Bologna, via
Nazario Sauro 14/b
Tel. 051260619
3356635498 3358495248
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Scheda di approfondimento.
Questa
scheda è stata curata dall’antiquaria Cristina Mazzoni, titolare della galleria
“Antico Allegro” via C. Battisti 1/b, Bologna. Le foto sono di
collezione privata.
CENNI SULL’OREFICERIA POPOLARE
NELL’ITALIA MERIDIONALE DEL XIX SECOLO. Parte prima.
La parola “gioia” ha
un’etimologia latina derivante da “gaudere”, che significa avere uno stato
d’animo felice, esprimere felicità, allegria, godimento ed è proprio questa la
piacevole sensazione che sanno comunicare i gioielli a coloro che li ammirano,
li amano, li apprezzano e li indossano. Non sono stati solamente uno
status-simbol, ma hanno espresso nel tempo il loro significato di continuazione
di una tradizione, il loro valore non soltanto economico, ma più spesso
affettivo e sono sempre stati testimoni silenziosi delle vicende umane. Anche
in Italia (seppure in ritardo rispetto agli altri paesi europei, a cominciare
dall’Inghilterra) nel XIX sec. la rivoluzione industriale favorì il nascere e
poi il fiorire di una nuova classe sociale “la borghesia” che, potendo disporre
di risorse più cospicue, divenne una discreta “consumatrice“ di ornamenti (un
tempo appannaggio solo della nobiltà e del clero) e quindi la produzione di
questi ultimi ebbe un forte incremento. Naturalmente anche le donne
appartenenti alle classi sociali subalterne nutrivano lo stesso desiderio di
abbellirsi e agghindarsi, come quelle delle classi superiori e si sviluppò così
un’oreficeria definita ”popolare”, spesso meno considerata, piena di creatività
e fantasia. Poiché le risorse erano ovviamente più esigue, per limitare i
costi, l’oro di alta caratura veniva sostituito da quello rosso a basso titolo
contenente più rame, le pietre preziose con paste vitree, le perle di mare con
perle di fiume “scaramazze”, ma le lavorazioni erano comunque accurate e si
rifacevano sempre ad archetipi della tradizione. Grazie alle nuove tecniche di
lavorazione si realizzavano gioielli in sottile lamina, che veniva tagliata e
lavorata a stampo; la quantità di oro impiegata era limitata, ma anelli,
orecchini, collane risultavano molto appariscenti dando comunque un’impressione
di opulenza. Il risparmio, come sempre per il passato, riguardava soprattutto i
materiali costosi, meno la manodopera, comunque relativamente a buon mercato.
La cospicua produzione meridionale di tali gioielli ha generalizzato
l’appellativo di “borbonici”, anche se in realtà essi furono fabbricati pure in
altre parti d’Italia. La tecnica dello stampo, oltre a semplificare e rendere
più economica la produzione, favorì la tendenza e replicare le tipologie di cui
l’artigiano possedeva gli stampi; ovviando alla ripetitività dei motivi con la
fantasia della composizione. La simbologia espressa dai gioielli popolari è
estremamente intrigante e non da tutti conosciuta. Troviamo un po’ ovunque
simboli legati al corpo umano: falli, corni, mani, occhi, simboli legati agli
animali, agli astri (stelle, lune), al mondo delle piante. Da ricerche svolte
su documenti d’archivio, dagli atti testamentari, dai registri dei Monti di
Pietà e da testimonianze orali di anziani, sappiamo come determinati ornamenti
venissero indossati secondo le occasioni: fidanzamento, matrimonio, vedovanza
etc. Sappiamo anche che queste “regole” venivano rispettate più dalle classi
popolari che dalle classi borghesi. Purtroppo le calamità naturali hanno
cancellato molte testimonianze utili a ricostruirne il percorso storico e come
se non bastasse i mutamenti del gusto, la necessità di riutilizzare il vecchio
per “rinnovare”, hanno destinato la maggior parte degli oggetti alla fusione.
Inoltre la gran parte dei reperti giunti fino a noi è priva di marchi di
identificazione e nei rari casi in cui sono presenti risultano indecifrabili;
quindi è spesso difficile risalire con certezza ai luoghi di produzione.
Sappiamo che in molte zone dell’Abruzzo dal fidanzamento al matrimonio venivano
osservate una serie di modalità cerimoniali, che cominciavano con la prima
visita del pretendente a casa della prescelta. In quest’occasione alla ragazza
venivano donati un paio di orecchini o un ciondolo. Il giorno del fidanzamento
avrebbe ricevuto un anello, normalmente del tipo detto “a scudo”, che riportava
inciso sul castone il monogramma della coppia o del nome di uno dei due, oppure
una corniola incisa, o un anello a spola (così chiamato dalla foggia, simbolo
dell’operosità femminile). Al fidanzato veniva regalato un orologio da
taschino, con simboli amorosi o amuleti da appendere alla catena. Altri doni
tipici dei fidanzati erano anche ciondoli decorati con lettere smaltate, del
tipo: R come ricordo, A come amore, S come speranza, salute, souvenir. Questi
ricordini vengono definiti anche “oro dell’emigrante”, che alla partenza li
scambiava come legame d’amore con la sua donna. Spesso erano a doppia faccia,
apribili e all’interno si conservava un ciuffo di capelli dell’amato, quando
lui partiva militare o per la transumanza. La “presentosa” invece era un
ciondolo a forma di stella a diverse punte con all’interno uno o due cuori
uniti al centro e contornati di spirali in filigrana o in cordellina semplice
d’oro. Luoghi di produzione della presentosa non furono presenti soltanto in
Abruzzo, ma anche in altre zone dell’Italia meridionale, in area campana e in
area pugliese. Probabilmente questa diffusione “stilistica” venne favorita
dalla transumanza dei pastori così come avvenne per altri tipi di ornamento
che, per il loro poco ingombro e per la loro leggerezza, erano facilmente
trasportabili. La collana era senz’altro il gioiello più atteso dalla futura
sposa. Le veniva infatti donato dalla suocera alcuni giorni prima del
matrimonio ed oltre al significato di legame che si instaurava con la famiglia
dello sposo, aveva anche un valore di investitura nell’ambito della società
agropastorale. Stava a significare un nuovo ruolo: quello di futura madre e
quindi di continuazione della famiglia stessa. La collana era costituita da una
o più catene a vaghi aurei vuoti ottenuti a stampo e poi saldati nel mezzo,
oppure da catene in lamina ritagliata e traforata sorrette da medaglioni con
elementi decorativi vari, ma che avevano sempre un significato preciso. Questa
tipologia di collane fu prodotta in tutto il Regno di Napoli, naturalmente
rielaborandone i particolari, che dipendevano anche dalle tradizioni varianti
di paese in paese, ma nel complesso mantenendo una certa continuità stilistica
col passato e nella tipologia dei materiali. In area calabrese era diffusa la
”jannacca”, collana composta di grani aurei di forma e lavorazione diverse,
vuoti all’interno, a volte rifiniti con l’inserzione lungo la circonferenza
minore di piccole perline scaramazze. Così, sempre con l’uso di perline
scaramazze, venivano create collane “serracollo” formate da circa venti fili di
perline, con un pendente centrale a forma di stella decorato in filigrana.
Altra tipologia di collana era quella in trina aurea piatta a saliscendi
regola-lunghezza, con pendenti a nappa. Sul saliscendi erano raffigurati:
chiavi (simbolo di parto felice per la donna e di cura contro il mal di testa e
l’epilessia), lucchetto (con un evidente significato sessuale), fiocco (che
stava a significare il legame amoroso), foglia d’edera (rappresentante
l’allegoria della giovinezza e l’amore costante), ferro di cavallo, etc.