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Scheda di approfondimento.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore
Europeo”.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Tecniche d’intarsio seconda parte.
In Germania venne messa a
punto la tecnica della “tarsia ad
incastro”. Essenzialmente essa consisteva nel sovrapporre due o tre fogli di
placcatura d’essenze differenti e nel tagliarle insieme con una lama affilata,
seguendo le linee di un disegno. S’incastravano poi uno nell’altro gli intarsi
ottenuti, positivo con negativo e si alternavano quelli chiari con gli scuri; ottenendo in questo modo un effetto di
contrasto cromatico.
In Francia si abbandonarono
verso la metà del XVII° secolo le placcature uniformi
in ebano, in favore del loro intarsio con rame e stagno. Nel 1667 Colbert istituì la manifattura reale dei Gobelins. Dalla seconda metà del XVII°
secolo s’iniziò ad usare le essenze esotiche provenienti dalle indie. Nel 1672
è nominato direttore dei Gobelins André-Charles
Boulle (1642-1732), cui è legato il nome della celebre tecnica d’intarsio a
traforo.
Boulle eseguì fino al 1720
soprattutto intarsi in tartaruga e metalli: rame, ottone e stagno; da questa
data eseguì quello, che fu chiamato pittura su legno, cioè l’intarsio
tradizionale con il ricorso ad una vasta gamma d’essenze naturali, tinte,
ombreggiate ed incise.
L’intarsio Boulle.
Descriviamo brevemente gli
strumenti necessari. Il cavalletto da intarsiatore era costituito da uno
sgabello, chiamato l’asino, perché l’artigiano vi si sedeva a cavalcioni, unito
sul davanti ad una morsa verticale in cui una ganascia era fissa e l’altra vi
veniva serrata contro azionata da un pedale; in modo da presentare gli impiallacci
verticali e di fronte. Dal Settecento si utilizzeranno anche banchi orizzontali
per poter eseguire intarsi di grandi dimensioni, sempre provvisti di ganascia a
pedale. La sega da traforo, costituita da un archetto con due morsetti alle
estremità per fissare la lama, era azionata a mano libera. Le lame si
ottenevano da pezzi di molle d’orologi. Dall’Ottocento la sega era collegata ad
un braccio mobile, che la manteneva perpendicolare alla morsa; si poterono così
segare pacchetti di grandi dimensioni con più intarsi, ma solo
perpendicolarmente. Il taglio si eseguiva da destra verso sinistra, in senso
antiorario, azionando la sega con la destra e spostando il pacchetto con la
sinistra, mentre le dita pressavano il bordo il più possibile vicino al taglio.
All’esterno si pongono due impiallacci di legno come controplaccaggi
dello spessore di circa due millimetri ed su di uno di essi s’incolla il
disegno dell’intarsio da eseguire. Per tenere uniti i fogli si possono porre
punti di colla tra foglio e foglio e all’esterno del disegno chiodi di
fissaggio.
Con la sega da traforo si
sega perpendicolarmente al pacchetto, passando sul tratto del disegno, in modo
che tutti i fogli siano tagliati insieme e con le identiche misure.
Caratteristica di questa
tecnica è l’assenza d’angoli vivi, in quanto lo spessore delle lame di sega
antiche non le permette di girare su se stessa senza provocare evidenti vuoti,
che con la loro presenza indicano l’antichità dell’esecuzione. In questo modo
si ottengono per ogni foglio un negativo ed un positivo. Incastrando il
positivo di un foglio nel negativo dell’altro e viceversa si realizzano due
intarsi; di cui quello contenente la maggior superficie di tartaruga è chiamato
“en partye” ed
è il più pregiato, e l’altro “contre-partye” (fig.
1). Il mobile con intarsio in contre-partye presenta
una superficie di metallo maggiore, che tende a distaccarsi più facilmente,
anche per questo motivo era considerato meno pregiato e costava un venti per
cento in meno. Per evitare differenze tra i pannelli dello stesso mobile o tra
mobili in coppia, si mischiavano abilmente i motivi in modo da equilibrare la
presenza dei due tipi d’intarsi (fig. 2).
Per quanto si utilizzino lame
di sega fini, esse lasciano una traccia di separazione evidente tra le due parti
dell’intarsio, che è poi riempita da stucco.
Siccome si tagliavano solo i
contorni delle figure, poi si procedeva all’incisione sia del metallo, che
della tartaruga al bulino in modo da precisare i dettagli e creare le
ombreggiature.
Il grande ebanista riusciva ad eseguire
intarsi in cui i disegni erano leggibili sia su un materiale in positivo, che
sull’altro in negativo (fig. 3), in modo da rendere egualmente preziosi i due
tipi d’intarsio.
Per evitare la traccia
lasciata dal taglio della sega dal Settecento si procede al taglio così detto
conico. La lama della sega invece di tagliare perpendicolarmente è inclinata
verso l’esterno del disegno in modo che il taglio dell’elemento inferiore
risulti più ampio. In tal modo i bordi inclinati del positivo s’incastreranno
nel negativo perfettamente. Per evitare di dover troppo inclinare la sega
s’interponeva tra i due fogli un’ impiallaccio di due mm, che poi si buttava.
In tal modo operava David Roentgen. L’intarsio in stagno era colato
direttamente negli incavi cui era destinato dopo che la placcatura era stata
incollata.
Per creare un effetto
chiaroscurale e dare profondità quasi tridimensionale si ricorse
all’ombreggiatura. Essa consiste nello scurire parte dei pezzi dell’intarsio
creando un annerimento artificiale possibilmente sfumato, in modo da evitare
contrasti troppo netti.
Tre sono le tecniche
utilizzate: con acidi, con sabbia rovente ed a bulino.
Nel Settecento fu molto usato
il sistema con acidi. L’acido solforico, che scurisce le essenze gradualmente a
seconda del numero delle applicazioni. L’acido nitrico, che ha un maggiore
effetto, ma risulta dannoso alle tinte e può scollare l’intarsio. L’acqua di
calce, che ha l’azione più delicata. Questi acidi sono applicati sulle tarsie
già incollate e ciò richiede grande
abilità, se si vuole evitare di coinvolgere nell’azione le zone adiacenti,
soprattutto a causa dell’assorbimento da parte dei legni più porosi. Inoltre
l’umidità può provocare la deformazione od il distacco delle tarsie stesse. Per
tale motivo questo metodo fu via via abbandonato in
favore di quello a sabbia rovente.
Il calore annerisce i legni
bruciandoli, regolando la temperatura cui si sottopongono si può dosare
l’intensità dell’annerimento. Fino al XX° secolo si
utilizzava un braciere di circa quaranta cm. di diametro su cui si poneva un
catino di metallo a fondo piatto riempito di uno strato di sabbia molto fine
alto due o tre centimetri. La sabbia veniva portata ad una temperatura di circa
trecento gradi, perché a meno di duecentoquaranta non si ha alcun effetto,
mentre sopra i trecentocinquanta il legno può bruciare. Immergendo il pezzo
d’intarsio nella sabbia esso si annerirà progressivamente, di più avvicinandosi al fondo, dove la temperatura è
più elevata. Per ottenere maggiore sfumatura era sufficiente immergere il pezzo
inclinato. Naturalmente anche il tempo d’immersione determinava l’intensità
dello scurimento. Per limitare l’annerimento ad una zona precisa si
sovrapponeva alla tarsia un pezzo di placcatura sagomato secondo il profilo
d’ombra che si voleva ottenere, in modo da proteggere il restante dal calore.
Il terzo metodo è quello già
accennato dell’incisione con il bulino; per accentuare l’effetto chiaroscurale
si possono riempire i solchi con cera o stucco colorati. Per ottenere una buona
lucidatura a gomma lacca è necessario che i solchi siano riempiti in modo che
la superficie sia pareggiata.
Se l’intarsio era applicato
su di una superficie sagomata, esso veniva eseguito sulla “gobba”. Ovvero si
sagomava e si ritagliava la placcatura direttamente o sul fusto del mobile o su
una calla di gesso ottenuta a stampo
sullo stesso, pressandola con sacchi ripieni di segatura o di sabbia calda. Una
volta costruito il pacchetto come descritto in precedenza esso era traforato
già sagomato. In questo caso la differenza della direzione della curvatura non
permetteva di realizzare contemporaneamente le parti di un intarsio simmetrico;
si era in grado di realizzare solo più intarsi con la stessa curvatura per i
due fianchi o per più mobili simili contemporaneamente. Si poteva costruire
l’intarsio direttamente sul fusto incollando, sempre pressando con i sacchi, il
negativo e poi incastrando ed incollando il positivo. Questo metodo risultava
difficoltoso e non troppo preciso. Il metodo più raffinato consisteva
nell’incastrare l’intarsio incollandolo su di un foglio di carta in precedenza
posto sul fusto o sulla calla di gesso, poi si incollava al solito un altro
foglio o della tela all’esterno, indi pulita la superficie interna si incollava
l’intarsio completo definitivamente sul fusto; in tal modo esso poteva essere
incollato, utilizzando i sacchi o gli stampi sagomati di gesso, in una sola
volta ottenendo un lavoro più curato.
Per i pannelli con intarsi
semplici o concentrati al centro della gobba e soprattutto per le placcature
d’essenze uniformi, si poteva anche procedere all’applicazione d’intarsi piani.
In questo caso si eseguivano tagli lungo il filo della venatura o dove il
disegno lo permetteva tenendo conto della sagomatura del mobile, poi
s’incollava l’intarsio pressandolo come descritto in precedenza. Una volta
asciugata la colla si asportavano gli eccessi di placcatura ove nelle parti
concave i tagli in precedenza praticati avevano permesso che essa in eccesso si
sovrapponesse; o si riempiva con placcatura nelle parti convesse dove viceversa
essa mancava.
Come possiamo vedere tutte
queste metodologie erano complesse e difficoltose e richiedevano per una buona
riuscita una notevole abilità da parte di tutta la manodopera che vi prendeva
parte, che solo l’ebanista era in grado di coordinare. L’introduzione delle
seghe alternative, dapprima mosse a pedale, poi da motori semplificherà non
poco il lavoro, che rimarrà in ogni modo appannaggio degli ebanisti; bisognerà
aspettare i moderni pantografi per arrivare ad una produzione industriale.