SCHEDA DI
APPROFONDIMENTO.
Queste schede tecniche d’antiquariato
sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro, con la collaborazione
della moglie Mara Bortolotto, per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
La cartapesta,
chiamata anche papier mâché
(carta masticata, denominazione brevettata in Inghilterra nel 1816).
Con ogni probabilità
essa è inventata in Cina attorno al III secolo d.C. grazie all’uso già
affermato della carta, che dalla Cina, passando per il
mondo arabo, approda in Europa nel X sec. d.C. In Egitto conosciamo il più
antico utilizzo di proto-cartapesta per la costruzione di sarcofaghi.
In Italia la
cartapesta è in uso dal Rinascimento, in Francia ed in Inghilterra dal
Seicento, in America dall’Ottocento.
Si utilizzano per la
preparazione avanzi di carta e di cartone accuratamente spolverati al fine di
eliminare le impurità; privilegiando quelli privi di scrittura, perchè l’inchiostro
può nuocere alla preparazione. Questo particolare può farci escludere dal considerare antichi, manufatti nella cui pasta sia
presente l’inchiostro; chiara indicazione d’utilizzo di fogli antichi ma
scritti. Si mettono a macerare a lungo nell’acqua, cambiandola spesso per non
fare imputridire la materia. Quando la macerazione è completata si pesta la
poltiglia in un mortaio o con altri mezzi meccanici, poi si fa bollire il tutto
in caldaia aperta o chiusa. La bollitura può essere anche eseguita prima della
macerazione, in tal modo si facilita la pestatura. Terminate queste operazioni
si aggiunge il collante, che può avere varie composizioni: colla animale,
destrina, pasta d’amido (farina) od altre sostanze resinose; oggi si ricorre a
colle viniliche, la cui presenza è sempre segno d’oggetto moderno. Per
rinforzare l’impasto alle volte si aggiunge segatura, cellulosa, sabbia, creta,
polvere di calcare, paglia; ma in tal modo si ottiene un composto, che non è
più la pura cartapesta. Poi s’impasta
perfettamente sino a che non coli più e la massa sia
omogenea.
Questo impasto può
essere applicato ad armature predisposte o spalmato e compresso con le dita
all’interno di stampi preventivamente spalmati d’olio. Tali stampi possono
essere realizzati in gesso, in legno, in argilla, gelatina, zolfo, metallo
sbalzato, metallo fuso, vetro, guttaperca, ecc, in maniera del tutto simile di quell’usata per la fusione dei metalli (vedi la precedente
scheda tecnica su tale argomento). Quale distaccante si può anche applicare
allo stampo un leggero strato di carta privo di colla. È necessario asciugare
bene dall’interno con spugne asciutte la cartapesta applicata. La cartapesta
può anche essere diluita con acqua e colata dentro gli stampi; in tal caso si
dovrà porre particolare cura all’essiccazione. Sulla
superficie, una volta estratto il modellato se si è usata una forma, si
spalma una mano di collante. Si fa asciugare perfettamente al sole o in
ambienti riscaldati, oppure in essiccatoi. L’asciugatura deve essere lenta e graduale
senza mai superare i trenta gradi. A questo punto si può lavorare il manufatto
con le stesse modalità del legno e si possono marcare i particolari con ferri
roventi. L’opera finita è impregnata con prodotti impermeabilizzanti ed
ignifughi. In antico si ricorreva ad una mistura di calce ed acqua di vetriolo
stemperate in albume d’uovo o ad altra di fosfato di sodio misto a gomma lacca.
Si possono utilizzare anche tutte le altre vernici compresi
il catrame e la pece, ma in tal modo il prodotto risulterà ancora più
infiammabile. Normalmente si stende sulla superficie un’imprimitura di gesso
diluito in colla animale, che fa da fondo ai colori (ricordiamo quanto già
detto nelle schede tecniche sulla pittura: il gesso spento in antico è di cava
oggi si utilizza quello realizzato artificialmente). Analogamente si chiama
cartapesta anche quell’ottenuta stendendo pezzi di
carta e cartone macerati, ma non pestati; in tal caso otteniamo un manufatto
più vicino al cartone romano (si
distingue dalla cartapesta soprattutto perché i calchi sono messi in opera così
com’escono dalla forma, senza alcuna modifica o lavorazione successiva), che
alla cartapesta. Il cartapestaio inizia con uno
studio preliminare dell’opera eseguendo un modellino in argilla di dimensioni
molto ridotte, poi passa all’esecuzione vera e propria dei modelli in grandezza
reale delle mani, dei piedi, della testa, ecc, da cui otterrà gli stampi in cui
pressare la cartapesta. Una volta unite le varie parti ottenute incollandole
con colla forte (chiamata anche comunemente garavella)
si bruciacchiano con appositi ferri (di varia foggia e misura detti focheggiatori) le
sconnessure e si procede a focheggiare
tutta la superficie per ritoccarla, spianarla e bruciacchiarla, rendendola così
anche più resistente ai tarli. È incredibile che un materiale infiammabile come
la carta incontri il fuoco come mezzo di modellatura e che da due materie
antitetiche possa nascere un opera d’arte. Poi si passa alla costruzione del
corpo del manichino attorno ad un’asse ben fissata ad una base, avvolgendola
con stoppa o paglia (nelle zone di produzione del lino si usava la lenara ottenuta
dalla macerazione dei gambi) fissata con filo di canapa; e creando quello che è
definito bustino dove già
s’intravedono le forme della futura statua. Preparato il bustino, testa mani e
piedi sono assemblati formando così il "corpo" della statua. A questo
punto la statua viene "fasciata" con
striscioline di ponnula
cioè di carta imbevuta di colla di farina, che rendono la struttura base più
resistente e rigida permettendo al maestro di metterla in posa. Su questo
tronco si modellano i drappeggi, applicando grandi fogli di carta incollati a
strati. È proprio dalla capacità di modellare con leggere pressioni, di dare
naturalezza e leggerezza al lavoro che si riconosce il maestro. Asciugato il
lavoro con i focheggiatori si raddrizzano e si
rifiniscono i drappeggi, che possono deformarsi durante l’essiccatura. Poi si pennella tutta la superficie con uno
strato di gesso sciolto in colla (gessatura).
In fine si opera il ricaccio
con ferri e lime, definendo i particolari più minuti. Si stende un primo
abbozzo dei colori a tempera, poi si passa alla coloritura ad olio ed a volte
alla doratura di parti.
Tradizionalmente si
considerava la cartapesta leccese, per l’importanza storica da essa ricoperta, quale antesignana di tale arte in Italia,
però essa può essere collocata dai documenti solo all’inizio del Settecento.
Iniziando da quel Pietro Surgente (1742-1827) di cui
conosciamo la più antica opera giunta ad oggi con data certa
1782.
Sicuramente possiamo
datare al XV secolo formelle votive e manichini di area umbra e toscana.
Nella chiesa dei Servi
a Bologna è presente un crocefisso di cartapesta, ivi posto il 10 agosto 1643,
opera di un certo Zamaretta; eseguito, con una forma
attribuita al Gianbologna, con le carte da gioco
raccolte da un frate predicatore nel 1551 durante una campagna moralizzatrice.
Sempre a Bologna era attivo Angelo Gabriello Piò
(1690-1769), che eseguì due statue di cartapesta sempre per i Servi dal 1733 al
1739; e ci rimangono le incisioni di 25 gruppi di statue di cartapesta, per
sepolcri, da lui modellate. Altri esecutori di statue devozionali di cartapesta
per sepolcri della scuola bolognese furono: Giuseppe Maria Mazza (1653-1741),
Antonio Schiassi (1712-1778), Filippo Scandellari (1717-1801), Giovanni Lipparini
(1750-1788). Probabilmente l’arte della cartapesta fu portata in Francia
all’inizio del Settecento, proprio da artisti bolognesi.
Con la cartapesta si
eseguono oltre alle statue un’innumerevole tipologia di manufatti.
Famosi i vassoi, gli
specchi e le scatole veneziane laccate o decorate ad arte povera.
In Inghilterra in
antico si utilizzava soprattutto carta marrone o grigia impregnata durante la
pestatura con gomma arabica. Nel 1772 l’inglese Henry.
Clay produsse pannelli con un anima metallica
impermeabili e resistenti al calore. Sempre in Inghilterra nel 1846 si
fabbricarono pannelli da usare come pareti e nel 1847 fu possibile piegarli con
l’impiego del vapore. Il Papier mâché utilizza carta
spugnosa o per la produzione più corrente polpa di carta pressata negli stampi
e si differenzia dalla cartapesta in quanto si ottiene l’indurimento con la
cottura. Esso si prestava a molti diversi utilizzi sostituendo il più costoso
legno ed anticipando con la sua duttilità i prodotti industriali successivi
come il compensato stampato ed i materiali sintetici, come quelli plastici. Si
ricorreva ad ogni tipo di decorazione sia manuale sia con deposizione
elettrochimica. Per esempio s’imitava l’intarsio in madreperla, applicando un
sottile strato di madreperla, coprendone le parti che si volevano salvare con
vernici ed eliminando con acido le restanti non protette dalla vernice.
Oltre che alle già
citate opere salentine, numerose macchine per le processioni sono state eseguite in cartapesta; ad
esempio a Nola si sviluppa intorno ai primi dell’Ottocento, intorno alle
febbrili attività per la realizzazione degli apparati decorativi della
"macchina" del Giglio, altissime pale realizzate prevalentemente di
cartapesta, a tema sacro, portate in processione da un folla
delirante il giorno di S.Paolino, vescovo e
protettore di Nola.
L’arte cinese delle
figure di cartapesta, originariamente collegata alle usanze funerarie, è
un’arte popolare che integra le tecniche d’amalgama, incollatura, ritaglio
della carta, scultura su argilla e pittura policroma. Chiamata in diversi modi a livello popolare,
è nata per soddisfare la fede nei riti e le esigenze psicologiche delle masse. Esistono quattro tipi di figure di cartapesta: le figure di
divinità, come quelle grandi bruciate davanti alle tombe nel corso dei
funerali; figure umane, di bambini, personaggi dell’opera, servitori, ecc;
figure d’edifici come camere mortuarie, case e padiglioni, archi commemorativi,
oltre che a portantine e carrozze; oggetti funerari, come contenitori per cibo,
offerte, oggetti portafortuna ed animali di buon auspicio. I materiali
utilizzati sono assemblati con tecniche artigianali molto raffinate. Le figure di cartapesta servono in generale alle cerimonie in onore dei
defunti: si tratta di figure umane, di cavalli, oggetti vari ed addirittura
d’edifici che sono bruciati secondo una superstizione dalla lunga storia, che
ha tuttavia originato un’arte.
Le maschere rituali sono
eseguite in cartapesta in diverse parti del mondo. L'Artefice delle maschere,
in molti contesti etnici (specie in Africa), era considerato il depositario di
una sapienza, che potremmo definire "esoterica" e che comprendeva la
conoscenza dei fenomeni naturali, del patrimonio mitico, delle proprietà
medicinali e terapeutiche delle sostanze animali e dei cicli economici e legati
al calendario. Era proprio la qualità delle conoscenze esoteriche che
distingueva, sino ad un passato non molto lontano, il vero creatore
dall’Artigiano, esecutore che ripete le forme. In misura meno rilevante
influivano, invece, le conoscenze tecniche e gli strumenti di lavoro, che
agivano in modo indiretto, condizionando per lo più le modalità esecutive e non
la mentalità dell'esecutore. Tale assunto è chiaramente testimoniato dal fatto
che l’acquisizione di nuovi e più efficaci arnesi non ha comportato conseguenti
miglioramenti sostanziali ai progressi formali, ma come nel caso esemplare
dell'arte dell'Oceania, ha portato ad un progressivo e rapido deterioramento
delle modalità esecutive e degli schemi di lavoro tradizionali. Nelle società
primitive le maschere sono fabbricate con qualsiasi tipo di materiale
disponibile in natura, dai più teneri e fragili ai più duri e refrattari ad
essere lavorati. La scelta di materie prime per la creazione delle maschere
dipendeva in primo luogo dalle caratteristiche ecologiche locali, ed era in ogni caso limitata alle materie prime disponibili in
natura, sia organiche, sia inorganiche. Materiali estranei ( ma sempre di
natura primaria), in alcuni casi provenienti anche da regioni molto lontane,
erano adoperati (generalmente con funzione decorativa) solo se connotati da un
forte valore economico o magico-religioso. In secondo
luogo agivano alcune specificità proprie delle Comunità cui apparteneva
l'artefice delle maschere, e in particolare: il valore magico o religioso che
era assegnato ad un determinato elemento naturale; il valore della tradizione,
per questo ad una certa maschera erano associati in modo esclusivo uno o più
materiali fino all'assunzione da parte della maschera del nome proprio che ne
costituiva la struttura.