Bologna, via
Nazario Sauro 14/b
Tel. 051260619
3356635498 3358495248
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Scheda di approfondimento.
L’avorio parte seconda, materiali e tecniche di lavorazione.
Al posto del raro e costoso
avorio si è sovente usato l’osso lucidato, che opportunamente sbiancato può
sostituirlo; in particolare si utilizzava l’osso di bue, normalmente la
clavicola, sbiancandolo con un’accurata bollitura. Usato come alternativa a basso
costo per secoli, l’osso è piuttosto facile da riconoscere. L’osso è cavo, il
centro è composto da una sostanza molle inutilizzabile la spongiosa, così come
le sue estremità; ciò riduce le superfici utili per la lavorazione. Anche le
ossa di elefante, le più grandi disponibili (sono spesse da 0,5 cm. a 0,75
cm.), non sono comunque adatte per oggetti solidi o di grandi dimensioni.
L’osso è di solito più opaco e bianco e se artificialmente ingiallito la
coloritura non appare regolare rispetto all’avorio e col tempo non presenta le
caratteristiche crepe perché non si frattura. Gli oggetti in osso non hanno un
alto grado di raffinatezza e dettaglio a causa della composizione a grana
grossa del materiale. Lo si riconosce principalmente per la presenza di micro
fori sulla superficie; poiché l’osso è composto da tessuti, i vasi sanguigni
che scorrono al suo interno lasciano una traccia. Secondo come l’osso è
tagliato questi canali, spesso visibili a occhio nudo, possono apparire come
punti, macchie, linee. Nel corso del tempo, anche se artificialmente ripulite,
queste tracce si anneriscono. Una lente a 10 ingrandimenti è sufficiente per
scorgerne la presenza. Nel sottosuolo della Russia e dell'Alaska si trova
l’avorio fossile appartenuto ai grandi mammut, vissuti in quelle zone
quarantamila anni or sono e ora fossilizzati. Di questo tipo d'avorio si fa
oggi un uso abbastanza copioso, ma esso, dopo tanti millenni di
fossilizzazione, ha sviluppato una sostanza, la vivianite, assente nell'avorio
nuovo, che sottoposta ai raggi U.V. diventa rossa, alterando il colore
dell'avorio antico di mammut. L’avorio fossile raramente si trova di colore
chiaro, perché col tempo è diventato verde, nero, blu o rossastro. Un altro
tipo di avorio è quello vegetale ricavato dalla tagua o corozo. Il frutto ha
una struttura globosa, irta di spine, che può pesare da 5 a 20 kg. Quando è
fresco, è tenero ed è usato dai nativi come una noce di cocco, di cui ha il
sapore. Il frutto ancora fresco, chiamato "mococha", è pieno di un
liquido cha ha il sapore molto simile al latte di soia. Quando il frutto
invecchia, il liquido caglia, si solidifica e diventa durissimo, formando il
nocciolo, bianco e compatto, molto simile all'avorio animale, nonostante le
proprietà differenti. In ogni grappolo di frutti ci sono diversi noccioli di
dimensioni varianti da quella di un’oliva a quella di un’arancia, che tutti
insieme arrivano a pesare circa 20 libre (circa 10 kg), più o meno la stessa
quantità di avorio che possiamo ricavare da una zanna di elefante femmina. Le
dimensioni di un oggetto fatto di tagua devono quindi essere sempre piuttosto
ridotte. Il prodotto ha avuto grande richiesta nei Paesi dell’emisfero Nord fin
dagli inizi del XX secolo, per la produzione tradizionale dei bottoni. Si stima che nel 1920 il 20%
dei bottoni degli Stati Uniti erano fatti di tagua
di Ecuador, Colombia e Panama. Oggi è utilizzato soprattutto per la produzione
di oggetti ornamentali.
Tecniche di lavorazione.
L’intaglio è il metodo più
utilizzato per ricavare sia figure a tutto tondo sia in bassorilievo. La
compattezza e la relativa morbidezza rendono agevole l’uso degli attrezzi
normalmente utilizzati per l’intaglio del legno: seghe metalliche, sgorbie,
scalpelli, raschietti, lime, e perfino pialletti.
L’avorio
diventa flessibile se trattato con acido fosforico, in antico si lasciava
inumidire a lungo e a volte s’impregnava di olio di mandorla. Data la limitata
grandezza dei pezzi ottenibili da una zanna, è necessario unire più placchette
incollandole a un fondo se si vogliono ottenere superfici più ampie. Il
“Sacrificio di Isacco” conservato al museo di Santa Giulia a Brescia misura ben
cm. 263 di altezza. Se si utilizzano pezzi interi, è necessario sfruttare la
naturale curvatura delle zanne, quale elemento formale della composizione. Solo
gli scettri ricavati dai denti di narvalo sono perfettamente dritti. Le sezioni
cave delle zanne sono state sempre usate per ricavarne contenitori o boccali.
L’avorio,
in più del legno, può anche essere lavorato con strumenti abrasivi come le
mole, grazie alla grana fine e compatta. Può essere sia inciso, sia
pirografato.
Altra
metodologia ampiamente praticata fu quella dell’intarsio. Dapprima
si utilizzò la tecnica denominata “certosina”, termine derivato dal suo impiego
nel Medioevo da parte dei frati certosini. Si tratta di un procedimento misto,
consistente nell’intagliare nel supporto di massello cavità e nicchie in cui
alloggiare parti di placcature, tagliate allo scopo, fissate con mastice. Si
utilizzarono per ottenere effetti decorativi esclusivamente placcature di
essenze diverse per venatura e colore e materiali preziosi come l’avorio e la
madreperla, ma anche più comuni come l’osso, il corno, alcuni metalli, ecc. Lo
spessore di dette placcature può arrivare ai cinque millimetri. In tempi recenti
tale metodo è stato usato o nel restauro per sostituire parti d’intarsio
mancanti o per incrostare con materiali nobili (avorio, madreperla, ecc.) i
pannelli laccati (tipico esempio i pannelli dei mobili orientali). Le sedi sono
ricavate a scalpello e sgorbia, e i pezzi d’intarsio sono normalmente tagliati
con lo scalpello; solo i pezzi più minuti sono troncati con cesoie e coltelli.
Dopo un periodo di relativo abbandono dal Trecento questa tecnica tornò a
diffondersi a Venezia ed in Lombardia; ricordiamo la famosa bottega degli
Embriachi.
Una certa propensione per il disegno orientaleggiante fa
pensare, che il primato spetti al Veneto. Anche in Toscana nacquero centri
d’eccellenza nell’intarsio; ed è sicuramente lì che si sviluppò la tecnica di
quello detto geometrico.
La tarsia geometrica. E’ così
chiamata per il disegno, che la caratterizza ed i pezzi di placcatura sono
preferibilmente tagliati a scalpello; ciò non permette di eseguire disegni con
curve troppo sinuose. Essa si differenzia da quella certosina perché realizzata
accostando uno all’altro i pezzi dell’intarsio, tagliati sempre a scalpello,
sullo stesso piano, senza ricorrere all’inserimento in nicchie in precedenza
intagliate.
L’intarsio a toppo, detto
pure a blocco, costituisce l’inizio di una lavorazione seriale, che conoscerà
grande sviluppo tra il Sette e l’Ottocento, evolvendo anche nel micro mosaico.
Esso consiste
nell’incollaggio di bacchette di vari materiali tra cui l’avorio disposte in
fasci. Si ottiene così all’estremità, in testa, il motivo desiderato. Costruito
tale blocco, è interamente affettato in lamelle di disegno uno uguale
all’altro. Accostando questi elementi prefabbricati si possono realizzare bande
e mosaici in maniera precisa e rapida.
In Germania fu messa a punto
la tecnica della “tarsia ad incastro”. Essenzialmente essa consisteva nel
sovrapporre due o tre fogli di placcatura di materiali differenti e nel
tagliarle insieme con una lama affilata, seguendo le linee di un disegno.
S’incastravano poi uno nell’altro gli intarsi ottenuti, positivo con negativo e
si alternavano quelli chiari con gli scuri; ottenendo in questo modo un effetto
di contrasto cromatico. Altro metodo importante è quello della tarsia a
traforo. Descriviamo brevemente gli strumenti necessari. Il cavalletto da
intarsiatore era costituito da uno sgabello, chiamato l’asino, perché
l’artigiano vi si sedeva cavalcioni, unito sul davanti ad una morsa verticale
in cui una ganascia era fissa e l’altra vi era serrata contro azionata da un
pedale; in modo da presentare gli impiallacci verticali e di fronte. Dal
Settecento si utilizzeranno anche banchi orizzontali per poter eseguire intarsi
di grandi dimensioni, sempre provvisti di ganascia a pedale. La sega da
traforo, costituita da un archetto con due morsetti alle estremità per fissare
la lama, era azionata a mano libera. Le lame si ottenevano da pezzi di molle
d’orologi. Dall’Ottocento la sega era collegata ad un braccio mobile, che la
manteneva perpendicolare alla morsa; si poterono così segare pacchetti di grandi
dimensioni con più intarsi, ma solo perpendicolarmente. Il taglio si esegue da
destra verso sinistra, in senso antiorario, azionando la sega con la destra e
spostando il pacchetto con la sinistra, mentre le dita pressano il bordo il più
possibile vicino al taglio. All’esterno si pongono due impiallacci di legno
come contro placcaggi dello spessore di circa due millimetri e su di uno di
essi s’incolla il disegno dell’intarsio da eseguire. Per tenere uniti i fogli
si possono mettere punti di colla tra foglio e foglio e all’esterno del disegno
chiodi di fissaggio. Con la sega da traforo si sega perpendicolarmente al
pacchetto, passando sul tratto del disegno, in modo che tutti i fogli siano
tagliati insieme e con le identiche misure. Si ottengono così quattro disegni,
due positivi e due negativi, che s’incastrano due a due. Caratteristica di
questa tecnica è l’assenza d’angoli vivi, poiché lo spessore delle lame di sega
antiche non le permette di girare su se stessa senza provocare evidenti vuoti,
che con la loro presenza indicano l’antichità dell’esecuzione.
La tornitura fu molto
utilizzata sovente unita alla realizzazione di parti traforate ottenute con la
sega o con lime e sgorbie. Naturalmente le varie tecniche possono essere
utilizzate sia alternativamente, che contemporaneamente. Da ultimo si lucida il
pezzo o per semplice strofinamento o con l’ausilio di cere, mai si utilizzano
vernici. Si può anche ricorrere a tinture di vario colore.