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Scheda di approfondimento.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore
Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Tecnica d’intarsio quarta parte.
L’intarsio può anche essere
eseguito in materiali lapidei, esso può essere a commesso (tratteremo tale
tecnica in seguito all’interno del più vasto argomento della lavorazione della
pietra) o a mosaico.
Quella del mosaico è la
tecnica più antica e ne troviamo esempi fin dal III°
millennio a.C. in Mesopotamia. Esso era eseguito in madreperla, corniola e
lapislazzuli, incollati con del bitume misto a sabbia ad un supporto ligneo; si
eseguirono a commesso anche figure d’uomini ed animali in calcare su fondo di
scisto nero. E' in Grecia a partire dal V° secolo
a.C. che furono creati i primi pavimenti con figurazioni chiare su fondo scuro.
Dal III° secolo a.C. l’opus tassellatum si diffonde in tutto il
mondo ellenistico e da qui a Roma, portato da artisti greci. Si diffuse al
punto da essere utilizzato correntemente dal I° secolo a.C. e da segnare, dal
40 a.C., la supremazia italiana nell’arte musiva.
I romani distinguevano
diverse tipologie: l’opus sectile, corrispondente al commesso ed altre tre
ottenute con l’impiego di tessere di forma regolare.
L’opus tassellatum, usato generalmente per
i pavimenti impiegava tessere prevalentemente di pietra, fissate con cemento ad
uno strato d’intonaco su cui era inciso il disegno. Poi si levigava la
superficie ed infine si cospargeva con polvere di marmo, sabbia e calce, che
riempiendo gli interstizi pareggiava e consolidava il tutto.
L’opus vermiculatum, impiegava tessere
molto più piccole, tagliate in varie forme secondo le necessità dell’effetto
pittorico e non solo quadrate: di pietra, di vetro o di pietre semipreziose.
Con esso si eseguivano l’emblemata, riserva con scene fissate su lastre di pietra
da introdurre nei mosaici, prodotti da artigiani diversi da quelli, che
eseguivano direttamente i pavimenti; spesso importati da centri specializzati.
Il problema del trasporto imponeva misure ridotte non troppo superiori al metro
quadro.
L’opus musivum, impiegava tessere di pasta
di vetro e pietra ed era usato per le pareti. L’utilizzo di paste vitree
consentiva di realizzare ampie gamme di colori portando il mosaico ad essere
molto simile alla pittura.
Dal V°,
VII° secolo in epoca paleocristiana il mosaico
parietale diviene un’espressione d’arte indipendente sostituendo la pittura.
Ricordiamo le massime espressioni bizantine a Ravenna. Dal Quattrocento la
pittura torna a primeggiare sul mosaico. Il pittore esegue i cartoni, mentre il
mosaicista deve solo compiere l’opera con la maggiore perizia possibile.
Durante il Cinquecento è l’esecuzione dei mosaici per la basilica di San Marco,
che mantiene alta a Venezia la tradizione musiva, con l’utilizzo di cartoni di
Mantenga, Tiziano, Tintoretto, Palma il Giovane e del Veronese.
Raffaello chiamò a Roma Luigi
del Pace per tradurre in mosaico i suoi cartoni; ed altri mosaicisti veneti
lavorarono alla realizzazione di quelli di san Pietro contribuendo al rilancio
di tale arte a Roma dove sin dal Trecento essa era stata abbandonata. In
particolare il veneto G. Muziano, che mise a punto un
nuovo cemento più tenace e leggero composto d’olio di lino cotto e crudo,
polvere di travertino e calce, diede un apporto decisivo a tale rilancio
dall’ultimo quarto del Cinquecento. Decaduta ormai Venezia, sarà Roma a portare
avanti l’arte del mosaico; mentre a Firenze, Napoli e Messina fioriva quella
del commesso.
Un’importante innovazione fu
introdotta da Alessio Mattioli, che riuscì a produrre smalti opachi, inalterabili
al fuoco e facili da tagliare, ottenuti miscelando alla pasta polvere di stucco
amalgamata con olio di lino. Con questo procedimento si poterono ottenere oltre
15.000 tonalità, in modo da riprodurre con fedeltà i dipinti. Nel 1731 egli
cedette il suo segreto al laboratorio vaticano, che da quel momento poté fare a
meno di acquistare le tessere di vetro da Murano.
Il predominio delle botteghe
romane fu tale, che dal 1715 al 1745 fu affidato al romano Dal Pozzo l’incarico
di proseguire la decorazione musiva della basilica di San Marco. L’afflusso di
turisti nel Settecento fu tale da favorire la nascita di varie botteghe
private, dedite alla riproduzione dei più svariati soggetti.
In tutta Europa rinasceva
l’interesse del mosaico. In Russia verso il 1760 Mikhail
Lomonosov apriva a San Pietroburgo una bottega, che
continuava ad operare anche nell’Ottocento. All’inizio dell’Ottocento si giunse
ad aprire uno studio di mosaico per i russi a Roma, e artigiani romani andarono
a lavorare in Russia. Nel 1798 Belloni organizzò a
Parigi una scuola attiva fino al 1832.
All’inizio dell’Ottocento si
era giunti a produrre ben 28.000 tonalità di smalti. Dalla metà dell’Ottocento
la produzione si meccanicizza e diviene di tipo
industriale.
Bisogna ora accennare ad una
tecnica squisitamente italiana quella, del micromosaico.
Intorno al 1770 il mosaicista
G. Raffaelli scoprì un’insospettata caratteristica degli smalti del Mattioli. Essi potevano essere riscaldati e, grazie alla
loro proprietà di non alterarsi con il calore, una volta fusi in una massa
malleabile essere filati in sottili bacchette, da cui ottenere tessere ridottissime.
Nel 1775 egli per primo presentò piccole opere ornate da micromosaico.
Dal 1787 P. Savini usò il micromosaico
per ornare i piani di tavoli. L’Aguatti alla fine del
Settecento ideò gli smalti malmischiati in
grado di realizzare più tonalità nella stessa tessera consentendo di ottenere micromosaici con straordinari effetti d’ombreggiatura. Si
giunse a realizzare micromosaico con oltre 1400
tessere in meno di tre centimetri quadrati.
Le tessere di pietra erano
tagliate in due modi. Con la martellina,
martello a forma di arco terminante alle due estremità a cuneo con facce a
spigolo vivo, si picchiava la lastrina da tagliare, posta sul tagliolo, piccolo incudine verticale a
forma di cuneo con la faccia superiore a spigolo quasi tagliente. Con la moletta, piccola lama con manico senza
denti, che tagliava per abrasione grazie all’apporto costante di acqua e
smeriglio in polvere. Quelle di pasta di vetro come quelle in pietra, oppure a
caldo con delle cesoie. Tutte erano poi rifinite con scalpelli e mole.
I soggetti più replicati
furono le famose colombe di Plinio, tutti i tipi di vedute delle rovine
archeologiche e le repliche delle maggiori opere d’arte del Rinascimento.
Ai fini della valutazione del
valore bisogna tener conto di diversi fattori: la minutezza delle tessere, la
compattezza della superficie, la varietà ed armonia delle tonalità, la qualità
del disegno e lo stato di conservazione.