SCHEDE TECNICHE


Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro

per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.

Si ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso il

Tribunale di Bologna www.perito-arte-antiquariato.it

Il vetro. Quarta parte: l’Art Nouveau, il Novecento, la modernità.

Nel 1895 apre a Parigi il negozio denominato “ L’Art Nouveau”. Emile Gallé fu non solo il maggior interprete, ma anche il più consapevole, del nuovo concetto di arte totale con cui si annullava la distinzione tra arti maggiori e minori. Nelle esposizioni di Parigi, 1900, e di Torino, 1902, si affermò definitivamente il superamento del revivalismo storicistico. L’adozione di motivi floreali od ispirati all’Oriente ed anche quella delle forme baroccheggianti sono tutte da intendersi all’interno di tali scelte. La fabbrica LÖtz, fondata nel 1836, passò alla vedova Susanne LÖtz nel 1851 e nel 1858 fu registrato il marchio Johann LÖtz Witwe. Le manifatture austro-tedesche per distinguersi dai prodotti francesi opachi adottarono la tecnica dell’iridescenza superficiale; peraltro ispirata alla naturale iridescenza, che si forma sui vetri archeologici. La fabbrica Daum iniziò la produzione di vetri artistici nel 1891 ed occupò complessivamente 400 dipendenti; già nel 1900 fu conferito all’Esposizione Universale di Parigi un Gran Prix alla Daum ed uno a Gallé. Dopo questo premio si unirono nella scuola di Nancy, con Gallé presidente, Daum vicepresidente e con come membri anche Majorelle e Prouvé. Con il Novecento l’Art Nouveau trionfa nel mondo con Gaudì in Spagna, Horta e Van de Velde in Belgio, Morris in Inghilterra, Mackintosh in Scozia, Klimt e Hofman in Austria. Invenzione di Daum sono i fiori corolle, sintesi di tutte le tecniche allora note. Dopo la famosa “Esposizione delle Arti Decorative” del 1925 la Daum contribuì all’integrazione dei vetri in tale movimento, di cui fu la maggior interprete; segnando la fine dell’Art Nouveau. Si abbandonò il floreale per linee più pure, in cui le cesellature e le morsure all’acido compongono sobrie geometrie. Nel 1951 Michel Daum iniziò l’epoca del cristallo, lavorato solo a caldo e nel secondo dopoguerra grazie alla collaborazione con Salvador Dalì e l’utilizzo della pasta di vetro la Daum conobbe un rinnovato successo nel campo artistico. Nel 1923 Vittorio Zecchin presentò alla “Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative” a Monza una serie di vasi dalle linee severe ed eleganti; unendo la tradizione Veneziana ai dettami della corrente secessionista viennese. Direttamente ispirati ad essi i vetri toscani recuperarono la tradizione rivolgendosi all’archeologia etrusca; realizzando vetri scuri, suggeriti dai buccheri. Nel terzo decennio del Novecento alcuni artisti preferirono al vetro leggero e diafano l’utilizzo di vetri pesanti lavorati in grosse masse. Ricordiamo René Lalique ed il suo vaso Tourbillion; anche Maurice Marinot eseguì vasi di grosso spessore potentemente acidati. A Venezia l’architetto Carlo Scarpa, direttore artistico della MVM Cappellin & C, elaborò vasi di pasta vitrea a grande spessore con superfici acidate porose e granulose, dai volumi monumentali, profondamente intagliati. La superficie dei vetri corrosi appare simile all’intonaco grezzo di un muro. Essa si ottiene applicando della segatura imbevuta di acido fluoridrico a vetri di grosso spessore. Per questi vetri Scarpa scelse colorazioni tenui: fumé, ametista, acquamare, rosato, giallo paglia. La superficie, sottoposta a forte iridazione, risultava cangiante. Carlo Scarpa adottò il vetro pulegoso, con l’inclusione di miriadi di bollicine ( da pulega, bolla). Alla biennale di Venezia del 1936 oltre ai corrosi furono esposti anche i sommersi, le murrine alla romana ed i lattimi. I sommersi sono vasi fatti con i classici vetri muranesi e poi sommersi in un limpido cristallo, che avvolge il nucleo come un guscio trasparente. Fenomeno totalmente nuovo a Venezia solo nel XX secolo si crea la figura del direttore artistico con il compito di dare un indirizzo, che renda immediatamente riconoscibile la produzione di una fornace; accompagnando con successo i vari movimenti artistici, dal Liberty allo stile Novecento. Dal 1923 il comune di Murano è stato incorporato in quello di Venezia ed il museo vetrario si è espanso occupando l’intera sede comunale. Le difficoltà tecniche legate alla modellazione di pesanti masse di vetro incandescente sono state affrontate a partire dagli anni Trenta del secolo passato. Attualmente, la corrente scultorea cui appartengono alcuni dei più apprezzati maestri di Murano, occupa una posizione fondamentale nell’ambito della produzione muranese. Oggi il vetro sconta ancora una certa diffidenza, essendo considerato materiale minore adatto più alla decorazione che alle opere d’arte. Come dice Franco Batacchi “È curioso osservare come il ferro e il vetro siano stati costretti a superare esami di ammissione che altri materiali come il legno, l’argilla e la pietra, pur comunemente adibiti all’oggettistica e all’edilizia, non hanno dovuto affrontare... paradossalmente, per secoli è stato il bronzo il medium considerato più degno a materializzare l’arte a tre dimensioni...che – tra tutte – proprio il bronzo è la sostanza più riproducibile” (da “Facing 1200” collezione Berengo). E grazie ai coraggiosi tentativi di vetrai contemporanei che il riscatto del vetro è cominciato. Un ottimo esempio è rappresentato a Murano dalla Berengo Fine Arts, che sta allestendo all’interno di un’antica fornace una mostra permanente delle sue collezioni con totem di grandi dimensioni ed impianti assolutamente innovativi sia nelle tecniche che nei materiali usati in contaminazioni di grande impatto.

Alcune tecniche classiche.

Lampadari.

Il “cesendello” fu dal Medioevo al primo Settecento il più raffinato sistema di illuminazione nelle abitazioni e nelle chiese: era un contenitore allungato, riempito di acqua e di uno strato superiore di olio e dotato di uno stoppino, era inserito in un supporto anulare metallico, che permetteva di appenderlo. Una novità importante, risalente al XVIII secolo, dovuta al Briati, è la nascita della “ciocca”, il lampadario di cristallo a bracci portacandele con elementi in vetro soffiato e decorato da fiori vitrei multicolori e da elementi pendenti: questo lampadario occupa ancora oggi un posto di rilievo nella produzione di Murano. Sempre al Briati è attribuita la fabbricazione di arredi decorati di vetro.

Vetro da finestre.

Il metodo più antico consiste nel soffiare un vaso a forma di parallelepipedo in stampi e di ritagliarne le quattro facce   quadrate. Poi si soffiarono bottiglie cilindriche da cui si ritagliavano il collo e la base ed una volta tagliato per la lunghezza il corpo era riscaldato facendolo distendere, fino ad ottenere una lastra piana. Sempre antico il sistema di soffiatura di dischi, che poi erano uniti con telai (le lastre di tale tipo sono riconoscibili per le imperfezioni tipiche del processo di soffiatura, di cui le più evidenti sono piccole bollicine). Più recente la tecnica di colatura, tipica dei vetri francesi prodotti dalla fine del Seicento dalla manifattura dei Gobelins grazie al vetraio italiano Bernardo Perotto (queste sono riconoscibili per le caratteristiche ondulazioni parallele lasciate dal rullo utilizzato per spianare la massa vitrea calda e per lo spessore generalmente più consistente). A Venezia si produsse solo per soffiatura ed i vetri da finestra erano molto usati tanto che nel 1581 Francesco Sansovino si meraviglierà che: “tutte le finestre si chiudono, non con impannate di tela incerata, o di carta, ma con bianchissimi e fini vetri, rinchiusi in telaro di legno, e fermati con ferro, e con piombo, non più né i palazzi e casamenti, ma anco in tutti i luoghi, per ignobili che si siano”. Era uso comune utilizzare telai di stoffa bianca e sottile resa trasparente spalmandola di cera, d’olio o di strutto; o carta oleata. (per approfondimento vedi a pag. 31, al capitolo “Note sulla vita dei contadini italiani nel Settecento” nel saggio, di cui sono autore, “Dal capriccio alla linea” in “Arredi del Settecento” Artioli editore). Da tali lastre dopo averle molate e lucidate si facevano gli specchi argentandoli con l’amalgama di stagno. Fino alla metà dell’ottocento il retro degli specchi appare argentato, poi invalse l’uso di verniciarli per proteggerli, dapprima in rosso e dal novecento in vari colori. A Venezia gli specchi assunsero una funzione decisamente decorativa grazie all’incisione di disegni e figure. Tipica fu la specchiera con cornice di specchio inciso e decorato.

Perle vitree.

Le più semplici sono le “conterie”: perline arrotondate o a spigolo vivo, ottenute sezionando tubicini forati. Per fare i tubi l’artigiano agganciava alla levata dalla parte opposta alla canna da soffio un’asta metallica, detta conzaura, e mentr’egli continuava a soffiare per mantenere aperto il tubo un garzone tirava la conzaura ed un altro raffreddava con acqua le parti che raggiungevano il diametro voluto. Essi erano tirati in fornace per una lunghezza di decine di metri. La manualità si esalta nella cosiddetta lavorazione a “lume”: una canna vitrea non forata viene ammorbidita dal calore del fuoco che fuoriesce da un cannello, in seguito viene avvolta intorno a un tubicino metallico, in modo da conferire alla perla la forma desiderata e infine decorata con vetro policromo. Se ne fanno anche a due strati, per esempio come le corniole con quello interno bianco opaco e l’esterno trasparente rosso rubino.                                   

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