SCHEDE TECNICHE
Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.
Si ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte presso il
Tribunale di Bologna www.perito-arte-antiquariato.it
Tecnica d’intarsio sesta parte.
L’intarsio di materiali lapidei.
Le pietre sono divise in un ordine di durezza, relativo alla resistenza alla scalfittura superficiale, detto scala di Mhos, da questi elaborata nel 1822. Così suddivisa: 1 talco, 2 gesso, 3 calcite, 4 fluorite, 5 apatite, 6 ortoclasio, 7 quarzo, 8 topazio, 9 corindone, 10 diamante. Elenchiamo alcune delle più usate per i manufatti artistici.
Pietre tenere.
Marmi bianchi: lo statuario è il più bianco ed il più indicato per la scultura; il comune, diviso in cinque sottogruppi dal più chiaro al cenerino; il bianco p, leggermente tendente al plumbeo, e l’unico che presenta un verso di lavorazione. Tutti cavati in Toscana.
Altro marmo assolutamente bianco e pregiato è quello pario, proveniente dall’isola di Paros, si presenta a grana zuccherina come i precedenti ma con cristalli molto più evidenti.
Il bardiglio, di colore da bigio-grigio a scuro, proveniente principalmente dalle Alpi Apuane. Utilizzato in ogni epoca. Bisogna fare attenzione a non fargli subire colpi, che lasciano indelebili chiazze biancastre.
Il cipollino, venato appunto come una cipolla, utilizzato principalmente per colonne.
Il rosso antico, dal rosso vivo al rosso vinaccia, uniforme, ma interrotto da fasce bianche, che più sono estese più ne riducono il pregio. Proveniente dal Peloponneso.
Il giallo antico, giallo- dorato e giallo-rosato, proviene dalla Tunusia. Può essere lucidato molto brillante. Da non confondere con il giallo-Siena, cavato in Toscana, di colore giallo con venature nere; quello più recente è meno venato e presenta anche macchie chiare.
Il fiordipesco, marmo rosso e rosso vinaccia, cavato in Grecia, d’aspetto sempre diverso e di difficile identificazione.
Il verde antico, di colore verde con inclusioni scure e bianche, molto apprezzato in ogni tempo, proveniente dalla Grecia; non deve essere confuso con il somigliante verde-Alpi, che presenta vene terrose estese, che lo rendono più fragile.
Il travertino, estratto alle porte di Roma, di colore paglierino e caratterizzato dalla presenza di numerosi vuoti, che rendono la superficie bucherellata.
Pietre dure.
Il porfido rosso, color rosso porpora con inclusioni chiare o rosate. Le cave più famose sono quelle egiziane di Gebel Doklan, chiuse dal V secolo, perciò tutte le opere posteriori sono tratte dal reimpiego di pezzi antichi. Utilizzato dai romani dal I secolo e poi diffusosi in tutto l’Occidente. Particolarmente adatto alla produzione di lastre, poco alla scultura, per l’impossibilità di ricavare i dettagli.
Il porfido verde, di colore verde brillante con inclusi cristalli nastriformi più chiari. Chiamato anche serpentino, estratto nel Peloponneso. Stesso uso del precedente.
I graniti: quello rosso, usato ad esempio per gli obelischi; quello detto del foro, per il grande uso fattone dai romani nei fori imperiali, d’aspetto sale e pepe; quello bigio, sempre molto usato dai romani; quello nero, quasi completamente nero spesso confuso con il basalto. Tutti provenienti da Syene in Egitto. Importanti per l’impiego fattosene in ogni periodo per monumenti e chiese. Più teneri dei porfidi, ma sempre appartenenti alle pietre dure.
Pietre semipreziose.
Moissanite, carburo di silicio, non è utilizzato come materiale da lavorare, ma può essere prodotto artificialmente con il nome di carborundum. Avendo grado di durezza nove e mezzo, subito dopo il diamante, trova utilizzo, soprattutto polverizzato, in molte lavorazioni industriali, anche della pietra.
Corindone, di colore vario e lucente come il diamante, nella varietà semiopaca grigia e bruna, lo smeriglio, è anch’esso utilizzato in polveri per le lavorazioni industriali. Di durezza pari a nove, dà il nome a questo grado della scala. Nelle varietà gemmologiche, rubino, ametista zaffiro, smeraldo, è la pietra preziosa più importante dopo il diamante. Proviene da diverse parti del mondo.
Fluorite, dà il nome al quarto grado della scala. Di colore variante dal rossastro al viola e dal giallo all’incolore è presente in varie parti del mondo compresa l’Italia. Essendo una pietra semidura non trova utilizzo come gemma, ma è impiegato sia nel commesso che per oggetti ornamentali, conosciuto col nome di blue John. Con esso si prepara anche l’acido fluoridrico.
Lazurite o lapislazzulo, pietra dura, di colore blu con inclusioni metalliche di pirite e bianche di calcite. Proviene dalla miniera di Sar-I-Sang a 2600 metri d’altezza dalla regione di Badakashan in Afganistan. Sin da epoca protostorica (3300-1800 a.C.) è importato in Mesopotamia, con un viaggio di circa tre mesi, scambiato da varie popolazioni. Pietra considerata spesso sacra dagli antichi ha conosciuto un fiorente commercio, praticamente mai arrestatosi. Il primo occidentale a dare notizia precisa dell’ubicazione delle miniere fu Marco Polo, nel 1271. Solo nel 1838 l’inglese John Wood poté visitarle per la prima volta. La durezza del materiale richiede raffinate tecniche di lavorazione e d’estrazione. Non esistendo in epoca utensili in grado di scalfirlo, i blocchi di lapislazzuli sono stati estratti in miniera con una tecnica particolare. Riscaldando la parete con un gran fuoco e poi gettandovi contro acqua gelata, la brusca variazione termica provoca il distacco di blocchi di materiale. Pietra utilizzata per gioielli, commessi, oggetti artistici, sia in massello, che in lastronatura; ma anche, polverizzata, per tingere vestiti e per realizzare il blu oltremare in pittura. Oggi proviene anche dal Cile. Non deve essere confuso con la sodalite, meno pregiata, d’aspetto meno intenso e vellutato.
Malachite, da verde scuro a verde chiaro, proviene dagli Urali, dal Cile, dallo Zimbawe, dall’Australia, ecc; in passato è stata soprattutto utilizzata quella russa. Si utilizza per piccoli oggetti, ma principalmente in lastrine, che si presentano: nuvolate, fiorite, listate, ecc. Essendo il prodotto dell’ossidazione di minerali del rame, bisogna far attenzione alla sua lavorazione, in quanto le polveri sono velenose.
Quarzo, dà il nome al grado sette della scala. È uno dei minerali più importanti e diffusi. Si presenta in innumerevoli varietà. Si presta ai più svariati usi, tra cui quello modernissimo d’elemento per la misurazione del tempo negli orologi, grazie alla qualità di produrre vibrazioni isocrone.
Fin dal paleolitico ritroviamo testimonianze dell’attività di scultori, come il manico del propulsore per zagaglie del periodo Magdeliano del 12000 a.C. proveniente dal riparo “sotto roccia Montastruc”, a Bruniquel in Francia.
Con l’età del bronzo la pietra inizia ad essere lavorata per le grandi opere. Presso gli egizi si prediligono i materiali più duri, come i porfidi e le dioriti, perché la durata del manufatto è connessa all’idea dell’immortalità. Si ritiene che finché sia restata anche solo la traccia del monumento, sarebbe al pari sopravvissuta l’anima di colui cui è dedicato. Se la lavorazione di questi materiali è difficoltosa con i moderni strumenti, pensiamo all’epoca. Si scolpiva per mezzo di percussione con pietre appena più dure o per consunzione, strofinando con pietre, acqua e sabbia. Per questo motivo le statue risultano tondeggianti, vista l’impossibilità di scolpire incavi netti. I romani giunti in Egitto assimilano il gusto per tali pietre, in particolare per il porfido rosso, e le trasportano, con velieri chiamati “naves lapidaria”, a Roma dove sono scaricate parte ad Ostia, parte vicino all’odierna Via Marmorata. Tale via di Roma prende il nome proprio dalla grande quantità di materiali lì abbandonati, perché risultati difettosi dopo il primo abbozzo. Durante tutto il Medioevo ed il Rinascimento è comune riutilizzare le pietre facenti parte delle rovine del passato. A Roma si depredano tranquillamente anche le costruzioni in travertino, nonostante che le cave siano nei pressi della città. Nel XII secolo i Cosmati utilizzano per i pavimenti delle basiliche le colonne antiche, ricavando facilmente dischi di materiale pregiato semplicemente affettandole.
Fino ad oggi i sistemi di lavorazione della pietra sono rimasti pressoché gli stessi.
Vediamo quelli necessari all’intarsio.
Lo strumento fondamentale è rappresentato dalla sega a smeriglio, che troviamo perfettamente raffigurata in un bassorilievo romano proveniente dalla necropoli dell’isola di Sacra (ora al museo d’Ostia), in cui due operai sono intenti alla “segagione”. Essa è costituita da un telaio a forma di H in cui ad un’estremità è fissata una lama metallica ed all’altra un tirante, di corda o di cuoio. La lama è alta da dieci a quindici centimetri, per circa due metri di lunghezza ed uno spessore di qualche millimetro. Chiaramente più è sottile meno fatica incontra nel taglio. Gli egizi avevano solo il rame e quindi dovevano farla più grossa dei romani possessori del ferro. Viene mossa da due lavoranti, che la fanno correre avanti ed indietro, versando nel solco costantemente acqua e smeriglio. Come abrasivo si utilizza principalmente la sabbia quarzifera; poi più recentemente lo smeriglio ed oggi il carborundum. La sega deve essere appoggiata semplicemente senza grande pressione, in modo da far lavorare l’abrasivo, a tale scopo essa è sospesa con pulegge ad un’impalcatura apposita. Il taglio avviene dunque per abrasione. Si possono con tale sistema tagliare anche materiali molto duri. Il Salmoiraghi alla fine dell’Ottocento ci dà i seguenti tempi di lavorazione in ore impiegate da due operai per segare un metro quadro di pietra: 7-10 pietre tenere (uniche ad essere segate con sega a denti, tutte le altre con sega liscia); 10-16 calcari semi-duri; 20-40 calcari compatti, come il giallo Siena ed il travertino; 175-300 graniti; 400-500 porfidi. Con la sega a smeriglio si possono: sia squadrare le pietre, sia sagomarle tangenzialmente ai punti più esterni della scultura, sia ottenere lastre di qualche centimetro per piani o rivestimenti, sia lastrine di qualche millimetro per le lastronature.
Altro strumento indispensabile è il ruotino. Esso è costituito da un disco metallico di piccolo diametro collegato ad un’asta, che gli trasmette il movimento tramite una puleggia. Utilizzato per i piccoli tagli delle tessere del mosaico come dell’intarsio; sempre per mezzo dell’acqua e dello smeriglio. La mola, consistente in un disco rotante di pietra abrasiva di vari spessori e diametri. La martellina, utile al taglio di piccoli pezzi, martello a forma d’arco terminante alle due estremità a cuneo con facce a spigolo vivo, si picchia la lastrina da tagliare posta sul tagliolo, piccolo incudine verticale a forma di cuneo con la faccia superiore a spigolo quasi tagliente. La moletta, piccola lama per segare con lo smeriglio e l’acqua a mano le tarsie. Seguono i vari tipi di scalpelli. La subbia per sgrossare, che finisce con una semplice punta ricavata sfaccettando a piramide il terminale; la gradina per pareggiare, terminante con due o più piccole punte, lo scalpello piano; l’ugnetto per le rifiniture, con la punta a forma di lancia particolarmente assottigliata. Quindi ci sono varie tipologie di lime. Ed in fine per la spianatura l’orso, una piastra forata.
La prima operazione è costituita dallo spacco. Essa consiste nel tagliare, di norma lungo il piano di maggiore ampiezza, il blocco per vederne il disegno, il colore e la grana. È eseguito con la sega a smeriglio su uno o più blocchi fissati con del gesso, per una lunghezza tale da risultare interna al movimento della lama. Le facce dei blocchi sono poi fissate, cercando di coprire tutta la superficie segabile, sempre con gesso, su di una lastra perfettamente piana, che è posta verticalmente, in modo da poter tagliare con la sega, posta perfettamente a piombo, contemporaneamente diverse lastrine dalle varie facce.
L’intarsio può essere eseguito a commesso, avvicinando le tarsie come in un puzzle, od a cassina, inserendole nella superficie intagliata. Nel commesso le tarsie sono incollate con un mastice ad un piano, la fodera, di pietra non troppo pesante e sufficientemente porosa da ancorare bene il mastice. S’intarsiano anche superfici curve, ma in questo caso lo spessore delle lastrine deve essere maggiore onde evitare che durante la levigatura si scoprano parti troppo sottoquadro. Dopo aver tagliato approssimativamente le tarsie secondo il disegno con la moletta, le si sagoma perfettamente con la mola e le si rifinisce con le lime, in modo che si incastrino perfettamente tra loro. Il mastice è applicabile a caldo, per cui bisogna riscaldare bene anche le due facce di pietra da incollare. Anticamente ciò è eseguito mediante carboni ardenti accostati alla superficie, sospesi su reti metalliche. Il mastice, chiamato mistura, è composto di pece greca e cera d’api. Con l’aggiunta di polvere di marmo, e di trementina si fa lo stucco. Come mastice si utilizza a caldo anche l’asfalto, però essendo nero solo per marmi scuri. La mistura permette di riposizionare il pezzo mal incollato, tornandolo a scaldare. Anche la gommalacca (estratta da alcuni insetti che succhiano la linfa d’alcuni alberi dell’Asia) è utilizzata per incollaggi incolori, ma richiedendo un maggior riscaldamento rende il marmo ancor più soggetto a rompersi, di quanto non succede già con gli altri metodi. Si usa anche la gomma dammàr o damar (resina dell’albero Dammara Alba, dell’Australia e della nuova Zelanda) sciolta in acquaragia, come vernicetta per coprire i segni di matita, che non devono essere cancellati durante le lavorazioni ad acqua. La biacca (pigmento per vernici ad olio biancastro, molto usato in passato ed oggi vietato perché tossico) serviva per colorare superficialmente di bianco i marmi scuri in modo da potervi facilmente disegnare sopra; mischiata alla damar e ad altri pigmenti costituisce un ottimo stucco per i marmi policromi.
Una volta incollate tutte le tarsie si procede alla spianatura per eliminare tutti i dislivelli. Essa si ottiene fregando la superficie con pietre abrasive naturali di grana sempre più fine come: la rota grossa, quella fine, la rota inglese e la pomice. Si continuava strofinando acqua e polveri abrasive, la più comune in antico è la sabbia, più tardi lo smeriglio, con una piastra di pietra o di ferro, l’orso, traforata in modo da permettere di versare nei fori l’abrasivo sempre della stessa grana, per integrare quello consumato dallo sfregamento. Una volta spianato tutto il lavoro si continua con l’abrasivo e la polvere di marmo mista ad acqua presente, che via via diventa sempre più sottile ed a sua volta leviga più finemente. La lucidatura finale è ottenuta strofinando la superficie ulteriormente, rapidamente ed energicamente con un tampone rivestito da una lamina di piombo, fase chiamata appunto piombatura, fino ad ottenere un lucido brillante. Basti pensare che la lucidatura richiede altrettanto tempo della spianatura per capire quanto siano lunghi i tempi di tali procedimenti. La spianatura e la lucidatura manuale sono riconoscibili, rispetto a quella moderna meccanica, perché la superficie benché lucida risulta comunque irregolare e non perfettamente piana.
Nell’intarsio a cassina si procede come in quello a commesso, con l’ulteriore difficoltà di dover scolpire le celle che ricevono le tarsie nella pietra, ricavando sempre lo stesso livello di sottosquadro. Naturalmente la pietra del supporto in questo caso appare, dove non viene scavata, facendo parte del disegno dell’intarsio.