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Scheda di approfondimento.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Materiali
e tecniche di lavorazione delle pendole neoclassiche.
L’ottone ed il bronzo sono utilizzato in linea di
massima fusi e successivamente rifiniti.
Le fonderie si servono di leghe di differente
composizione a seconda di vari fattori, come: l’approvvigionamento delle
materie prime; le esigenze di lavorazione; la tecnologia a disposizione; gli
usi consolidati; ecc.
Risultano determinanti le esigenze di lavorazione.
Per le campanelle si utilizza principalmente il
bronzo con alta percentuale di stagno, al fine di ottenere un metallo molto
rigido, adatto a vibrare e produrre le onde sonore una volta percosso, da ciò
derivano il colore argentino e l’estrema fragilità.
Per i fregi e le casse la lega non può sempre essere
definita propriamente di bronzo o d’ottone, in quanto si sono usate percentuali
di stagno, di zinco e di rame tali da non rendere significativa tale
distinzione Tale metallo deve soddisfare differenti esigenze. Da quelle del
fonditore: punto di fusione, fluidità, ecc. A quelle del cesellatore: morbido
da essere lavorabile, duro da rendere il cesello definito, ma non freddo, ecc.
A quelle del doratore: colore di fondo giallo oro, possibilità di essere
riscaldato più volte senza deformarsi, ecc. In linea di massima sarebbe in ogni
modo più corretto parlare d’ottone, anche se ormai è divenuto d’uso comune
indicarlo come bronzo.
Per il movimento si usa l’acciaio per le viti, le
molle, i perni, i pignoni. Il ferro è forgiato e poi rifinito con lime, mole e
frese, a mano o con torni di vario tipo; anche, in alcuni casi, tagliato
mediante l’utilizzo d’apposite macchine, come nel caso delle catenelle degli
orologi. Si adopera prevalentemente ottone per le ruote, i bariletti e gli
altri ingranaggi. Anche l’ottone è lavorato con appositi macchinari.
L’ingegnosità degli inventori fu veramente straordinaria producendo ogni sorta
di macchine-utensili: seghe a nastro alternato mosse a pedale; torni e
fresatrici a manovella, ad archetto ed a pedale, per fendere le ruote, i denti,
i pignoni, ecc; trapani semi automatici per forare le platine; e centinaia di
altri accessori per il collaudo e la messa a punto dei vari rotismi. Il banco
di lavoro dell’orologiaio raramente superava i cm. 130 di larghezza, ma era
provvisto di molti cassetti.
Per i quadranti si usano diverse tecniche e
materiali:
Bronzo–ottone per quelli dorati
od argentati a fiamma.
Rame smaltato bianco o policromo, controsmaltato sul retro. Il ferro smaltato è d’uso più
recente.
Un insieme dei due precedenti.
Un disco di cartoncino disegnato.
Materiali vari dipinti.
Esisteva un apposito marchingegno per tracciare sui
quadranti la divisione in minuti, in secondi, in ore, ecc. Su quelli in metallo
si dipingevano le cifre accuratamente con pennelli e pennini. Su quelli in
smalto dapprima si dipingevano approssimativamente, sul quadrante smaltato in
bianco in prima cottura, le cifre, poi si procedeva a rifinirle con appositi
raschietti e grattatoi ed in fine si cuocevano.
-Il legno locale o d’importazione, in massello o
lastronato, dorato, intarsiato, ecc, è utilizzato in ogni maniera secondo la
qualità della lavorazione; per le casse, per l’ornamentazione, per i quadranti
e persino per gli ingranaggi (come nel tipico modello foresta nera). Bisogna
precisare che, per una committenza ricca ed esigente aggiornata ed alla moda,
gli ebanisti utilizzano (come indica il nome stesso) principalmente legni
esotici impiallacciati (amaranto dalla Guaina, ebano dal Madacascar,
legno corallo dalle isole del Vento, legno di rosa dal Brasile, amboina dalle Molucche, ulivo dalla Siria, sandalo e
palissandro dalle Indie.). E legni locali impiallacciati di qualità, che si
suddividono in: radiche, provenienti dalla parte bassa del tronco prossima alle
radici; tipico esempio quella di noce. Noduli e nocchi, provenienti dalle
escrescenze del tronco di certi alberi, prodotti da ferite o da funghi; ad
esempio quelli dell’olmo. Moirés, quando le fibre
orientate in diverse direzioni assumono un aspetto cangiante. Mouchetés, quando la superficie è densamente cosparsa di
piccoli nodi; ad esempio quella d’acero. Pommelés,
quando il mogano riflette piccole forme rotonde una vicina all’altra. Rigatini,
quando il tronco è segato in quarti ed il legno appare diviso regolarmente in
venature di due colori parallele molto accostate; ad esempio quelli di noce e
d’ulivo. Ed ancora secondo il disegno: ondulato, drappeggiato, marmorizzato,
satinato, ecc. Il legno può essere anche tinto ed intarsiato in diverse
maniere: alla certosina; in cui s’incastrano varie essenze incollate in appositi
incavi intagliati nel legno massiccio. Geometricamente; in cui si esegue il
taglio delle essenze, con coltelli e scalpelli o cesoie, con cui si ricopre
l’intera superficie di disegni geometrici con pezzi accostati ed incollati sul
legno di fondo. A toppo; in cui s’incollano placcature di diverse essenze tra
loro, e si tagliano trasversalmente ottenendo filetti con vari disegni. Poi si
incollano al fondo accostati fittamente od intervallati da altre
impiallacciature; come nel micromosaico o nei “rolini”. Ad incastro o tecnica “Boulle”; in cui due o più
fogli di vari materiali (legno, tartaruga, avorio, ecc.) sono incollati
sovrapposti e poi segati seguendo un disegno. Si ottiene un intarsio maschio ed
uno femmina per ogni materiale, che vengono incastrati uno nell’altro. Si
ottengono due tipi d’intarsi, di cui quello con il disegno nel materiale più
economico ed il fondo in quello più prezioso è detto “premiére-partie”
e l’altro, costruito all’inverso, “contre-partie”. A commesso; in cui si
accostano semplicemente una all’altra le varie essenze.
Mentre i falegnami usano solo legni locali in
massello più a buon mercato, spesso provenienti da proprietà dello stesso più
modesto committente, per produzioni correnti. Ciò principalmente dalla seconda
metà del 600 in poi.
Marmi e pietre sono della più ampia varietà. Nel
“Luigi xvi” prevale il marmo bianco in massello;
nell’impero il verde-Alpi, il giallo-Siena ed il
griotte lastronati. I marmi antichi sono normalmente lastronati, vale a dire tagliati in lastre d’alcuni
millimetri di spessore incollati su di una base comunemente di pietra d’Istria;
questo è ancora più valido per le pietre semipreziose come la malachite, il
lapislazzuli, il diaspro, ecc. Mentre dalla seconda metà dell’800' si userà più
comune il massello.
-La tartaruga
è ottenuta dalle placche che formano la corazza della tartaruga di mare. Le più
impiegate sono fornite dalle specie chiamate: Caretta (Eretmochelys
Imbricata), con placche giallastre, marmorizzate o macchiate in bruno scuro; Chilone mydas, come la precedente
ma presenta riflessi verdastri; e la Caretta comune, meno impiegata perché
benché presenti placche più ampie, esse sono più sottili e fragili.
La parte superiore, detta scudo, si compone di
tredici placche unite e saldate fra loro accostate o sovrapposte come le tegole
di un tetto. Quell’inferiore, detta piastrone, di diciotto (la Caretta) e venti
(la Chilone Mydas) saldate
accostate. Lo spessore è tra i due ed i cinque millimetri per quelle dorsali,
ed in proporzione di un terzo per quelle addominali; quest’ultime sono le più
ricercate per la maggiore varietà di colorazione.
-La madreperla è ottenuta dal guscio d’alcune
conchiglie, tra cui le principali varietà utilizzate sono: la “trocas”, di forma conica proveniente dalle Filippine, dalle
isole Andaman e dall’Indonesia. La madreperla di Ceylon. Quella “goldfisch”, del
Giappone a forma di orecchia. La madreperla nera della California, chiamata
anche di Traiti e proveniente dalla Polinesia francese, di forma piana. Il
casco rosso, proveniente dalle Filippine e dall’Indonesia. La madreperla bianca
“Borgeau”, che si pesca nelle isole del Madagascar,
del continente americano, di Singapore; quella della Malesia può diventare
grossa come un pallone. Quella del Missisipi, della
forma di una cozza grossa come una mano.
La madreperla può essere colorata nello spessore e
segata in placche da mezzo ad un millimetro circa di spessore e di superficie
variabile.
-Il corno, proviene dai bovini e dai cervidi, è di
colore bianco o bianco-giallastro o nero come quello dei bufali. Il più
impiegato è quello di bue, anche se è migliore quello di vacca. Il corno come
la tartaruga si rammollisce e si può saldare a caldo.
-L’avorio, ottenuto dalle zanne dell’elefante, è di
differenti qualità, a seconda che provenga da: Guinea, biondo un po’
trasparente, duro e pesante, a grana fine; è considerato il migliore. Niger,
Kenia, Zanzibar e Manganica, dolce e color panna. Angola, Camerum
e Gabon; duro e rosato. Sudan; grigio, dolce e semidolce; quello della Costa
d’Avorio è simile, ma di qualità inferiore. Mozambico; grigio e dolce.
Si usa anche quello dei denti d’ippopotamo, che e di
qualità superiore.
L’avorio può essere lavorato come il legno e si può
anche sbiancarlo e stirarlo a caldo. Fin dall’ottocento si usano materiali
imitanti l’avorio a base di resine e polveri, alcuni di difficile
identificazione.
-Il cristallo molato, dopo essere stato soffiato o
colato in stampi, era inciso e tagliato alla mola. Si distinguono due tecniche:
quello, che era lucidato solo alla mola con abrasivo via, via più fini; e
quello lucidato ad acido mediante immersione in acido fluoridrico.
Quest’ultimo, meno pregiato, è riconoscibile dagli spigoli, che si presentano
smussati invece che ad angolo vivo.
-La porcellana è inizialmente impiegata utilizzando
oggetti importati dalla Cina, opportunamente montati in bronzo. In Europa, non
conoscendone l’esatta composizione, si usavano per imitarla varie formule. Per
buona parte del XVIII° secolo si plasmarono
porcellane così dette tenere, anche dopo la riscoperta dell’uso del caolino da
parte di Johann Fiedrich Bottger
in Sassonia nel 1708.
Durante il Luigi XVI° essa
molto utilizzata sia come bisquit (biscotto,
porcellana bianca non decorata, opaca, perché non ricoperta dello strato finale
di invetriatura), sia decorata in tutte le tonalità possibili, utilizzando la
muffola o terzo fuoco (tecnica di cottura a temperatura più bassa per non
fondere quanto in precedenza). Le dorature, soprattutto durante l’impero,
abbondano; stese a pennello, ma anche utilizzando fogli interi. Essendo esse
date per ultime, a completamento del lavoro, risultano molto più delicate delle
altre parti decorate e spesso sono usurate ove più frequentemente maneggiate.
L’oro stesso diviene spesso la sola decorazione, più diffusamente dopo la
“restaurazione”, trattato con varie tecniche, tra cui quella a rilievo così
tipica delle manifatture austriache dell’ottocento.
-Metalli preziosi: argento, oro in vari colori, ecc.
Perle e pietre preziose.
Al museo della tappezzeria di Bordeaux esiste
persino una pendola rivestita di stoffa.
Diamo ora qualche cenno sulla lavorazione dello
smalto, che rivestì particolare importanza in questo periodo.
-La smaltatura è tecnica antica. Ricordiamo quella
di Limone, che era ottenuta sovrapponendo ad uno smalto di fondo scuro uno
strato chiaro; poi grattato via con appositi strumenti fino ad ottenere in
trasparenza tonalità diverse, come nella tecnica del cammeo.
Ancora più antiche quelle a champlevé
ed a cloisonné. La prima si realizza incidendo delle cellette nel metallo e
riempiendole di smalti colorati. La seconda saldando nastri di metallo su di un
fondo, ottenendo cellette, sempre poi riempite di smalti. Ancora più complessa
e di esecuzione difficoltosa quella detta a “basse-taille”;
in cui il reticolo è a giorno e lo smalto riempie, come tante piccole vetrate
colorate, il lavoro.
Dopo il 1630, per opera di Jean Toutin,
nasce lo smalto dipinto propriamente detto. In esso le polveri colorate,
polverizzate molto finemente, sono legate con oli, come quello di papavero, che
permettono di dipingere come con l’acquarello. Si smalta il fondo con un colore
chiaro, si spiana e si lucida perfettamente con abrasivi; e su questo fondo
esso si dipinge per velature e cotture successive. Alle volte si applicava una
vernice finale detta “fondente”, che rendeva i colori più vivi e le superfici
più brillanti. Un altro sistema molto usato e di splendido effetto consisteva
nel preparare placchette lavorate di metallo prezioso, che erano fissate con un
adesivo allo smalto e definitivamente fissate con una leggera cottura.
Si ricoprivano anche con smalti trasparenti metalli
trattati a guilloché (disegno geometrico ottenuto
meccanicamente per fresatura).
Tutti gli smalti possono essere levigati e lucidati
a freddo ed applicati a vari metalli. Generalmente devono essere controsmaltati per evitarne la deformazione, con gravi
danni, durante il raffreddamento del supporto e della superficie smaltata, che
hanno espansioni differenti.
Ricordiamo il nome dei tre maggiori smaltatori
parigini del neoclassicismo: Couteau, Dubuisson e Merlet; gli ultimi
due hanno continuato ad operare anche durante la restaurazione, quando tali
tecniche erano ormai passate di moda.
Citiamo anche la grande scuola ginevrina.