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Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore
Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Scheda di approfondimento.
Il legno, prima parte,
l’epoca classica.
Il legno è il materiale manifatturiero
più adoperato nella storia dell’umanità. Indagheremo principalmente l’aspetto
del suo impiego ai fini della fabbricazione degli arredi.
La storia dell’utilizzo dei legni può
essere divisa in cinque parti. Archeologica o classica fino al Medioevo. Antica
fino al Rinascimento. Storica fino al XIX secolo. Moderna fino al XX secolo,
con il passaggio dalla lavorazione prevalentemente manuale a quella
meccanizzata. Contemporanea con l’affermarsi delle lavorazioni meccanizzate e
prevalentemente industriali.
Per ognuno di questi tempi storici
cercheremo di indicare le materie prime impiegate, la loro provenienza, e i
metodi caratteristici di lavorazione. La corrispondenza di quanto descritto con
gli arredi, che si vogliano indagare, contribuisce in modo determinante alla
datazione dei manufatti e dei restauri apportati nel tempo.
L’epoca archeologica o classica.
Il termine ebanisteria è strettamente
collegato all’uso dell’ebano; lo stesso nome è derivato dal vocabolo greco
ébenos (di origine egiziana hbny).
Particolarmente apprezzato per le sue qualità di compattezza e di finezza della
grana, che ne consentono una finitura lucida e brillante; insieme al colore
bruno con riflessi rossicci o verdastri, molto adatto all’accostamento
contrastante con altri materiali nobili come l’avorio. Esistono diverse
testimonianze antiche. Letterarie, come ad esempio le citazioni omeriche o i
papiri di Stoccolma e di Leida. Monumentali, come gli arredi presenti in alcuni
musei. Ricordiamo gli arredi tombali del faraone Tutankhamon, oggi al Cairo ed
al Louvre, la sedia della madre di Senenmut, oggi al Metropolitan, e quelli
mesopotamici, di epoca sargonide (VIII-VII secolo a.C.).
Esso era importato anticamente dal
Sudan e dalla Corsica, dove oggi è scomparso. Attualmente conosciamo diversi
tipi di ebano africano. Quello presente nell’Africa tropicale, dalla Nigeria al
Gabon, denominato del Gabon o africano, è molto scuro, duro e pesante. L’ebano
di Zanzibar, chiamato anch’esso africano, diffuso nella fascia
tropico-equatoriale, dal Gana all’Angola, bruno nerastro. Del Mozambico, sempre
detto africano, proveniente dall’Africa orientale, nero-violaceo, lucido e
pastoso, durissimo, al punto da poter essere lavorato solo con utensili di
acciaio duro.
I romani non amarono molto l’ebano,
benché fossero stati i primi ad importarlo dall’India. Sia i greci sia i romani
tenevano in gran conto il legno di tuia, proveniente dalla Libia. Citato già
dai tolomei d’Egitto e da Omero, che descrive eseguita con tale legno la camera
di Elena a Sparta; presso i romani si diffonde dopo che Cesare lo usò durante
il suo trionfo sui Galli. Gli alberi erano tagliati spesso, in modo da favorire
l’allargamento delle radici. Una tavola di radica di tuia, di poco più di un
metro, poteva essere pagata una cifra enorme, superiore al milione di sesterzi.
Molte sculture erano di legno, ma poco si è conservato, oltre a quelle Egizie
favorite dal clima particolarmente secco, come gli intagli sepolcrali Kurgani
conservati dal gelo (zona degli Altai, Georgia, del V-IV secolo a.C.).
Le fonti storiche più significative
sono il “De Architettura” di Vitruvio (70-23 a.C.), la “Naturalis Historia” di
Plinio il vecchio (23-79 d.C.), scrittori romani; e la “Historia Plantarum”
dell’ateniese Teofrasto (372-287 a.C.). Plinio ci dice che i vari alberi erano
dedicati alle diverse divinità, che il platano fu introdotto dai Galli e che
l’ebano fu visto a Roma per la prima volta durante il trionfo di Pompeo. Egli fornisce
diverse nozioni sul modo di segare ed incollare il legno e sulla natura degli
alberi selvaggi: acero, pino, abete, tiglio, olmo, cipresso, larice, corniolo,
frassino e bosso; tutti legni utilizzati in epoca. Ci informa sull’uso dei
materiali abrasivi, come quello della pelle di razza (appartenente alla specie
degli squali), o per levigature fini: dell’osso di seppia, della pomice e del
tripolo, una farina fossile. Vitruvio tratta anche del faggio, del pioppo, del
salice, dell’ontano, del carpino, del ginepro e della quercia, suddivisa in
ischio, cerro e sughero. In particolare indica il pioppo, il salice ed il
tiglio come particolarmente adatti all’intaglio ed ai lavori fini. Teofrasto ha
scritto in ugual modo sulla provenienza, sui metodi di lavorazione e sulle
caratteristiche dei legni. Le foreste erano spesso di proprietà demaniale.
Strabone (studioso greco, 63 a.C. 24 d.C., estensore del famoso trattato
“Geografia”) fa notare l’importanza ricoperta dalle vie d’acqua come il Tevere,
senza cui l’approvvigionamento delle grandi città come Roma sarebbe stato
impossibile. Il legname era importato prevalentemente per via d’acqua in grandi
quantità: sia in Grecia, come testimoniano i resoconti delle forniture per la
costruzione dei templi, sia in Egitto, sia in generale in tutto il mondo
antico. Ad esempio Roma importava la legna da ardere per le terme dalla
Tunisina. Il trasporto influiva per un 15-20%. Esso avveniva lasciando che i
tronchi fossero portati liberi dalla corrente, legandoli in zattere o con le
navi. Dopo la fine dell’impero romano d’occidente quattro furono le vie
principali per i commerci. Quella imperiale, in uso fino al Trecento, da
Bisanzio verso Ravenna e Venezia; il suo proseguimento, nel XII e XIV secolo,
con la via della seta fino all’estremità del mar d’Azov; quella delle spezie da
Creta ad Alessandria, tra l’VIII e il XIII secolo; e quella della lana,
principalmente nel Trecento e nel Quattrocento. Per via di terra il trasporto
era effettuato con bestie da soma, per i tagli più piccoli, o con appositi
carri a più ruote, lunghi fino a trenta metri, trainati da più coppie di
animali, muli o buoi; arrivando ad oltre trenta coppie. In epoca classica erano
già conosciuti i principali attrezzi e procedimenti utilizzati sino al
Novecento nella fabbricazione degli arredi. Gli strumenti di rame e di bronzo
degli egizi furono ormai sostituiti da quelli di ferro e d’acciaio. Gli
artigiani erano specializzati: il carpentarius
usava scure, ascia e martello per i lavori più grossi e per la costruzione dei
carri, il lignarius usava la pialla
(ignota agli egizi), la sega e lo scalpello per lavori più fini. La vite era
nota ai romani. Per evitare che le assi in massello di spessore troppo elevato
si fendessero col tempo si ricorreva a tavole più sottili rinchiuse dentro un
telaio. Era utilizzato il tornio: sia per produrre piccoli oggetti, sia per
fabbricare supporti di arredi. Le connessioni erano realizzate ad incastro, tra
cui quello a mortasa e tenone era il più diffuso. Esso si è rivelato, quando ben
eseguito, molto durevole, al punto da tenere perfettamente negli arredi egizi
anche dopo migliaia di anni. La decorazione a stucco è spesso applicata: sia
alle superfici, sia alle cornici. La lucidatura era eseguita dagli egizi con
cera d’api mista a olio di ginepro o di cedro, che proteggevano dai tarli. I
romani aggiungevano alla cera d’api la pece greca, soprattutto per
impermeabilizzare le imbarcazioni, e polveri coloranti per la tecnica
dell’encausto (celebri gli encausti di Pompei), il tutto era applicato a caldo,
non essendo ancora noti i solventi come l’acqua ragia. Due erano le
metodologie: si strofinava direttamente il legno con un pezzo di cera e si
lucidava con un pezzo di sughero o si faceva sgocciolare la cera sul legno
scaldandola con un ferro caldo e con lo stesso la si spalmava. Si usavano anche gli oli non raffinati,
soprattutto quello di lino, ma anche di noci e di papavero. L’olio di lino era
ottenuto per spremitura dei semi, da cui si ottiene il 30-40% del peso, tende
con il tempo a scurire e vetrificare. L’olio di lino cotto essicca tra le 24 e
le 36 ore, resta trasparente ed elastico nel tempo. L’olio di noce è ottenuto
spremendone i gherigli, crudo tende ad irrancidire rapidamente, mentre cotto
presenta ottime caratteristiche di durata. L’olio di papavero si produce sempre
per spremitura dei semi, se ne ottenevano scarse quantità (abbondante solo dopo
l’Ottocento), per cui è sempre stato utilizzato per produzioni pregiate. Le
colle erano di derivazione animale: di ossa, di pelle, di nervi e di pesce,
ottenute per bollitura; oppure di caseina, miscelando formaggio macinato con
calce ed acqua. Il termine vernice è romano e deriva da Berenix città del
Marocco da cui proveniva la resina, detta veronix
o veronicis, termine con cui si è chiamata
la sandracca fino al Quattrocento. Molto utilizzata già dagli egizi la gomma
arabica, prodotta dalle acacie soprattutto africane, la più nota era quella del
Senegal, fu la gomma maggiormente impiegata in campo artistico per miglia di
anni. Tra i coloranti ricordiamo i più utilizzati. Il cinabro, prodotto
naturale, quello artificiale è chiamato vermiglione, rosso scarlatto o
rosso-cocciniglia. Il minio di colore rosso-arancio, ossido di piombo, è un
prodotto artificiale; nel medioevo fu molto usato per i codici, che furono
appunto chiamati miniati. Il rosso
sinopia o ocra rossa, naturale, colore dal rosso al rosso-bruno. La terra di
Siena, naturale o bruciata (per arrostimento), dal bruno-arancio al marrone
scuro. Il bitume prodotto naturale, generalmente usato miscelato ad altri
materiali, color bitume. Il nerofumo, ottenuto raccogliendo i fumi della
combustione di svariati materiali, stabile e molto coprente. Il nero d’ossa,
ottenuto dalla combustione di ossa; quando anticamente era fabbricato bruciando
l’avorio prendeva appunto il nome di nero-avorio. L’azzurrite, carbonato di
rame naturale, di colore azzurro intenso. Il blu-lapislazzuli, ottenuto dalla
macinazione dell’omonimo minerale; proveniente dall’Afganistan, noto già ai
babilonesi, giungeva in occidente attraverso vari scambi e se ne ignorava
l’esatta provenienza. Il verde-malachite, ottenuto macinando l’omonimo
minerale. Il verderame, ottenuto esponendo ai vapori di aceto lastre di rame o
alternandole con mosto d’uva, verde con tonalità azzurre; col tempo si può
scurire notevolmente, per cui molti dipinti appaiono molto più scuri di quanto
fossero in origine e non esistono ad oggi validi metodi per schiarirlo durante
i restauri. Terra verde, naturale con scarso potere coprente. L’indaco, colore azzurro,
ricavato da numerose piante, usato in India da tempi antichissimi; fu
introdotto sia in Grecia, sia in Egitto, sia a Roma. L’erba guada, colore
giallo, ottenuto per decotto. La gomma gutta, colore giallo, impiegata
soprattutto in Oriente. L’orcanetto, estratto dalle radici mediante cottura in
olio di lino, colore rosso scarlatto. L’oricello, colore porpora, lichene che,
come riportato da Teofrasto, era ottenuto per fermentazione in orina. Lo
zafferano, estratto dagli stami dal tempo dei romani, color giallo-arancio. Il
mallo di noce, si ottiene un mordente mediante macerazione in acqua, tinge in
bruno. L’alizarina, estratta dal rizoma della robbia fin dal tempo degli egizi,
ebbe molta importanza per le diverse colorazioni ottenibili: rosso-giallastro,
rosso-bruno, rosso-arancio e marrone. La Ginestra, colore giallo. Il kermes è
di origine animale, ottenuto staccando dalla pianta le femmine di un insetto,
il coccus ilicis, e facendole
seccare, dà diversi colori secondo i trattamenti: rosso, arancione, violaceo,
giallo, nero; fu sostituito solo dopo la scoperta dell’America dalla
cocciniglia, ricavata allo stesso modo da insetti di vario tipo originari del
Messico (colorante noto agli Aztechi), che fornisce un colore migliore, usato
anche per produrre il liquore Alkermes.