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Scheda di approfondimento.
Queste schede tecniche d’antiquariato sono
state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro
per la rubrica mensile edita sulla rivista
“L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non
riportate.
Si
ringrazia per la collaborazione la Professoressa Mara Bortolotto, perito d'Arte
presso il Tribunale di Bologna (www.peritoarte.it).
Chiavi e serramenti, prima parte.
Con lo sviluppo dei rapporti
sociali nasce l’esigenza di proteggere gli averi propri e quelli collettivi.
Le società basate sul nomadismo avvertono di meno quest’esigenza.
La loro situazione abitativa è essenzialmente fondata su tende, capanne e
ripari provvisori o comunque trasportabili, per loro natura costituiti di
materiali destinati alla protezione dalle condizioni climatiche, ma non adatti
ad una difesa dall’effrazione. Semplici legacci sono sufficienti a garantire la
custodia dei beni. Per garantire la proprietà il primo sistema sviluppato è
stato quello dei sigilli. La loro applicazione avveniva imprimendo su di un
blocchetto d’argilla o d’altro materiale, posto sulla chiusura adottata,
cordoni od altro, un punzone più o meno elaborato, creando un nodo sigillato. Tali sigilli furono
eseguiti con i materiali e le fogge più varie: da appendere a cordoni, montati in
anelli, da custodire in appositi contenitori, ecc. ricordiamo la grande
diffusione che essi ebbero in epoca romana, divenendo veri e propri capolavori
di gioielleria.
Da simboli di proprietà essi assunsero anche la funzione di
garanzia della merce e quella di pubblicità del marchio del produttore. Cofanetti, casse, armadi e quantaltro ebbero presto la necessità d’essere meglio
protetti ed allora si sostituì o si aggiunse al sigillo un lucchetto apposto ad
appositi passanti. Le civiltà orientali generalmente più legate al nomadismo
svilupparono lucchetti dalle forme artisticamente anche molto elaborate e
conservarono a lungo tale forma di chiusura, che persiste tuttora. Analogo al
lucchetto, anche se per uso ben diverso è il ceppo usato in ogni tempo per incatenare
animali ed uomini, fino alle contemporanee manette. Il lucchetto più diffuso è
quello ad ago, in cui un perno è inserito in apposite sedi. La costruzione
d’abitazioni, da parte di popolazioni sedentarie, con materiali più robusti
portò all’esigenza di chiuderne l’ingresso. Una delle forme più antiche fu
probabilmente quella di un semplice peso posto sulla botola d’accesso; come
quelle del più antico insediamento ad oggi noto a Çatal
Üyük. Poi si passò ad un semplice paletto incastrato
a terra ed appoggiato all’interno della porta; quindi esso fu posto in appositi
incastri nel muro ed alloggiato in cavallotti fissati al retro della stessa. La
naturale evoluzione fu un catenaccio scorrevole in anelli, che si fissava in un
foro nel muro od in altri anelli attaccati al secondo battente. L’esigenza di
potere aprire anche dall’esterno l’uscio fu risolta praticando un foro
attraverso cui far passare il braccio od un cordone con cui tirare detto
catenaccio. S’inventò poi un raffio, specie di gancio sagomato, di legno o
metallo, che introdotto da un foro permetteva di agganciare il paletto e di
spostarlo; la prima rudimentale chiave. Questo sistema efficacie per gli
animali ed i bambini piccoli non garantiva minimamente dalle intrusioni
indesiderate. Si ricorse allora a matrici, fori di riscontro, introduzioni più
o meno complicate, ecc, di modo che solo quel particolare raffio potesse
azionare l’apertura. Attraverso le raffigurazioni antiche e per mezzo della
traduzione di vari termini, indicanti: chiave, chiavistello, chiusura,
fabbricanti di serrature, ecc, possediamo una discreta documentazione della
diffusione di tali mezzi di chiusura in area ittita, babilonese, egizia, ecc.
Ad un certo punto si introdusse una significativa invenzione. Piccoli cavicchi tenoncini di differente lunghezza, dapprima di
legno, poi d’osso, bronzo ed alla fine di ferro, erano contenuti nella
serratura sopra al catenaccio ed allineati a fori passanti, praticati nello
stesso. Per gravità, quando la serratura era chiusa, essi s’infilavano nel
catenaccio bloccandolo. Era quindi necessaria un’apposita chiave, provvista di
denti allineati e della giusta lunghezza, che correttamente introdotta li
sollevasse e sbloccando il catenaccio permettesse di spostarlo. Questo sistema
è ancora in uso presso popolazioni africane. Siamo di fronte al medesimo
principio che Yale introdusse all’inizio dell’Ottocento nella sua famosa
serratura (essa fu presentata all’esposizione di Londra del 1815).
In tutta l’area celtica la diffusione del ferro portò alla
produzione di chiavi, come quella rinvenuta ad Este del
Le chiavi potevano essere fuse a cera persa interamente di bronzo
o con la sola impugnatura ed il resto di ferro. Anche se dall’epoca d’Augusto
si considera sia iniziata la produzione di catenacci di bronzo, tuttavia
continuò a lungo quella di chiavi d’avorio o di legni pregiati. La chiave
assurge ai più svariati significati simbolici ed emblematici. Basti pensare
alle chiavi di San Pietro, che dal quinto secolo compaiono già raffigurate come
suo costante attributo, per poi passare incrociate nello stemma vaticano. Nel
mondo arabo la serratura trovò ampio impiego nei cofanetti spesso d’avorio, con
lavorazioni molto preziose, predecessori dei cofanetti gotici. Nel campo dei
lucchetti il posto più importante lo occupano senz’altro quelli destinati alla
chiusura delle porte della Kaaba, la pietra sacra dei
musulmani, veri e propri capolavori, che ogni sovrano inviava al momento
dell’ascesa al trono (sono conservati quasi tutti al museo Topkapi di Istambul). Dall’area carolingia ci sono pervenute solo
chiavi di bronzo con innesto femmina. Nel periodo romanico le serrature sono
fatte in due modi: a mandata con avanzamento del chiavistello per rotazione
della chiave ed a mezzo giro, con la chiave che libera il catenaccio, che poi è
spinto manualmente od a scatto da una molla. Le chiavi generalmente sono di
bronzo prima e poi, con lo sviluppo dell’arte dei fabbri soprattutto per la
produzione delle inferiate, di ferro, normalmente maschie e senza capitello.
All’inizio del periodo gotico dal Duecento abbondano le chiavi femmina per
cassoni ed armadi e quelle maschio cominciano a permettere di chiudere e di
aprire le porte sia dall’interno sia dall’esterno; in quanto l’assenza della
spina di guida permette d’introdurle nei due sensi. La novità più importante è
però costituita dalla nascita delle corporazioni. Nel 1260 Etienne Boileau, prefetto di Parigi, promulga il “Livres des metiérs”
nel cui XIII comma è scritto lo statuto dei fabbri serraturieri
di Parigi. L’apprendista doveva eseguire un capodopera secondo le regole e
sotto la sorveglianza della corporazione. Questo controllo se da una parte
garantì standard qualitativamente elevati, si risolse spesso in una sorta di
limitazione della creatività obbligando a modelli codificati e stereotipati.
Allo stesso tempo si cominciano a studiare le scienze con un approccio più
metodico. La ricerca sulle serrature per molto tempo non si dedicherà
principalmente a migliorare la sicurezza, che anzi sarà forse meno garantita
che in precedenza, ma alla decorazione ed ai suoi significati simbolici, fino
ad assumere l’aspetto di veri e propri bassorilievi; come nella serratura
quattrocentesca con la Madonna ed il bambino conservata al Museo civico di
Bologna. I congegni della serratura gotica sono generalmente fissati alla parte
anteriore, quella a vista. I congegni a bussola si fanno sempre più complicati,
ma se ciò contribuisce alla realizzazione di mannaie decorative e complesse,
non giova più di tanto alla sicurezza ed anche per questo spesso il foro della
chiave è nascosto e camuffato. Il primato della produzione è dei maestri
fiamminghi. Con il Rinascimento il riferimento ai modelli classici porta al
tramonto definitivo del Gotico e dei suoi modelli barbarici. Spesso cade la
divisione tra arti maggiori e minori e gli artisti stessi forniscono disegni e
modelli ai fabbri, come fece ad esempio Benvenuto Cellini.
Ai vari elementi decorativi si aggiunge un grande impiego del traforo, che
giungerà a codificare il modello ad anello traforato, che da Venezia si
espanderà in Europa dal Quattrocento al Seicento. Nei capodopera si afferma nel
XVII secolo quello a lanterna. Per la produzione d’eccellenza potevano essere
necessari più di due anni di lavoro. Si
fabbricano anche i primi passepartout, chiavi capaci di aprire differenti
serrature contemporaneamente Nel Cinquecento le nuove esigenze stilistiche
imposero di nascondere la placca della serratura. Si cominciò così ad inserirla
nel legno, a collocarla all’interno degli stipiti, ponendo all’esterno piccole
placche o piccole bocchette. I monumenti architettonici dell’arte del serraturiere, scompaiono e le piastre di fondo di solito
sono nascoste alla vista. La chiave ora riveste un’importanza sempre maggiore
dal punto di vista decorativo. La placchetta copritoppa
o le bocchette per il buco della serratura sono ritagliate e sagomate nella
lamiera di ferro, ma anche d’ottone o addirittura d’argento, secondo i vari
dettami stilistici. La placchetta di fondo è fissata alla scatola per mezzo di
coppiglie e di ribattini. Entrano in uso per fissare la serratura al legno i
bulloni con dado ed i chiodi con testa umana. Il profilo della mappa è simile a
quello di una mannaia, per questo motivo la mappa è spesso chiamata così. La
spina della serratura non è sempre cilindrica e può assumere un profilo
sagomato a rombo o trilobato, come un piccolo trifoglio; ma se ne producono
d’ogni forma e complessità. Naturalmente la chiave femmina è a sua volta
sagomata come la spina, il che non permette di ruotarla su di essa, come per le
spine cilindriche, e richiede che la spina ruoti essa stessa all’interno di una
bussola fissata con un perno mobile alla piastra di fondo. Il lucchetto conosce
scarsa fortuna in Occidente sino al Cinquecento. Al modello ad ago più diffuso
in Oriente si preferisce quello a spranghetta, sia
mobile sia incernierata da un lato. Non vi si pose mai la cura raggiunta nelle
serrature, ma si prestò particolare attenzione a celare con vari artifici il
buco d’ingresso della chiave. Nel Seicento il Barocco impone ornati più pesanti
ed applicati ovunque possibile. L’utilizzo dei magli idraulici, mossi dalle ruote
dei mulini permette di realizzare lamiere più sottili ed uniformi. Si usano
bulloni e dadi per le varie parti, in modo da poterle smontare in caso di
riparazioni. Le decorazioni sono poste simmetricamente all’asse della chiave.
Da un’importante fabbricante Rossignol si originò l’analogo termine rossignol,
grimaldello in francese. Nel tentativo di evitare le effrazioni sono prodotte
anche serrature curiose, come quella che incorporava una pistola, che sparava
su chi introducesse un grimaldello, o quella un po’ meno efferata che suonava
un campanello per avvertire dell’apertura. Anche le cinture di castità, la cui
invenzione è erroneamente attribuita dalla tradizione romantica ai cavalieri
crociati, sono eseguite ed indossate nel XVI secolo al fine di proteggere le
donne dalle aggressioni, quando temevano di poter essere violentate. Esse si
diffusero dalla Germania alla Spagna, ma quelle visibili oggi sono quasi tutte
state fabbricate nella prima metà dell’Ottocento, quando si è affermato il
Romanticismo. Speriamo di non essere costretti a ripristinarne l’uso.