inviti" e aumentare la coesione di materiali diversi tra loro. La
preparazione della meschia si realizzava allo stesso modo, sia per
l'approntamento dell'impasto per la coperta di fondo che rivestiva il supporto,
sia per gli impasti colorati che andavano a riempire le successive incisioni;
l'unica differenza consisteva nella densità delle mescole. Come già accennato
nelle schede precedenti, il termine "meschia" già in uso dalla metà
del XVII secolo è indicativo per la tecnica applicata nella realizzazione
dell'impasto, che derivava dalla mescolanza di polveri di gesso con collanti
naturali e pigmenti colorati. Non possiamo entrare in merito delle infinite
sfumature di tali procedimenti. L'ingrediente di base è la polvere di gesso,
della qualità più pura, mentre i collanti usati, sempre di origine naturale,
possono essere di diversi tipi. Il più noto era la colla tedesca o di pelle,
che era preparata usando i nervi, il carniccio e le cartilagini di animali, che
erano posti a macerare in acqua o in bagno di calce, il giorno dopo si portava
lentamente a ebollizione, ottenendo la colla madre; da cui si ricavava, con
sapienti diluizioni, l'acqua di colla. L'acqua di colla era indispensabile allo
scagliolista per ottenere un impasto più malleabile e solido e per allungare i
tempi di lavorazione, ottenendo al contempo colori più vividi. Dall'utilizzo
esclusivo della pelle dei conigli si fabbricava l'omonima colla. Un'altra
colla, sempre di origine animale, era quella di pesce, fabbricata con la
macerazione e successiva bollitura delle vesciche natatorie e di altre parti
del pesce. Dalla macerazione della caseina in acqua e calce viva si realizzava
la colla di formaggio, l'attuale colla di caseinato di calcio, conosciuta fin
dal medioevo, con forte resistenza all'umidità, quindi particolarmente indicata
per la realizzazione di pavimentazioni ed elementi architettonici in scagliola
plastica, in marmo di stucco o in marmo artistico, nome con cui si definisce la
tecnica dei finti marmi. Altre colle di origine vegetale erano usate più
raramente: la colla glutine, ottenuta dalla parte centrale dei semi di cereali,
molto vischiosa e tenace e la colla arabica ricavata estraendo il liquido
linfatico dai tronchi e dai rami di varie specie di acacia. Le prime notizie
storiche in merito ai colori nella scagliola indicano una probabile
contemporaneità nell'uso d'impasti colorati, sul finire del '500 e i primi del
'600, sia in Germania sia in Italia. In particolare a Carpi in Emilia, che nel
XVII secolo fu il maggior centro di diffusione di questa tecnica, con opere
inizialmente realizzate, per committenze principalmente ecclesiastiche, in
bianco e nero e successivamente policrome. A questo proposito sempre nel XVII
secolo non dobbiamo dimenticare l'importanza di Firenze e della Toscana. Nel
Museo civico di Carpi è conservato il ritratto di Guido Fassi con la scritta
"Guido Fassi da Carpi inventore dei lavori in scagliola colorita e
macchinista 1616". Anche se non si può dare con certezza la paternità
della scagliola al Fassi, questa è la prima testimonianza documentabile, dove
se ne trovi attribuita l'invenzione.
Le casse erano riempite
premendovi all'interno con una spatola l'impasto colorato. Nel caso di solchi
meno estesi si poteva anche colare un impasto semiliquido. Dopo essiccazione si
spianava l'inserto con acqua e pietra pomice; prima di grana grossa, poi più
fine. Il gesso, lo ricordiamo, si espande leggermente durante l'essiccazione,
riempiendo ogni spazio; tuttavia era sempre necessario stuccare e spianare ogni
più piccola mancanza.
La policromia.
L'impasto colorato poteva già essere sfumato in varie gradazioni
oppure si procedeva a nuovi svuotamenti e successivi inserimenti d'impasti
colorati in gradazioni di tinte. Dal XVIII secolo si ricorse anche a finiture
colorate a pennello, tecnica particolarmente in voga dal XIX secolo; ma molto
meno solida. Per ottenere ulteriori effetti coloristici si graffiavano altri
particolari, si riempiva e si tornava a spianare. Quest'ultima operazione
doveva essere eseguita senza esitazioni e la sua riuscita distingue l'opera del
maestro.
La finitura.
L'ultima sequenza è quella della levigatura, con carbone dolce
di faggio o salice, e lucidatura a base di olio di oliva e di noce. La
lucidatura è molto insistente e accurata proprio per proteggere il manufatto
altrimenti troppo sensibile all'umidità, per garantire insomma buone proprietà
di resistenza e impermeabilità. La lavorazione, secondo questi procedimenti, di
un paliotto di medie dimensioni o di un piano da tavolo medio-grande dura circa
tre mesi. Si ricorreva anche all'uso di diverse pietre pulenti e lucidanti:
ardesia, serpentino, ematite, agata. Alla fine si poteva passare anche una
mistura cerosa, tecnica molto usata nell'Ottocento. Il grado di finitura era
direttamente proporzionale al conseguimento: della compattezza, della
lucentezza e della resistenza nel tempo del manufatto.