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Scheda di approfondimento.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
La raffigurazione sulle superfici. La pittura ad olio.
In passato Jan Van Eyck (1390-1441) è stato considerato l’inventore della
pittura ad olio. In realtà essa era già nota ed usata fin dal Medioevo, ad
esempio per effettuare ritocchi sulle tempere e gli stessi affreschi.
Sicuramente fu merito suo l’averla utilizzata in maniera prevalente ed averne
diffuso universalmente l’uso dal Rinascimento. In Italia essa giunge tramite un
suo erede Antonello da Messina (1430-79), che la diffonde in area veneta dove
Tiziano (1490-1576) arriverà a dispiegarne tutte le potenzialità. Molti i
vantaggi dell’olio, da una maggiore gamma di pigmenti utilizzabili, ad un
maggior contrasto tra opachi e lucidi, ma soprattutto una impareggiabile
versatilità del mezzo pittorico in grado di permettere minuzia dei particolari
ed espressività artistica prima precluse. È proprio il mutamento della
sensibilità estetica nel passaggio al Rinascimento a richiedere una diversa resa
pittorica, in grado di permettere alla nuova sensibilità, sciolta da una
indagine razionale ed analitica del reale, di legarsi ad una prospettiva
sensuale indirizzata ad interpretazioni fantastiche ed irrazionali. Ancora una
volta rileviamo che non è sufficiente la scoperta di un mezzo tecnico; ma che
alla sua valorizzazione contribuiscono sempre un insieme di mutamenti
culturali, a loro volta favoriti dalle possibilità tecnologiche, in un
interscambio strettamente connesso.
La pittura ad olio si afferma
contemporaneamente all’uso della tela, che supera il principale limite
costituito dalle tavole lignee, costituito dalle dimensioni contenute, dal peso
e dalla complessità della lavorazione. Furono i Veneti alla fine del
Quattrocento ad inventare la tela tesa su di un telaio, utilizzando un
imprimitura e resine molli, che restando elastiche permettono un supporto non
rigido. La nuova tecnica liberava l’artista dal gravoso onere della
preparazione delle tavole e, affrancandolo dalla manualità, ne promuoveva lo
status sociale, spostando dall’esecuzione fisica alla progettazione ed all’Idea il criterio di valore dell’opera.
Il progetto divenne il centro della creazione artistica ed ecco che ai vari
schizzi e disegni preparatori si affiancò a volte un modello plastico,
normalmente di creta, per approfondire la distribuzione delle luci e delle
ombre. Anche materialmente il costo del dipinto dipese sempre meno dai preziosi
materiali impiegati, quali: il lapislazzuli, l’oro dei fondi, il turchese, ecc.
Non solo il pittore poteva liberamente spostarsi con le sue tele ed i colori,
ma soprattutto il trasporto, ricordiamo che esso avveniva spesso per via
marittima o fluviale, divenne più facile e meno dannoso per i dipinti. Tutto
ciò contribuì in maniera rilevante allo sviluppo del collezionismo e del
mecenatismo laico, affrancando il pittore dalla committenza ecclesiastica
legata alla decorazione di monasteri e cappelle. Questo permise una maggiore
libertà di espressione con l’affermazione di soggetti più liberi, terreni ed a
volte licenziosi; senza ricorrere alla scusa dei temi biblici per poter
raffigurare le nudità o la sensualità. Si affermò l’uso di realizzare repliche
dei dipinti più noti e richiesti, eseguiti dal pittore stesso, ma anche sempre più
dalla bottega; ciò che contava era l’idea più che la manualità dell’esecuzione.
Il colore è usato
essenzialmente per le sue capacità riflettenti, più che per la trasparenza e la
lucidità. In tale contesto assumono ancor maggior importanza i segreti di
bottega. La ricerca alchemica diviene esasperata, si giunse persino ad
utilizzare il rosso mummia ottenuto dalla triturazioni di
autentiche mummie egizie. Il possesso di formule specifiche favorisce
l’affermarsi di
un pittore ed a volte ne
condiziona l’opera, legandolo a quel colore particolare, che gli ha dato la
gloria. La pastosità e la versatilità dell’olio permettono l’affermazioni di
tecniche manuali esclusive. La ricerca dell’effetto ottico porta a ricercare
risorse, anche in tecnologie non strettamente legate alla pittura.
Così Tintoretto (1685-1755),
è scoperta recente, introduce nei colori paste vitree macinate; aiutato
senz’altro dalla vicinanza con le botteghe muranesi,
ma facendo giungere anche dall’estero quelle non reperibili localmente.
Leonardo (1452-1519) nella sua continua ansia di sempre nuove conquiste, giunge
a valutare prevalente l’uso di una tecnica nuova, piuttosto che la sperimentata
garanzia di modalità già affermate; ciò portò al disastroso tentativo di
rievocare la pittura romana ad encausto nella perduta battaglia di Anghiari, ma anche all’indagine ottica e psicologica del
ben più famoso ed enigmatico sorriso. E se un mio bisnonno Antonio Mancini
(1852-1930), nella continua esasperazione dell’effetto coloristico e della resa
della luce, giunse ad inserire direttamente nella tela pezzi di vetro, di
maioliche e di carta stagnola; oggi si è arrivati a considerare il materiale in
sé come sorgente dell’effetto artistico e fonte stessa dell’opera d’arte.
Molto presto si rendono
disponibili colori già preparati da artigiani specializzati, con grande
rimpianto di quegli artisti e storici dell’arte, che la ritenevano una
prerogativa degli stessi artisti-artigiani; e dal XVIII secolo essi sono
contenuti in pezzi di budello animale, precursore dei tubetti metallici della
metà dell’Ottocento. Tecnicamente il colore ad olio si ottiene da una miscela
di olio, pigmenti ed eventualmente essiccanti; con la possibilità di aggiungere
diluenti, che servivano principalmente a dare trasparenza. Come olio si
utilizzò di tutto, anche l’olio di oliva, ma il più impiegato resta quello di
lino, ottenuto dalla spremitura dei suoi semi, raffinato, ossidato e sbiancato
mediante esposizione al sole per diverse settimane; può con il tempo scurirsi,
soprattutto nella penombra, ma si può in parte rimediare esponendo il dipinto
al sole. L’olio di noce, utilizzato in area mediterranea, è ottenuto spremendo
noci fresche, asciuga rapidamente quasi come quello di lino, ma tende ad irrancidirsi. L’olio di papavero, si ottiene dai suoi semi,
ma si essicca lentamente e può con il tempo screpolarsi. Gli essiccanti sono di
norma composti da sali metallici: piombo, che può risultare tossico; manganese;
cobalto. I diluenti: Il diluente più comune fu l’essenza di trementina
(ottenuta dalla distillazione delle resine delle conifere), ma si usano anche
oli essenziali di rosmarino, lavanda, spigo, essenza di petrolio, l’acetone,
ecc. L’olio è steso su di una imprimitura,
strato di preparazione dato alla superficie della tela da dipingere. Tale
fondo, detto anche mestica, si
ottiene dando una prima passata di colla isolante. I veneti usavano cola
d’amido e zucchero, ma si utilizza anche quella animale, ottenuta dalla
bollitura di pelle animale, e quella di caseina, realizzata con acqua e caseina
del latte; questa ultima si deve
utilizzare in giornata perchè si deteriora
rapidamente, ad essa si aggiunge ammoniaca e glicerina che ne evitano il
successivo imputridimento. Si passa poi la mestica, in antico si utilizzava, come
per i fondi delle tempere su tavola, gesso e colla, che però tende ad essere
rigida ed a screpolare, si può allora aggiungere dell’ossido di zinco o usare
biacca mista ad olio di lino e trementina; oggi si usano vernici di fondo
acriliche. Tra una passata e l’altra si deve sempre raschiare e pareggiare. Si
ottiene in tal modo un fondo omogeneo, assorbente e bianco. Il bianco del fondo
è utile per schiarire i colori e prevenirne in parte lo scurimento a causa
dell’invecchiamento. Alcuni pittori preferivano dare un colore al fondo, od
anche diversi colori di fondo a zone, sia per ottenere trasparenze più morbide,
sia per attenuare l’eccessivo contrasto mentre si dipinge; a volte l’uso di
fondi troppo colorati ha determinato la scomparsa per assorbimento delle mezze
tinte ed anche la modificazione di alcune tonalità sopraffatte dal colore
sottostante.
In fine la verniciatura, che
poteva essere finale, protettiva, od anche intermedia, per isolare uno strato
pittorico dal successivo, trasparente o colorata a seconda della tecnica
personale. La vernice può essere grassa se sciolta in olio grasso come il lino,
magra se in oli essenziali come la trementina. In antico si usava quella di
Dammar, ottenuta dalla soluzione di resina dammar in trementina, o quella
mastice, resina di lentisco sciolta in trementina; tali vernici tendono con il
tempo ad ingiallire, soprattutto quando si utilizzava come diluente l’olio di
lino al posto della trementina e sono tra le cause più comuni del
deterioramento dei dipinti antichi. Si usava anche
Soprattutto in area fiamminga
si sono utilizzate come supporto lastre di rame, lo zinco sarà utilizzato
prevalentemente dopo il 1820, quando fu possibile fonderne quantità accettabili
con forni adatti. Altri metalli si sono dimostrati meno pratici a causa di
fenomeni ossidativi che li interessano. Non è necessaria l’imprimitura, ma si
deve rendere ruvida la superficie per farvi meglio aderire il colore.