SCHEDE TECNICHE

Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.
Si ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso il 

Tribunale di Bologna www.perito-arte-antiquariato.it

 
 
Scheda tecnica, doratura ed argentatura a fuoco.
 
Nel corso del 600’ si perfeziona la tecnica della doratura a fiamma, chiamata anche al mercurio o ad ormoulou, secondo la fase del processo cui ci si riferisca. Essa è estremamente resistente, adatta a sopportare le successive operazioni di brunitura (lucidatura). Persino l’acqua regia in grado di sciogliere l’oro non riesce a sdorare un oggetto dorato al mercurio se non sciogliendo anche parte del metallo di supporto. Diverse sono le formule ed i modi di lavorazione, in base all’epoca, ai materiali ed alle abitudini delle varie botteghe; ma in linea di massima le procedure sono abbastanza simili. Foto 1 http://www.pinterest.it/pin/561683384775402173/
Il pezzo è rifinito, cesellato e raschiato con lime ed abrasivi; in modo da risultare più o meno ruvido in quelle parti che dovranno presentare una doratura opaca, lucido in quelle che dovranno essere brillanti.
Poi si lavava e puliva il tutto e si sgrassava, normalmente utilizzando dell’urina, che in passato è stata sempre adoperata come acido debole, quale composto naturale a base d’ammoniaca. Il pezzo da dorare è spalmato con un sottile strato di mercurio (chiamato anche argento vivo) miscelato ad acqua forte (termine con cui si designava l’acido nitrico, ottenuto dalla distillazione del salnitro), che funge da mordente.
L’oro zecchino, vale a dire puro a 24 carati, battuto in sottili foglietti, viene sminuzzato ed amalgamato con il mercurio, mescolandolo in un crogiolo a caldo in una percentuale variante dall’otto al trenta per cento, mediamente otto parti di mercurio per una d’oro (la formula antica è un’oncia d’argento vivo per un gros d’oro); quindi si getta in acqua. Si ripete tale operazione finché il composto non torna ad essere liquido come il mercurio puro. Ne risulta un amalgama di colore argentino, che è raccolto con una lima di rame, bagnata in acqua forte, e con essa gettato sul pezzo o steso per mezzo di un pennello fatto di fili d’ottone; quindi lo si spalma aiutandosi con un avvivatoio (strumento metallico con un terminale curvo ed appiattito). Si pone il tutto su di un fuoco di braci coperto di cenere finché il pezzo ha raggiunto il calore rosso e l’amalgama non comincia a bollire; in modo da ottenere l’evaporazione completa del mercurio, che si realizza quando ogni residuo argenteo è scomparso, poi si lascia raffreddare. Se sono visibili parti mancanti di doratura e per ottenere dorature di qualità, si surdora, come si è solito dire, ricominciando da capo per tre quattro volte e perfino sette volte, fino ad ottenere una doratura spessa ed uniforme. Si bagna di nuovo in acqua fredda, si spazzola e si riscalda, si ribagna e si sciacqua abbondantemente.
Fin verso la fine del regno di Luigi XV° la doratura opaca si otteneva sia grazie al raffreddamento repentino del pezzo in acqua ma soprattutto mattando (rendere ruvida una superficie di modo che risulti opaca) la superficie con ceselli terminanti con una serie di piccolissimi denti, chiamati appunto mattatoi, con cui s’imprimono minuti punti sulla superficie stessa. Dall’epoca di Luigi XVI si ricorse ad una mattatura molto efficace, eseguita cospargendo con una pappa di sale la doratura, che si voleva rendere opaca, portando nuovamente il bronzo ad incandescenza e gettandolo in acqua fredda. Le parti, che devono risultare lucide sono brunite con i brunitoi, utensili costituiti prevalentemente da pietre d’agata fissate a dei manici di legno, con differenti sagome secondo le necessità. La brunitura è ottenuta mediante sfregamento a pressione della superficie dorata, da parte della pietra, con conseguente compattazione della stessa, resa prima della doratura la più liscia possibile. 
Questa doratura è particolarmente resistente per due motivi: primo si utilizza una notevole quantità d’oro; secondo il ripetuto riscaldamento porta l’oro ad occupare uno spazio, che è intermolecolare al bronzo in una specie di lega. Ciò rende i manufatti in pratica inossidabili, in particolare nelle parti lavorate ed in quelle opache. È l’ossidazione del metallo, nel bronzo e nell’ottone  del rame che n’è il principale componente delle leghe, che polverizzandolo provoca il distacco della doratura che vi è appoggiata. Questo discorso vale in misura minore per le parti lucide molto meno resistenti, probabilmente perché la doratura si ancora meno sulle superfici lisce; oppure perché dorate in uno dei due altri modi che stiamo per descrivere. 
La doratura a fiamma di un oggetto antico deve apparire sempre ottimamente conservata sulle parti opache e lavorate e più o meno consunta su quelle lisce e lucide; questo è il segno distintivo di un manufatto antico, non ridonato; inoltre devono essere dorate solo le superfici a vista. Al contrario la doratura galvanica non impedisce l’ossidazione del rame ed il conseguente distacco dell’oro, sia perchè l’oro è impiegato in minore quantità, ma soprattutto in quanto è depositato solo appoggiato sulla superficie, sono le parti lavorate a risultare anche più consunte di quelle lucide, in quanto maggiormente soggette a condensa, anche se apparentemente meno esposte all’usura. Proprio la mancanza di doratura in parti inaccessibili o protette è indice di doratura originale, normalmente il falsario consuma di più le parti accessibili. 
Un altro tipo di doratura a fiamma è realizzata senza l’uso del mercurio. In questo caso si riscalda il metallo finché non prende un colore blu, si stende direttamente la foglia d’oro sul pezzo per mezzo di un ferro liscio, poi si riscalda ulteriormente il tutto sulle braci. Possono seguire fino ad altre quattro mani di doratura, posando un foglio alla volta o per i lavori di maggior qualità due insieme sovrapposti, e riscaldando ogni volta. La superficie risulta con questo metodo già lucida, poi se necessario si brunisce il tutto. È un sistema più veloce, economico e meno pericoloso per la salute, ma anche meno resistente; inoltre non riesce a raggiungere la bellezza dei contrasti ottenibili con la doratura al mercurio.
Una variante, descritta nell’Enciclopedia per le operazioni d’argentatura, ma valida anche per la doratura, è quella dell’oro hascé (tagliato, graffiato). Simile alla tecnica appena descritta, varia solo per l’uso di segnare e graffiare fittamente con un coltello tutta la superficie, prima dell’applicazione delle foglie d’oro o d’argento, allo scopo di farle meglio aderire. Tali segni sono ben visibili, ad esempio sulle parti dorate lucide ed in particolare sul retro dorato lucido di molte pendole. 
Si usava uno o l’altro metodo secondo il risultato che si voleva ottenere e non perché la doratura fosse più o meno resistente. Era il solo modo che avevano a disposizione. L’oggetto era prodotto per il committente non per i suoi eredi. Sarà soprattutto la borghesia, con sentimenti simili a quelli odierni a preoccuparsi maggiormente della conservazione; ad esempio con l’uso frequente di protezioni come le campane di vetro.
Un’operazione importante era quella della messa in colore dell’oro. Il gusto settecentesco esigeva di armonizzare i differenti tipi di dorature presenti o di creare effetti contrastanti ad arte. La doratura è allora messa in colore, in altre parole colorata in tonalità: rossastre, verdastre, azzurrine, ecc. Questo si ottiene: sia per mezzo del riscaldamento, dopo aver cosparso il pezzo con varie sostanze, le cui formule sono morte insieme ai doratori che le hanno usate; sia verniciandolo con trasparenti a freddo, dopo la doratura. Il risultato di questa raffinata tecnica poteva generare all’epoca differenze anche notevoli nel prezzo. Essa costituisce uno dei fattori utili a distinguere l’età dei manufatti e l’originalità della doratura antica precedente l’Ottocento. Con l’affermazione del Neoclassicismo maturo, la doratura al mercurio non fu più messa in colore ed appare normalmente col suo naturale colore tendente al giallo limone.
Per l’argentatura al mercurio si seguono gli stessi identici procedimenti, mentre nell’argentatura a fiamma a foglia si posano anche quattro fogli sovrapposti per volta giungendo ad uno strato spesso anche quaranta fogli, tale argentatura era definita “spessa come un’unghia”. Questo perché l’argentatura è soggetta ad una maggiore usura, in quanto l’argento ossidandosi deve essere pulito frequentemente. Facciamo notare che la scarsezza di pezzi argentati pervenutici, prodotti in epoca in numero consistente (si valuta la produzione di pezzi argentati in epoca Luigi XIV e Luigi XV in circa il quaranta per cento), è proprio dovuta, oltre che naturalmente al mutare del gusto, a tale motivazione, che ha portato a dorarne gran parte dopo un certo tempo, onde evitarne la continua manutenzione. 
Il sistema più economico per “dorare” è la messa in colore d’oro, da non confondersi con la tecnica descritta in precedenza. Il bronzo viene immerso in acido nitrico fino ad ottenere un colore brillante, simile a quello dell’oro, poi è ricoperto da una vernice di protezione; la più celebre è quella chiamata d’Inghilterra. Questa falsificazione riesce così bene da trarre anche in passato in inganno i compratori. Molti bronzi sono semplicemente trattati in questo modo economico, ma tanti soprattutto quelli di maggior qualità sono stati poi dorati a fiamma; anche perché col tempo, perduta la vernice di protezione, tendono ad ossidarsi rapidamente. Essa era la più frequente per le filettature in lamierino d’ottone; e soprattutto per le decorazioni in lamierino stampato. Ricordiamo che i così detti “lamierini” (maniglie e decorazioni per mobili in ottone stampato) sono stati prodotti dopo l’Impero, quale versione economica dei bronzi fusi, principalmente dal periodo biedermeier in poi, essi sono una spia sicura, quando originali, dell’epoca di creazione e della produzione attardata d’arredi, soprattutto in aree provinciali. Bisogna guardarsi anche da quegli ornamenti dorati galvanicamente, ma soprattutto prodotti galvanicamente in rame, riconoscibili per la presenza anche sul retro del rilievo. Anche gli oggetti in zinco e nelle sue leghe, il più noto è l’antimonio, sono prodotti generalmente dopo la Restaurazione (o se preferite com’è di moda dire erroneamente oggi dopo il Carlo X. Per inciso l’unico stile degno di questo nome è identificabile solo in quegli arredi impiallacciati di legno chiaro e con intarsi contrastanti in legno scuro, il resto, anche se a qualcuno può suonare male, deve definirsi Restaurazione 1815-30 o Luigi Filippo 1830-50.) infatti, solo dal 1820 si poterono produrre quantitativi significativi di tale metallo e soprattutto dopo l’invenzione della doratura galvanica, che si applica a freddo, è stato possibile dorare oggetti che con la doratura a fiamma si sarebbero fusi. 
Ricordiamo che con la doratura a fuoco si possono dorare diversi metalli e leghe, tra cui anche il ferro, ma appunto solo quelli che resistono al riscaldamento oltre i 400 gradi. Con la doratura galvanica si può dorare qualunque materiale conduca l’elettricità ed anche quelli non conduttivi se trattati con apposite vernici conduttrici; ciò permise in passato di rivestire oggetti di gesso depositando galvanicamente uno strato a spessore di rame e poi dorando. Io stesso ho visto spesso oggetti, anche di grandi dimensioni, prodotti in tal maniera e creduti per ignoranza più antichi. La cosa si complica, quando dopo la produzione l’oggetto viene svuotato dall’anima utilizzata possiamo dire come stampo interno, esso rimane riconoscibile in quanto normalmente tali oggetti sono troppo complessi perché possano essere stati sbalzati o troppo regolari negli spessori, peraltro normalmente esigui, per essere stati fusi. Rileviamo inoltre che normalmente gli oggetti fusi sono d’ottone dorato e non com’è comunemente ritenuto di bronzo, anche quando io stesso uso il termine bronzo lo faccio per non ingenerare confusione, ma si tratta quasi sempre d’ottone, lega più usata per le lavorazioni di cesello e doratura. La doratura e l’argentatura erano operazioni costose, si applicavano non solo agli arredi, ma anche ad oggetti d’uso comune come i bottoni o le spalline militari. In ogni caso si trattava di lavorazioni molto specializzate. Parigi rimase a lungo il maggior centro di produzione e gli operai erano rigidamente divisi in corporazioni. Solo alcuni ebanisti ottennero il privilegio reale di produrre e dorare gli ornamenti dei loro mobili, come ad esempio il grande André-Charles Boulle, gli altri dovevano comprarli o commissionarli da quelli autorizzati. Oggi la doratura galvanica è applicata anche ad oggetti di costo irrisorio, ma non mancano quelli importanti per committenze reali. 
Se possiamo rammaricarci della scomparsa di una tecnica, che ha prodotto tanti capolavori e del generale scadimento attuale, dobbiamo rallegrarci per il risparmio di vite ed il miglioramento delle condizioni di lavoro. La doratura al mercurio è estremamente tossica a causa della velenosità dei vapori di mercurio, che si sviluppano durante il riscaldamento. Gli operai addetti spesso morivano dopo pochi anni di lavoro e non ci consola certo il fatto che in ogni modo all’epoca la vita non fosse molto lunga. Molti si adoperarono per risolvere questo, che era visto come un vero e proprio flagello. Ricordiamo il premio di tremila lire istituito dal grande orologiaio Lepaute, uno dei pochi morto ricco, nel 1830 per chi fosse riuscito a trovare un metodo di doratura meno nocivo. La doratura galvanica risolse questo problema. 
Bisogna notare che in quegli anni, tra il 1830 ed il 40, assistemmo ad un generale progresso, che mutò il mondo molto più di quanto non stia succedendo oggi. Basti pensare che prima si andava a piedi o a cavallo e dopo in treno, prima a vela e poi a vapore, per un ritratto ci voleva un pittore e poi bastò la fotografia con i primi dagherrotipi. Soprattutto si passò da una produzione seriale, ma non standardizzata a quell’industriale moderna standardizzata, con immensi incrementi produttivi e l’enorme miglioramento delle condizioni di vita delle masse dei salariati, anche grazie alla produzione di massa. La doratura al mercurio fu dunque vittima del progresso e definitivamente abbandonata con la fine del XVIII secolo.
Gli oggetti delle foto sono proprietà dell’autore e saranno esposti nello stand 13 galleria Guido Reni, alla mostra “Modena antiquaria” in programma dal 19 al 27 febbraio 2005.
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