SCHEDA D’APPROFONDIMENTO.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario
Pierdario Santoro, con la collaborazione della moglie Mara Bortolotto, per la
rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato
da foto e didascalie, qui non riportate.
Questa scheda è stata curata
dall’antiquaria Cristina Mazzoni, titolare della
galleria “Antico Allegro” via C. Battisti 1/b, Bologna. Le foto sono di
collezione privata.
CENNI SULL’OREFICERIA POPOLARE NELL’ITALIA
MERIDIONALE DEL XIX SECOLO. Parte prima.
La
parola “gioia” ha un’etimologia latina derivante da “gaudere”,
che significa avere uno stato d’animo felice, esprimere felicità, allegria, godimento
ed è proprio questa la piacevole sensazione che sanno comunicare i gioielli a
coloro che li ammirano, li amano, li apprezzano e li indossano. Non sono stati solamente
uno status-simbol, ma hanno espresso nel tempo il
loro significato di continuazione di una tradizione, il loro valore non
soltanto economico, ma più spesso affettivo e sono sempre stati testimoni
silenziosi delle vicende umane. Anche in Italia (seppure in ritardo rispetto
agli altri paesi europei, a cominciare dall’Inghilterra) nel XIX sec. la rivoluzione
industriale favorì il nascere e poi il fiorire di una nuova classe sociale “la
borghesia” che, potendo disporre di risorse più cospicue, divenne una discreta
“consumatrice“ di ornamenti (un tempo appannaggio solo della nobiltà e del
clero) e quindi la produzione di questi ultimi ebbe un forte incremento. Naturalmente
anche le donne appartenenti alle classi sociali subalterne nutrivano lo stesso
desiderio di abbellirsi e agghindarsi, come quelle delle classi superiori e si
sviluppò così un’oreficeria definita ”popolare”, spesso meno considerata, piena
di creatività e fantasia. Poiché le risorse erano ovviamente più esigue, per
limitare i costi, l’oro di alta caratura veniva sostituito da quello rosso a
basso titolo contenente più rame, le pietre preziose con paste vitree, le perle
di mare con perle di fiume “scaramazze”, ma le lavorazioni erano comunque
accurate e si rifacevano sempre ad archetipi della tradizione. Grazie alle
nuove tecniche di lavorazione si realizzavano gioielli in sottile lamina, che
veniva tagliata e lavorata a stampo; la quantità di oro impiegata era limitata,
ma anelli, orecchini, collane risultavano molto appariscenti dando comunque
un’impressione di opulenza. Il risparmio, come sempre per il passato,
riguardava soprattutto i materiali costosi, meno la manodopera, comunque
relativamente a buon mercato. La cospicua produzione meridionale di tali
gioielli ha generalizzato l’appellativo di “borbonici”, anche se in realtà essi
furono fabbricati pure in altre parti d’Italia. La tecnica dello stampo, oltre
a semplificare e rendere più economica la produzione, favorì la tendenza e
replicare le tipologie di cui l’artigiano possedeva gli stampi; ovviando alla
ripetitività dei motivi con la fantasia della composizione. La simbologia
espressa dai gioielli popolari è estremamente intrigante e non da tutti
conosciuta. Troviamo un po’ ovunque simboli legati al corpo umano: falli, corni,
mani, occhi, simboli legati agli animali, agli astri (stelle, lune), al mondo
delle piante. Da ricerche svolte su documenti d’archivio, dagli atti
testamentari, dai registri dei Monti di Pietà e da testimonianze orali di
anziani, sappiamo come determinati ornamenti venissero indossati secondo le
occasioni: fidanzamento, matrimonio, vedovanza etc. Sappiamo anche che queste
“regole” venivano rispettate più dalle classi popolari che dalle classi
borghesi. Purtroppo le calamità naturali hanno cancellato molte testimonianze
utili a ricostruirne il percorso storico e come se non bastasse i mutamenti del
gusto, la necessità di riutilizzare il vecchio per “rinnovare”, hanno destinato
la maggior parte degli oggetti alla fusione. Inoltre la gran parte dei reperti
giunti fino a noi è priva di marchi di identificazione e nei rari casi in cui
sono presenti risultano indecifrabili; quindi è spesso difficile risalire con
certezza ai luoghi di produzione. Sappiamo che in molte zone dell’Abruzzo dal
fidanzamento al matrimonio venivano osservate una serie di modalità cerimoniali,
che cominciavano con la prima visita del pretendente a casa della prescelta. In
quest’occasione alla ragazza venivano donati un paio di orecchini o un
ciondolo. Il giorno del fidanzamento avrebbe ricevuto un anello, normalmente
del tipo detto “a scudo”, che riportava inciso sul castone il monogramma della
coppia o del nome di uno dei due, oppure una corniola incisa, o un anello a
spola (così chiamato dalla foggia, simbolo dell’operosità femminile). Al
fidanzato veniva regalato un orologio da taschino, con simboli amorosi o
amuleti da appendere alla catena. Altri doni tipici dei fidanzati erano anche
ciondoli decorati con lettere smaltate, del tipo: R come ricordo, A come amore,
S come speranza, salute, souvenir. Questi ricordini vengono definiti anche “oro
dell’emigrante”, che alla partenza li scambiava come legame d’amore con la sua
donna. Spesso erano a doppia faccia, apribili e all’interno si conservava un
ciuffo di capelli dell’amato, quando lui partiva militare o per la transumanza.
La “presentosa” invece era un ciondolo a forma di
stella a diverse punte con all’interno uno o due cuori uniti al centro e
contornati di spirali in filigrana o in cordellina semplice d’oro. Luoghi di
produzione della presentosa non furono presenti
soltanto in Abruzzo, ma anche in altre zone dell’Italia meridionale, in area
campana e in area pugliese. Probabilmente questa diffusione “stilistica” venne
favorita dalla transumanza dei pastori così come avvenne per altri tipi di
ornamento che, per il loro poco ingombro e per la loro leggerezza, erano
facilmente trasportabili. La collana era senz’altro il gioiello più atteso
dalla futura sposa. Le veniva infatti donato dalla suocera alcuni giorni prima del
matrimonio ed oltre al significato di legame che si instaurava con la famiglia
dello sposo, aveva anche un valore di investitura nell’ambito della società
agropastorale. Stava a significare un nuovo ruolo: quello di futura madre e
quindi di continuazione della famiglia stessa. La collana era costituita da una
o più catene a vaghi aurei vuoti ottenuti a stampo e poi saldati nel mezzo,
oppure da catene in lamina ritagliata e traforata sorrette da medaglioni con
elementi decorativi vari, ma che avevano sempre un significato preciso. Questa
tipologia di collane fu prodotta in tutto il Regno di Napoli, naturalmente
rielaborandone i particolari, che dipendevano anche dalle tradizioni varianti di
paese in paese, ma nel complesso mantenendo una certa continuità stilistica col
passato e nella tipologia dei materiali. In area calabrese era diffusa la ”jannacca”, collana composta di grani aurei di forma e
lavorazione diverse, vuoti all’interno, a volte rifiniti con l’inserzione lungo
la circonferenza minore di piccole perline scaramazze. Così, sempre con l’uso
di perline scaramazze, venivano create collane “serracollo”
formate da circa venti fili di perline, con un pendente centrale a forma di
stella decorato in filigrana. Altra tipologia di collana era quella in trina
aurea piatta a saliscendi regola-lunghezza, con pendenti a nappa. Sul
saliscendi erano raffigurati: chiavi (simbolo di parto felice per la donna e di
cura contro il mal di testa e l’epilessia), lucchetto (con un evidente
significato sessuale), fiocco (che stava a significare il legame amoroso), foglia
d’edera (rappresentante l’allegoria della giovinezza e l’amore costante), ferro
di cavallo, etc.