Questo saggio è stato
pubblicato, corredato da foto nel testo, in “Arredi del Settecento”, edito da
Artioli, Modena.
Dal capriccio alla
linea, di Pierdario
Santoro.
In questo breve saggio cercherò di gettare un’occhiata su
tutto un secolo il Settecento. La mia personale carriera d’antiquario influenza certamente il modo di affrontare
gli argomenti, sia dal punto di vista storico, che da quello filosofico; e mi
porta a porre un accento particolare sugli aspetti di vita pratica delle
persone e sul loro modo di organizzare e di rapportarsi all’ambiente che li
circonda. Per mia fortuna posso avvalermi della valida collaborazione di mia
moglie Mara Bortolotto, che con i suoi studi accademici riesce a trasmettermi
anche una visuale più vicina a quella tradizionale delle Belle Arti. Ritengo
che la vita reale delle persone determini la loro cultura e la produzione
artistica almeno quanto l’attività degli intellettuali d’ogni genere.
Particolarmente in relazione a questo secolo, che ha visto nascere la “Società”,
intesa come opinione pubblica comune a differenti ceti, contrapposta al potere
del re, inteso come assoluta sorgente e regolazione d’ogni manifestazione
sociale. Devo forzatamente trattare non solo della situazione italiana, ma
anche di quell’europea ed in particolare della Francia, che in questo secolo è
l’arbitra assoluta del gusto in Europa e particolarmente in Italia; perciò
quanto detto per essa vale spesso anche per il Bel Paese.
Nessun secolo presenta mutamenti tanto radicali e profondi, quanto
il Settecento. Esso si apre regnante Luigi XIV il re sole, la cui potenza
appare addirittura superiore a quella dell’astro con cui fu identificato. La
Francia è il suo re; immedesimazione superiore a quella dei romani con il loro
imperatore. Non solo egli è l’arbitro della vita pubblica, ma come il sole
permea di se anche quella privata. Dalle sue scelte e dal suo giudizio dipende persino lo
sviluppo dell’arte. La sua è ancor più che assoluta una monarchia totalizzante.
La fine del secolo vede la morte sulla ghigliottina del suo erede Luigi XVI ed
il termine della monarchia più antica d’Europa; la nascita di una società nuova
progettata sull’uguaglianza e la libertà individuale.
Con la morte del re
sole si chiude un’epoca, finisce il Barocco.
Nell’avvicendamento degli stili non si assiste mai ad un
passaggio netto, ma sempre ad una più o meno graduale trasformazione dei
caratteri di uno nell’altro. Così già dalla fine del Barocco l’Arte Aulica il Grand Goût inizia a cedere il passo. Luigi XIV sotto l'influenza della
Maintenon rinuncia, alla fine del suo regno, a gran parte di quella vita di
corte, che ha reso Versailles il centro del mondo. Dall’ultimo quarto del
Seicento con la perdita d’influenza di Le Brun comincia con la querelle des anciens et des modernes la
contrapposizione tra progresso e
tradizione e tra ragione e sentimento, che si concluderà con la nascita del
preromanticismo. La Reggenza di Filippo D’Orléans segna una svolta nei costumi
di corte. In Francia la corte si trasferisce da Versailles a Parigi, ma ciò non
si realizza contemporaneamente nel resto d’Europa, dove al contrario si continuano ad edificare residenze
extraurbane quali: il parco di Nymphenbourg, presso Monaco; il parco di
Ludwinsbourg, vicino Stoccarda, ideato da Giuseppe Frisoni; lo Schönbrum, di
Fischer von Erlach; l’Oranjenbourg, a Charlottembourg presso Berlino; il parco
di Sans-souci, a Postdam, progettato dallo stesso Federico II, la palazzina di
caccia di Stupinigi, presso Torino; lo Zwinger, a Dresda; La Granja, a Sant’Idelfonso
presso Madrid; la reggia di Caserta.
La residenza del re viene spostata alle Tuillerie. Quella del
reggente al Palais Royal, ove egli abbandona la rigida etichetta del Gran Goût per abbracciare lo stile
parigino, disinvolto edonista e libertino. Egli inoltre tenta di ristabilire i
diritti dell’aristocrazia e crea i Conseils,
onde sostituire i ministri borghesi, imposti da Luigi XIV, con dei nobili; ma dopo solo tre anni deve
rinunciarvi per l’incapacità e l’ignavia di costoro, ormai troppo abituati a
vivere senza impegni la vita di corte, cui li aveva assuefatti e costretti per
anni Luigi XIV al fine di ridurli a semplici comparse del potere.
Durante il secolo aumentano solo apparentemente le
distinzioni di ceto e s’irrigidiscono le divisioni di classe. In realtà la
borghesia continua la sua inarrestabile ascesa e la stessa aristocrazia finisce
per livellarsi sui gusti di essa e aderire sempre più fortemente alla sua
cultura. Tutto il Settecento assiste alla lotta per affermare le distinzioni tra
i ceti, divisioni che tuttavia diventano sempre più formali che sostanziali.
Dalla metà del Seicento alla nobiltà restano solo la proprietà terriera e
l’esenzione fiscale, mentre l’amministrazione della giustizia e la direzione
della burocrazia passano allo stato ed ai suoi funzionari, quasi sempre
borghesi. La progressiva svalutazione del denaro costringe i nobili a vendere i
loro possessi fondiari a vantaggio principalmente della borghesia, portando la
piccola nobiltà terriera alla povertà ed alla decadenza. Per contro la grande
aristocrazia di corte, composta dalle così dette quattromila famiglie,
consolida ricchezza e potere, essendole riservati gli uffici di corte, le
prebende elargite dal Re e le alte cariche nell’Esercito e nella Chiesa (il cui
accesso agli alti gradi fu precluso alla borghesia dopo il 1781). Nel Barocco è
sempre presente la corrente classicista, ma solo a partire dal 1660 è in
Francia che essa riesce ad imporsi. Con le due forme auliche del Barocco di
corte e di quello di chiesa coesiste una corrente verista, che iniziatasi in
area cattolica si afferma in Olanda.
Dall’inizio del Settecento sono già attuali quelle
trasformazioni, che caratterizzeranno il Rococò. Scompare l’impostazione
solenne e monumentale del Barocco, sostituita da una sensibilità più intima e
leggiadra; passando da una progettualità grandiosa e solenne ad un gusto
sensuale e edonistico.
Il Rococò resta arte sostanzialmente aristocratica, in cui il
virtuosismo diviene il carattere principale a scapito dell’azione spontanea.
Uno stile in cui l’esteriorità e la convenzione spesso prevalgono sulla
capacità espressiva, anche se ciò non avviene mai a scapito della qualità. Esso
incarna alla perfezione l’autocompiacimento dell’aristocrazia detentrice del
potere, ignara del crescere di un’opposizione sempre più forte ed agguerrita, o
consapevole inconsciamente dell’inevitabile vittoria della borghesia. Per tutto
il Settecento con il termine barocco non si designa lo stile di tutto un secolo, ma si criticano le manifestazioni più
disordinate ed eccessive ed i caratteri più irrazionali e privi di logica della
corrente classicista: in architettura le colonne a se stanti, che non reggono
nulla, le facciate, i cornicioni e gli architravi ricurvi come se fossero di
gomma; in scultura il carattere illusionistico e le superfici trattate come
dovrebbero esserlo solo nella pittura; in pittura la movenza delle figure
atteggiate come in una recita e l’illuminazione improbabile ed artificiale.
L’alternanza di Barocchismo e di Classicismo, di libertà espressiva e di
regolamentazione artistica, di capriccio e linea è intrinseca allo sviluppo.
Senza contrasto e superamento non può esistere evoluzione, ma solo stasi.
Questo mutare delle espressioni culturali dell’uomo è strettamente collegato al
cambiamento delle sue stesse condizioni materiali. Tale cambiamento non può
nascere senza una cultura che lo sostiene e lo esprime. Non esiste un secolo
descrivibile unitariamente, perché in cento anni coesistono e si alternano
differenti gruppi sociali con motivazioni ed espressioni artistiche diverse.
Tuttavia quando parliamo di movimento che privilegia la linea
o di quello che sceglie il capriccio non dobbiamo pensare a delle chiusure
rigide, ma a dei recinti con maglie larghe. Mentre penso a questi concetti, mi
trovo al mare in una delle spiagge riminesi e mi è sorto spontaneo questo
paragone. Il Classicismo è come l’ombrellone, non siamo obbligati dal sentire
comune a porci all’ombra di esso, possiamo anche sdraiarci al sole, ma siamo
considerati indisciplinati e criticabili se usciamo da uno spazio che
l’ombrellone idealmente delimita; per il Barocchismo esiste la spiaggia libera.
Dalla rivoluzione copernicana in poi non è più possibile
rinchiudere l’arte in una visione
deterministica. L’uomo non si sente centro della creazione, ma parte di
essa; non vive l’esistenza come attesa del giudizio divino, ma sente la potenza
proteiforme della creazione. Anche
l’arte è partecipe di questa soffio vitale e nel Barocco ogni opera ed ogni sua
parte cercano di esprimere l’anelito all’infinito. Le linee spezzate, gli
scorci prospettici, la luce proveniente da qualsiasi direzione, tutto tende a
portare l’osservazione verso l’infinito.
Con Bernini finisce il tempo dell’artista universale.
Adeguandosi allo spirito del tempo il mestiere artistico si modernizza, nasce
nel Settecento l’Estetica. Tale termine fu coniato dal filosofo tedesco
Baumgarten, seguace di Lebniz e di Wolff, traendolo dalla parola greca aìstesis, in altre parole sensibilità, sensazione. Nella “Estetica” del 1750 egli la
definisce come la scienza della conoscenza sensibile; i suoi oggetti privilegiati sono: l’eloquenza
ed il bello.
L’arredamento assume un’importanza mai avuta in precedenza,
ed a volte superiore alle stesse arti figurative ed all’architettura, giungendo
a fungere da valore guida. Gli stili non coincidono esattamente con i re di cui
portano il nome.
Con il Settecento l’arte non vuole più meravigliare, ma
attrarre e dilettare. Si realizza il passaggio dalla grande manière alla douceur
de vivre; dall’austero Le Brun al
sensuale Watteau; da Poussin a Tiepolo, fino all’erotismo di Boucher; ed in
letteratura da Laclos a Crèbillon, ed a Restif de la Breton. Il Rococò esprime
una cultura mondana in cui bello ed artistico sono sinonimi ed il principio di
bellezza diviene un concetto assoluto.
Al Rococò ed al Neoclassicismo si affianca un terzo
movimento, il Preromanticismo. Tutta l’arte del Settecento possiede un respiro
europeo, che porta alla sua immediata diffusione. Questo riguarda anche i
realisti eredi di Caravaggio e di
Rembrandt; i poveracci ed i diseredati raffigurati nelle scene di genere sono
simili ovunque. Solo le vedute restano in parte legate ad una scuola locale per
la loro caratteristica. Nel Seicento tutto, anche l’arte, era finalizzato alla
persuasione: in campo religioso ad accettare i valori della controriforma; in
campo politico quelli dell’assolutismo. Nel Settecento, contrariamente ai
secoli precedenti, non è possibile una netta distinzione tra arti maggiori ed
arti minori.
Il Rococò impersona il gusto dell’aristocrazia e dell’alta
borghesia, che realizzano gran parte della produzione edile con la costruzione
di hôtels e petites maisons, al posto dei castelli e dei palazzi edificati dal
re nel Seicento. E’ uno stile, che predilige i boudoirs dalle delicate tinte pastello, ai solenni saloni di
rappresentanza. Anche nei confronti della Reggenza questo stile si presenta
decisamente più delicato, capriccioso, vivacemente mosso, ma di una leggiadria
che racchiude ed ispira intimità. Certo nel confronto con l’arte barocca:
soverchiante, senza freni, eccessiva, straripante; il Rococò può apparire di
una tal minuta delicatezza da sembrare gretto ed insulso. Eppure quando vediamo
il tratto sicuro ed arioso di un Tiepolo e di un Francesco Guardi, l’indagine naturalistica di
Fragonard, la malinconica sensualità di Watteau, allora sentiamo il respiro
distendersi e rallegrarsi lo sguardo. Con esso si afferma quel principio di
libertà dell’artista, quel valore dell’indagine naturalistica, che porta
all’obiettiva e realistica raffigurazione, scevra del limite, della regola,
della norma. Proprio questa libertà coloristica, questa tecnica impressionistica, segna la nascita del
sentimentalismo ed aprono la via al Preromanticismo borghese. Così un’arte per
se stessa aristocratica si colloca tra la grevità del Barocco ed il
sentimentalismo del Romanticismo ed a causa della naturale quanto inevitabile
evoluzione dei suoi mezzi espressivi prepara il suo stesso superamento.
L’affermazione della borghesia porta con se nuovi ideali: l’individualismo,
legato all’iniziativa personale; il concetto nuovo di proprietà intellettuale;
la ricerca costante dell’originale; il sentimento contrapposto alla regola
razionale. Durante questo secolo si assiste alla trasformazione più radicale
mai prima verificatasi. Il passaggio del potere dall’aristocrazia alla
borghesia e parallelamente nell’arte dal prevalere della decorazione, a quello
dell’espressione.
Tale passaggio è realizzato grazie al progressivo abbattimento
dei canoni aulici sia da parte di Rousseau, Greuze, Hogarth, Richardson con la
loro critica sentimentale e naturalistica, sia da David, Mengs, Winckelmann, dal versante classicista e
razionalista. Passaggio realizzatosi in Inghilterra prima che in Francia, ma in
tutta Europa l’ideale puritano, d’operosa onestà e di semplicità, trionfa e
prepara la Rivoluzione e la vittoria definitiva della borghesia. La critica
all’accademismo ed all’ideale classico, eterno ed immutabile, è
contemporaneamente critica al potere assoluto voluto da Dio. Durante la
Reggenza decade la Grande Manière.
L’Accademia sa adeguarsi alle mutate esigenze e si mostra in generale piuttosto
liberale. Essa rimane arbitra del Gran
Goût, ma ormai pochi artistici ne seguono i principi, e per essere ammessi
non è obbligatorio accettarli. L’iscrizione è libera e tutti i grandi artisti
ne fanno parte. Essa si limita a classificare le scenette galanti e quelle
pastorali tra i petits genres.
Cadono in disuso sia il grande quadro storico, utilizzato
principalmente a fini propagandistici; che quello sacro, già da qualche tempo
divenuto un espediente per dipingere il seguito reale. Il ritratto diventa una
forma d’arte molto diffusa anche tra la borghesia. Nel 1704 al Salon ne sono esposti duecento, nel 1699
erano solo cinquanta. Watteau e le sue fêtes
galantes s’impongono ed egli si sostituisce nel favore del pubblico al
pittore di corte Le Brun. La critica d’arte fino al Settecento era concepita
come storia delle vite degli artisti, al cui interno si trovavano anche alcuni
giudizi sul loro operare. Con i salons
nascono i resoconti critici (il primo è quello di La Font de Saint-Yenne del
1747); in essi si esprimono pareri sulle opere e si riporta il giudizio del
pubblico. Diderot scrive sui salon
dal 1759 al 1781, più da giornalista, che da critico d’arte, ma nei suoi
giudizi è evidente l’importanza
dell’opinione pubblica, alla cui formazione partecipano gli stessi
artisti. L’ideologia illuminista rende possibile una critica d’arte con il
carattere dell’attualità. La fête galante
è sempre anche festa campestre ed è in questo ritorno all’Arcadia che si
esprime il desiderio di una vita lontana dagli impegni dell’etichetta di corte
in cui far coincidere civiltà, bellezza e spiritualità, con la natura. Come ho
già scritto nel libro “Arredi dell’Ottocento” l’Arcadia nel Settecento è
soprattutto un artificio, che consente l’evasione dalla realtà in un mondo
ideale fittizio. Per non ripetermi rimando il gentile lettore a quelle pagine.
L’erotismo è componente fondamentale del genere pastorale e
nei petits genres ed in pittura
perdura per quasi tutto il secolo; mentre nel romanzo rimane una tendenza
minoritaria. Naturalmente chi non conta su commissioni pubbliche deve
forzatamente rivolgersi ai petits genres.
Verso il 1680 inizia a contrapporsi allo stile aulico ed
accademico, alle pose grandiose, una concezione più individualistica, più
libera ed intima, che si dirige principalmente contro il classicismo, piuttosto
che contro il barocchismo dell’arte aulica. L’aristocrazia antimonarchica e
l’alta borghesia a partire dalla Reggenza si alleano nel rinnovamento del
gusto; che tuttavia evolve rapidamente nello stile aristocratico-aulico del
Rococò. Stile avverso ad ogni aspetto regolare e geometrizzante, sempre più incline
all’improvvisazione ed al colpo d’occhio. Mai dal Medioevo l’arte è stata così
artificiosa, complicata, lontana da ogni ideale classico.
Il Rococò esprime una tensione che riesce a dominare la forza
centrifuga impressa alle forme. Ciò è reso possibile solo dal talento di
un’artista ed allora l’opera riesce a comunicare questa sensazione di tensione
e di forza, come di molla pronta a scattare, trattenuta dall’armonia della
composizione. Quando manca il talento si perde ogni grazia e prevale la forza centrifuga,
che disaggrega le forme e le rende solo disordinate. È uno stile che, per
essere artistico, richiede grandi capacità e talento.
Il Rococò segna il passaggio rivoluzionario al vaglio della
ragione e del dubbio sui grandi valori passati. S’infrange la barriera tra il
mondo dello spirito e quello dei sensi. Predomina l’edonismo sullo
spiritualismo, il piacere estetico ed erotico sugli ideali etici ed eroici.
Fino al prevalere delle “sfere inferiori” su quelle “superiori”. Esso tocca
vari aspetti del costume e vede imporsi l’intimo sul dignitoso; segna l’avvento
della bergére, della comode, della chaise longue. Con il sovvertimento dei
valori, l’affermazione delle qualità inferiori si nobilita. Nella pittura
soprattutto in quella di genere con Boucher, Watteau, Fragonard, trionfa la
così detta pittura dei seni e dei culi. La dolcezza della vita è in sostanza
quella delle donne. L’amore si trasforma da passione ed istinto in
consuetudine, regola di vita, esercizio stanco di un’attività normale. Il nudo diventa
abituale ed ovunque è rappresentato in tutte le sue forme. Questa arte si
rivolge ad aristocratici gaudenti e sazi, alla ricerca di nuovi stimoli,
sostituisce alle opulente e mature donne rubensiane tenere fanciulle ancora
adolescenti. Da Tiepolo a Günther di Baviera, ritroviamo nella figure stesse
dei santi e delle sante i caratteri delle dame e dei cavalieri incipriati.
L’arredamento impone una visuale domestica ed imprime la sua visione edonistica
ed erotizzante tipica degli arredi alla pittura sottomettendola alle sue
esigenze. Anche dove il nudo femminile non è espressamente rappresentato è in
ogni caso presente un erotismo latente, persino negli ambienti destinati ad
alti prelati. Boucher acquisisce un’influenza tale da caratterizzare la produzione
artistica di un’epoca; come solo il pittore di corte Le Brun aveva potuto
vantare. Alle categorie artistiche: architettura, scultura, pittura, si
aggiunge la decorazione. “Si modifica con ciò la concezione figurativa: essendo
eletto a motivo dell’opera un principio di decorazione e non più la realtà, la
decorazione s’identifica con l’espressione artistica, con la forma, nella più
rigorosa concezione dell’arte per l’arte. Questo scambio, nell’ambito delle
categorie, avrà come contropartita lo scomparire della decorazione; dopo il
Rococò non esiste più la decorazione vera e propria, essa è venuta
dissolvendosi in questi aspetti rococò come oggetto stesso di figurazione”. H.
Sedlmayer-H. Bauer, voce Rococò dell’Enciclopedia Universale dell’Arte,
Venezia-Roma, 1963, vol. 11, col. 636.
Se ciò è valido per la pittura, sia come elemento della
rappresentazione, che come elemento del
soggetto pittorico; ancor più nell’architettura esso tende a conformare alle
esigenze dell’arredamento la struttura interna stessa. In generale la novità
del Rococò riguarda gli interni, che si adattano totalmente alle esigenze della
decorazione, introducendo ad esempio ampie finestre necessarie all’ingresso di
grandi quantità di luce, secondo le esigenze del nuovo stile. Particolare curioso
a volte le lastre di vetro difettose sono utilizzate per le finestre dove la
luce le maschera in parte. La porta finestra sarà adottata alla fine del
secolo. All’esterno sostanzialmente si continuano le linee interpretative del
Barocco per passare direttamente al sentire Neoclassico. Anche dove le linee
orizzontali concave e convesse e quelle per piani verticali connotano le
architetture, si tratta in ultima analisi di una riduzione degli spazzi e dei
volumi sostanzialmente ancora barocchi. Così è per il Barocchetto italiano. In
molti casi, tipico esempio Bologna, le facciate dei palazzi non vengono toccate
e s’interviene esclusivamente negli interni, riducendo gli scaloni alla cui
sommità discrete gallerie sostituiscono gli immensi atri. Si richiedono quei
“ricercati agiamenti” descritti dall’Algarotti, modificando e rimpicciolendo a
misura d’uomo le stanze private, piuttosto che gli ambienti di rappresentanza.
I principi di
convenienza e di distribuzione.
Fondamentale è l’influenza del professore d’architettura
Jacques François Blondel, che nel trattato “De
la Distribution des Maisons de Plaisance et de la Décoration des Edifices en
general » in due volumi del 1737-38 illustra come pianificare la
decorazione di una costruzione moderna. Egli ha redatto anche gli articoli
dell’Encyclopédie concernenti
l’architettura.
Sorgono due nuovi concetti: quello di convenance (convenienza) e quello di distribution, (distribuzione) nel senso di disposizione degli
ambienti. Il primo impone che ogni ambiente sia organizzato secondo la
destinazione d’uso. Ciò comporta la necessità d’ambienti con caratteristiche
dissimili gli uni dagli altri, al contrario dell’esterno, che invece richiede
una certa uniformità. Da tale assunto la
distribution diviene una nuova forma d’Arte. Gli arredi hanno un loro
preciso significato, solo in relazione alla loro collocazione. La decorazione,
nella “vaghezza”, degli ornamenti, attraversa, congiunge ed armonizza i generi
e le funzioni. La “vaghezza”, ecco il termine descrittivo che meglio si adatta
allo stile. Ad esempio un’invenzione ornamentale tipicamente locale come la
mascherina sorridente bolognese, trionfa, in quell’ambito, ovunque: dagli
archibugi d’Ercole Lelli, alle cantorie
disegnate dal Torreggiani, ad ogni tipo d’arredo, sia esso un laico
canapè od un’ecclesiastica sagrestia. I ricci compaiono dappertutto ad
uniformare la decorazione, siano il culmine della capigliatura di un aereo
putto o la cimasa di una leggiadra sedia; fino a diventare forma strutturale,
come nella splendida scala a ventaglio costruita, nella mia Bologna, per il
senatore Cesare Malvasia da Carlo Bibiena nel 1750.
La decorazione dei soffitti passa in parte di moda, perché
più difficilmente organizzabile con la decorazione complessiva dell’ambiente,
che spesso si ferma alle sovrapporte ed alle lunette di raccordo tra le pareti
ed i soffitti.
Si giunge ad una divisione e specializzazione delle arti, in
cui la decorazione e la struttura arredativa dell’ambiente riducono e
sottomettono ai loro fini la scultura e la pittura secondo appunto il principio
di “convenance” vale a dire di destinazione. Le pitture alle pareti sono solo
di genere decorativo e la pittura da cavalletto è relegata alle pinacoteche.
Anche il paesaggio classico d’Annibale Carracci, dell’Albani o del Domenichino
cede il posto in Italia alla grande tempera murale inserita nella parete in una
cornice di stucco. Eseguita con soggetti antinaturalistici di paesaggi
improbabili ed immaginifici, con colori inverosimili; che anche quando sembra
di riconoscere qualche luogo preciso, sempre vi appare qualche elemento in più:
una cascata, una rovina, un ponticello; personaggi di “maniera”, inseriti in
paesaggi di “maniera”.
La riduzione degli spazzi a maggiore misura d’uomo e la loro
destinazione ad un utilizzo pratico, porta a prevedere la collocazione dei
mobili contemporaneamente od addirittura prima di quella dei dipinti. Le boiseries ricoprono interamente e con
continuità le pareti, utilizzando diversi materiali: legno, arazzi, quadri,
carte dipinte, specchi, ecc. Esse erano realizzate dagli stessi artefici della
mobilia. Oltre allo scopo ornamentale il rivestimento dei muri assolve la
funzione di coibentazione degli ambienti, sempre piuttosto freddi e malamente
riscaldati. Per mezzo di cornici si riquadrano le porte, le finestre, i camini
ed il mobilio. In questi elementi fissi s’introducono i pannelli decorativi,
che possono essere realizzati: con legno pieno intagliato; con elementi riportati; con dei telai su cui sono montate le stoffe, le
carte dipinte ed i quadri. Tali pannelli sono rimovibili in modo da potersi
sostituire agevolmente sia per la pulizia ed il restauro, sia per il cambiare
della moda.
Gli ambienti tradizionali sono impoveriti di rappresentanza,
ma arricchiti di comfort. Dalla Reggenza si costruiscono nuovi locali con
destinazioni specifiche: salotti per il ricevimento, sale da musica e da
conversazione, studi, biblioteche, boudoir. Nel 1740 compare la sala da pranzo
destinata esclusivamente a tale uso. In Francia generalmente si colloca il
tavolo da pranzo smontabile in un’anticamera, da cui, appena terminato il
pranzo, ci si ritira per conversare in un’altra sala. In Inghilterra al
contrario si ritirano le donne e la conversazione riprende tra gli uomini. Tale
differente abitudine è attribuita da Robert Adam all’attitudine inglese di
discutere di politica in ogni occasione ed alla differenza di clima, che induce
a rimanere più vicini alla bottiglia. Un viaggiatore francese si meravigliò molto
che quando le donne si erano ritirate, gli uomini si alzassero da tavola ed
utilizzassero per i propri bisogni tranquillamente davanti a tutti un vaso
chiuso posto in un angolo della sala da pranzo, senza interrompere la
conversazione.
Bérain e Le Pautre, già attivi sotto Luigi XIV, sono tra gli
iniziatori del nuovo stile. Abbandonano i rivestimenti di marmo per ricoprire
le pareti di boiserie, di stucchi, di stoffe e di dipinti, che si armonizzano
con il mobilio.
È uno stile di transizione e presenta mischiati elementi del
vecchio e del nuovo. Sempre durante questo momento di transizione si evolve lo
stile rocaille, ispirato ad una più
libera interpretazione della natura. Così chiamato dall’adozione della
caratteristica conchiglia, quale fondamentale elemento decorativo. Già dal
500’, ad esempio nel modo di progettare le fontane, come nella più famosa di
tutte quella di Trevi, si era affermato un certo gusto per le grotte.
L’introduzione dell’asimmetria è il vero connotato della rocaille, soprattutto nei mobili.
In Inghilterra non si assiste alla diffusione del Rococò, ma
alla nascita autonoma dello stile
neopalladiano; che si rifà direttamente al grande architetto veneto e
ricrea, nel ben diverso clima inglese, le architetture classicheggianti, nate
per la ben più soleggiata Italia. Il primo esempio è la costruzione di Wanstead
House, progettata da Colin Campbell per il banchiere sir Richard Child nel
1720. Tale stile rimane in voga fin verso il 1750. Gli interni sono arredati
ispirandosi agli ambienti italiani della fine del 500’; non esistendo
indicazioni per l’arredamento negli scritti del Palladio. Questo stile non ha
praticamente seguito in Europa, influenzata dagli stili francesi, ma conosce
notevoli emulazioni nelle colonie e soprattutto in America. La borghesia, già
affermatasi in Inghilterra, è comunque attaccata al classicismo, che sente più
vicino alle sue concezioni razionali, e non favorisce l’attecchimento
dell’aristocratico stile francese. I tentativi di costruzioni rococò vedono
l’inserimento dei motivi decorativi su strutture neopalladiane, con effetti
quantomeno poco riusciti. Egualmente anche gli interni esprimono un rococò
disunito e poco convincente.
Lo stile Luigi XV porta il nome di questo re, anche se le
principali artefici furono donne. Cominciando da Madame Du Barry a Madame De Pompadour, che fa
edificare il castello di Crèsy, quello di Champs en Brie e quello di La Celle,
il suo Hotel di Versailles e quello d’Evreux; e gli ermitages di Versailles, di Compiégne e di Fontainebleau; ed a
tutte le altre preziose, che affermano il gusto di mezzo secolo nei loro
raffinati salotti e con le loro ordinazioni ai maggiori artisti dell’epoca.
L’impronta femminile è evidente anche nella costruzione delle residenze da
diporto, che conservano ovunque in Europa la terminologia francese: ermitages, bagatelles, monbijou, sanssoucis,
favorites, monrepos, ecc.
I colori sono tendenzialmente chiari sia alle pareti, che
nelle laccature dei mobili. Trionfano i bronzi dorati e quelli argentati, che
saranno il connotato del secolo. Le finestre come abbiamo detto arrivano fino a
terra con dimensioni mai viste prima per inondare di luce gli ambienti ed a
tale scopo anche i parapetti in muratura sono sostituiti da balconi di ferro
battuto. Grazie a questi elementi la decorazione, che pur rimane massiccia,
perde quel senso d’oppressione del Luigi XIV. Ad alleggerire la percezione, che
abbiamo di tali ambienti, contribuisce un elemento caratteristico di questo
stile, la riserva. Ovunque, dalle pareti al mobilio, sono presenti
incorniciature di spazzi vuoti o pieni. La riquadratura sia essa di stucco o di
bronzo dorato, di tappezzeria o dipinta, disegna in ogni caso uno spazio. Lo
spazio è utilizzato quale elemento morfologico di decorazione, presente tra i montanti degli schienali, come
tra i braccioli e le sedute; reso vibrante dalle gole scolpite negli elementi
curvilinei, che lo delimitano e di cui esso stesso fa risaltare le ardite
giravolte e l’eterea spazialità.
Nel Rococò sono utilizzati molteplici elementi decorativi,
non solo d’origine naturalistica, come: palmette, foglie d’acqua, rosette,
foglie d’acanto, conchiglie di sagoma irregolare, scimmiette, delfini, ali di
pipistrello, ecc. Ma anche altri originali o ripresi dal passato, come: perle,
ovuli, losanghe, spirali, e tutto il repertorio classico delle grottesche,
delle candelabre, ecc. Rispetto al Barocco, in cui la composizione è frutto di
un progetto intellettualistico, ora tutto risulta splendidamente amalgamato in
un’unitaria armonia, dettata da un gusto sicuro sentito come appartenente ad
una comune sensibilità. La sovrapposizione d’elementi apparentemente disparati,
crea contiguità, non accozzaglia. L’imitazione Ottocentesca si distingue e si
riconosce perché eclettica, vale a dire creata per aggiunte ed apparentamenti,
che avvicinano gli elementi senza riuscire, nella maggior parte dei casi, ad
amalgamarli. Nel Rococò si crea l’opera, nell’Eclettico la s’imita.
Lo spirito mondano del tempo traspare dalle opere, che
possono sembrarci frivole, ma sempre piacevoli.
Il Neoclassicismo.
Il Neoclassicismo si
contrappone al Rococò, ma in una prima fase, più che con una rottura
drammatica, ciò avviene in modo morbido, per assorbimento e dissoluzione dello
stile precedente. Al di là di ogni altra contrapposizione formale o filosofica,
il connotato saliente di tale contrasto risiede nell’adozione della linea come
abito mentale, guida ed orientamento, presupposto ad ogni attività artistica.
Se in architettura ciò appare evidente, è nel mobilio che troviamo la massima
caratterizzazione di tale principio. Qui materialmente la produzione acquista
caratteri nuovi. La borghesia sostituisce i propri valori a quelli dell’Ancièn regime, liberando l’arredo dalla
collocazione e dandogli valenza autonoma. L’arredo, secondo un concetto
moderno, può adattarsi ad ogni ambientazione, persino con stili differenti; è
prodotto per soddisfare un criterio di gusto codificato internazionalmente,
permettendo di seguire le scelte più personali. Il principio di convenance cade perché inutile, ora che
la produzione non si affida più all’invenzione ed al capriccio, ma ad ideali
assoluti, cui è obbligo conformarsi. Nel Settecento permangono connotati
regionali, che permettono l’immediata riconoscibilità e localizzazione del
prodotto artistico, che continua a mostrare le influenze culturali
territoriali, nella forma, ed ancor più nell’utilizzo dei materiali. Con
l’unificazione dell’Impero, la maggiore uniformità politica e culturale, unita
ad uno scambio facilitato d’artisti e materiali, porterà ad un’omogeneità
maggiore dei prodotti artistici. Con l’avanzare dell’Ottocento e l’affermarsi
dell’industrializzazione, l’uniformità della produzione diventerà la regola,
imposta dalle necessità della sua standardizzazione.
A partire dalla metà del secolo inizia la reazione
all’imperante Rococò. Con il Neoclassicismo, il ritorno agli ideali classici è
radicale ed il rifiuto del Rococò
programmatico. Ricollegandosi al classicismo barocco annovera tra i suoi primi
esponenti: Cochin, Gabriel e Soufflot, che crescono sul terreno di una cultura
ancora aulico-aristocratica; ma ben presto la direzione passerà ai nuovi ceti
emergenti espressione della borghesia.
Il Primo Neoclassicismo nasce sia dalla reazione alle
esasperazioni rococò, che dalle motivazioni politiche della nascente borghesia,
ma è soprattutto debitore dell’ispirazione classicista nata nei salotti e presso
le gran dame.
Nel Neoclassicismo distinguiamo nettamente tre fasi, in
un’evoluzione continua l’una dall’altra.
La prima è una fase di transizione, che tra il 1750 ed il
1780 vede nascere lo stile Luigi XVI, fase che potremmo definire del
rococò-classicheggiante, in cui coesistono in un carattere ibrido ed eclettico,
forme rococò e classiche; tipico esempio l’architettura, in cui a facciate
classicheggianti corrispondono interni rococò. Prevale la noia e la stanchezza
per tutto ciò che d’eccessivo il Barocchetto, com’è chiamato in Italia, andava
producendo. Il desiderio della semplicità classica predomina, divulgata dalle
migliaia di stampe circolanti, per altro senza che nessuno sapesse appieno in
che cosa consistesse esattamente questa semplicità classica. Questo eclettismo
corrisponde alla mescolanza del pubblico, in cui collaborano ed interagiscono
strati differenti della popolazione. In generale il Neoclassicismo agisce in
questa prima fase solo come elemento di discussione polemica, restando il gusto
predominante rococò. Mai come in passato queste tendenze sono influenzate dal
rinnovato contatto con le antichità, appena riesumate di Ercolano e Pompei.
La seconda fase fino alla Rivoluzione vede allearsi contro il
Rococò il Neoclassicismo ed il Preromanticismo. Con Winckelman l’ideale di
“nobile semplicità e tranquilla grandezza” s’ispira alla linea chiara,
semplice, pura, all’armonia, all’ordine, alla regolarità. Il vuoto virtuosismo,
l’artificio, la finzione del Rococò sono sempre più considerati abbietti,
morbosi e contro natura. Tradizionalmente s’imputa agli scavi archeologici lo
stimolo determinante in direzione del Neoclassicismo, ma è altrettanto vero il
contrario, che tale interesse archeologico è favorito dal mutato clima
neoclassico. In realtà il classicismo, mai completamente sopito, trova conferma
ai suoi ideali nella realtà viva delle dimore romane riportate alla luce. La
novità del Neoclassicismo risiede nella sua inconciliabile opposizione al
moderno, allora rappresentato dall’imperante Rococò.
Gli scavi di Ercolano e di Pompei contribuiscono alla nascita
del Neoclassicismo dando corpo reale ai modelli finora astratti delle regole
tramandate da Vitruvio e Plinio. Finalmente si può ricorrere ad un nuovo
patrimonio di modelli della classicità. Già si configurava una forte corrente
classicista nei Carracci, in Domenichino, Albani, Guido Reni, e poi in Nicola
Poussin ed in Carlo Maratta; nella biografia di quest’ultimo, morto nel 1713,
il Bellori ravvisa in tali pittori l’incarnazione dell’idea del bello superiore
alla natura, contrapposta ai capziosi formalismi dei manieristi ed alla
corruzione del Barocco. Un quadro come “il Parnaso” di Raffaello Mengs non
sarebbe stato possibile senza i precedenti del Domenichino e dell’Albani, nel
momento del trionfo di Boucher e di Fragonard. Se il maggior contributo alla
lotta degli Antichi sui moderni appartiene alle riflessioni
teoriche di Winckelmann, in “I pensieri sull’imitazione delle opere greche
nella pittura e nella scultura” del 1756 e nella “Storia dell’arte antica” del
1768; altrettanto importanti ed anticipatori sono gli scritti del canonico De
Gordemoy, che nel “Nouveau Traité de tout l’Architecture” (scritto tra il 1706
ed il 1714) difende la ragione contro l’ignoranza e la preoccupazione per i
difetti ed il cattivo gusto dell’arte barocca. Seguono il “Saggio sopra
l’Architettura” del 1756 del conte Algarotti, in cui si accolgono le teorie di
Carlo Lodoli sull’architettura razionale e funzionale. Poi del matematico Paolo
Frisi il “Saggio sull’Architettura Gotica” del 1766, in cui si esalta l’idea
della magnificenza e della semplicità, che gli architetti greci e romani
esprimevano nell’uso esclusivo delle line rette e circolari, per un risultato
di semplicità geometrica.
Intorno alla metà del secolo si diffonde, come accennato, un
diffuso spirito archeologico rianimato dagli scavi di Ercolano prima e di
Pompei poi. Ad Ercolano gli scavi eseguiti in galleria sono condotti dal 1738
al 1765; da tale anno proseguono solo quelli di Pompei, realizzati a cielo
aperto. La possibilità di poter finalmente vedere alla luce naturale gli
ambienti e le decorazioni classiche è uno dei motivi, che spiega la maggiore
diffusione e precisione archeologica dell’ispirazione neoclassica ai motivi
pompeiani a partire da tale data.
La visita in Italia dell’architetto Souflot e dello
scrittore-incisore Cochin al seguito del fratello della marchesa de Pompadour
de Marigny nel 1748, inaugurano la moda del Gran
Tour, giro turistico comprendente la visita alle sedi più prestigiose
dell’arte classica, sia l’antica greco-romana, che la moderna con Raffaello e
gli altri grandi del Rinascimento. Meta privilegiata era forzatamente Roma.
Questo viaggio conclude la formazione culturale comune, sia agli artisti, che
al pubblico dei conoscitori. Già lo Shaftesbury nel 1713 pensa di trovare
nell’arte greca quella perfezione, che non ravvisa in quella contemporanea,
condannando l’architettura gotica, la pittura olandese, la farsa italiana e la
musica indiana ed esaltando le proporzioni degli antichi, gli ordini corinzi e
ionici. Lo stesso Blondel critica già
nel ’37 gli eccessi decorativi del Rococò.
Lo stile Luigi XVI non porta solo il nome di questo regnante,
ma s’identifica con i Borboni e non sviluppa la minima critica alla struttura
del potere. Certo accoglie le istanze di razionalizzazione ed in parte di
semplificazione proprie dell’Illuminismo, ma non accoglie le esigenze eroiche,
stoiche e moralizzanti della borghesia rivoluzionaria. Esso rimane stile della
nobiltà dell’Ancien Regime. Intorno
al ’60 le società erudite inviano degli architetti ad eseguire misurazioni
delle opere antiche, che portano a chiarire le proporzioni, la scala e le
dimensioni reali dei particolari decorativi, in contrapposizione alla visuale
piranesiana intrisa di barocchismo e d’interpretazioni irreali; da questi
rilievi scaturisce la pubblicazione nel 1758 di “Ruines des plus beaux
Monuments de la Grèce” di Le Roy e nel 1762 di “Antiquities of Athens” di James
Stuart e Nicholas Revett; che imprimono nuovo impulso all’interesse per
l’antico.
Le innovazioni principali sono costituite dal ritorno alla
simmetria e dalla scomparsa della linea sinuosa; resta la linea curva, ma
concepita geometricamente quale: arco, elisse o losanga. Al rigore della linea
sfuggono solo gli elementi decorativi stilizzati di tipo mitologico o
naturalistico. Tutti i supporti si rettificano. Scompaiono le gambe a zampe
d’animale, sostituite dal tronco di piramide e di cono rovesciati, scanalati o
riquadrati da cornici. Gli elementi decorativi assumono le dimensioni e le
proporzioni più varie, lo stesso fregio come ad esempio la lira può essere
particolare decorativo od elemento strutturale.
Le fusioni di bronzo continuano come in precedenza a
costituire l’elemento tipico del secolo. La fantasia non conosce limiti e
plasma i modelli in cera in mille modi, aggiungendo al repertorio elementi
imitanti la tappezzeria: nappe, cordoncini, perle, strisce di cuori, festoni,
drappi, nastri annodati nell’onnipresente nodo d’amore, ecc. L’ispirazione dall’antico
porta a caratterizzare la decorazione con teste alla greca od all’egizia e con
animali mitologici. Continua e si rafforza l’ispirazione ai motivi esotici ed
orientali.
Come si vede prosegue ed addirittura si accresce la tendenza
combinatoria, altro carattere del secolo, ma anche in questo caso resta valido
il discorso fatto in precedenza sulle differenze con l’Eccletismo e
l’imitazione. La continuità con lo stile precedente è evidente, ma se non
esiste una netta frattura pur tuttavia appare una palese differenza
interpretativa. Il Rococò ricerca l’inedito, vuole stupire l’individuo ed
accentuare l’unicità dell’interpretazione. Il Neoclassicismo individua nel
recupero degli stilemi del passato una volontà programmatica. In pittura invece
gli intenti divergono e se la nobiltà persegue un’ideale fuga della realtà
nell’Arcadia e nell’erotismo; la borghesia tenta di imporre valori legati, ad
una nascente affermazione di una visione romantica.
In Francia le corporazioni continuano ad organizzare il
lavoro degli artigiani. Nel 1769 Roubo scrive: ”La maggior parte dei
falegnami-ebanisti non producono i loro telai, ma li fanno fabbricare a poco
prezzo da altri falegnami che si occupano solo di questo”. Nel XVIII secolo si
dividono gli ebanisti dagli intagliatori di legno dorato, cui in particolare
spetta la produzione dei sedili, ciò porta a non applicare più bronzi dorati ad
essi. Il titolo di maître si ottiene
dopo aver lavorato tre anni come apprendista, poi tre come compagno ed aver
eseguito un capolavoro come prova dalla propria competenza. Oltre al costo di
quest’opera si deve poi pagare una tassa variabile dalle 120 alle 530 lire. In
Italia spesso si producono mobili in miniatura, sia come modelli da presentare
al committente, sia come capodopera meno costoso di un mobile di misure
normali. La preziosità dei materiali rende impossibile all’artigiano di
produrre autonomamente gli arredi e lo obbliga a farsi anticipare dal
committente le somme necessarie al loro acquisto, od a rivolgersi al
commerciante. In Francia il Marchand-mercier
è autorizzato alla vendita di qualsiasi articolo, dalla chincaglieria ai
gioielli (termine con cui s’indica qualsiasi arredo prezioso compresi i
mobili), ma non può produrre nulla in proprio; è lui che inventa i modelli ed
anticipa le somme necessarie all’acquisto dei materiali e spesso è anche il
proprietario dei modelli. È questo imprenditore che per aggiornare
continuamente la sua offerta riesce a migliorare costantemente la produzione,
spingendo l’ebanista, chiuso all’interno delle rigide regole della
corporazione, a fabbricare sempre nuovi modelli. Anche per questo motivo i
grandi ebanisti sono indicati con il termine di operai; comune anche agli altri
artisti. D'altronde ai nobili è vietato qualsiasi lavoro manuale, pena la
decadenza dal titolo. I mercanti sono la categoria più ricca e le loro insegne
possono esser dipinte anche da grandi artisti; come quella del marchand-mercier Gersaint, che ne ha
dipinte da Watteau e da Boucher. L’opera è frutto di un a collaborazione tra
vari soggetti: il mercante che la idea, l’ebanista che la produce, il
disegnatore, lo scultore che fornisce i modelli per i bronzi, il bronzista, il
doratore ed eventualmente il laccatore od il pittore che decora le placche di
porcellana, ecc. Oggi a causa del concetto dell’opera unica dell’artista, si è
posto l’accento principalmente sull’ebanista; trascurando gli altri artefici.
Nella “Critica del giudizio”del 1790 Emanuele Kant
(1724-1804) distingue il giudizio di gusto, universale per la sua
comunicabilità, da quello intellettuale, universale in rapporto all’oggetto. Il
gusto è quindi definito: “La facoltà di giudicare su ciò che rende
universalmente comunicabile, senza la mediazione di un concetto, il sentimento
suscitato da una determinata rappresentazione”. In quest’analisi si condensa
l’estetica settecentesca, che riconosce un campo della ragione ed uno del
sentimento. L’ Encyclopédie ha fra
l’altro lo scopo di suscitare un nuovo modo di pensare per mezzo del
chiarimento dei concetti sulle arti e sulle scienze, e concatenando
ragionatamente le singole discipline delle conoscenze umane. Alla fine del
secolo, in questo clima, i capricci della rocaille
sono ormai intollerabili e intorno al 1796 il pittore davidiano Maurice Quai
modifica la parola rocaille in rococò.
In Inghilterra assistiamo ad una parallela vigorosa
affermazione di uno stile rinnovato greco, che culminerà nella pubblicazione di
“Household Furniture and
Interior Decoration executed from designs by Thomas Hope”, Londra 1807.
Thomas Hope costituisce in Inghilterra il tramite tra il Luigi XVI, l’Impero e
l’Ottocento. Egli si trasferisce a Londra nel 1796 dall’Olanda, in una casa
edificata da Adams; quindi nel 1806 arreda la celebre Deepdene house, nel
Surrey. Questo stile “alla greca” si affermerà, insieme alla sua variante
egizia, anche in Francia durante il Consolato, dopo la campagna napoleonica
d’Egitto. Parallelamente rinasce tra il 1785 ed il 1820 un rinnovato entusiasmo
per il gusto cinese. Il diffuso interesse per l’Oriente sta a dimostrare che
alla base del linguaggio moderno della rocaille
stanno diverse fonti. Su vari fronti le “Lettres persanes” (1721) di
Montesquieu, le “Figures chinoises et tartares » (1709) di Watteau, il
quadro di Boucher “l’audience de
l’empereur de Chine” le "Disputes
sur les cérimonies chinoises" di Voltaire, le figurine a lacca povera
venete e le porcellane di tutta Europa, dimostrano il persistere del gusto
“cinese” e la contestazione del classicismo greco-romano quale ideale unico di
bellezza.
In Inghilterra si afferma anche il concetto di pittoresco.
Esso dapprima definisce l’arte di
conformare i giardini alla visione fantasioso-archeologica del paesaggio a
rovine della pittura, che è nata dalle visuali offerte agli stranieri dai
paesaggi italiani durante i loro “Grand
Tour”. Questi giardini sono disseminati di finte rovine, grotte fittizie,
ponticelli su rivi artificiali; e si contrappongono al tradizionale giardino
alla francese. Essi ottengono gran successo in Europa, più scarso in Italia;
forse perché il paesaggio offre naturalmente molti di questi romantici scorci.
Nella pittura d’affresco, come decoro d’ambiente, nascono le stanze foresta,
come quelle del palazzo comunale di Bologna allestite per i direttori della
Repubblica Cispadana, recentemente aperte al pubblico.
Il Burke nel 1756 distingue due categorie: il bello,
piacevole, tenero, gentile, attraente; il sublime, sentimento di paura, di
difficoltà, di pena, d’infinito. Nel 1794 Richard Price aggiunge appunto il
pittoresco, consistente nel mutare di luci, suoni, colori, forme, nella rudezza
e nell’irregolarità.
Si definiscono come:
Pittoresco: i paesaggi di Salvator Rosa, con la
valorizzazione del piacere estetico di fronte a celi tempestosi, dirupi,
caverne, ecc.
Sublime: le sculture ed i dipinti di Michelangelo, con il
sentimento d’attrazione ed insieme di timore di fronte a fenomeni naturali
terrificanti o ad opere che esprimono forme grandiose, eroicizzate,
drammatizzate, in deroga alla regola classica.
Il Price porta ad esempio la differenza, che corre tra un
tempio classico ed in buone condizioni, che è solo bello; ed uno in rovina, che
invece è pittoresco.
La terza fase del neoclassicismo è quella dell’Impero, ma
essa riguarda già il secolo successivo.
La rivalutazione del
Medioevo ed il revival gotico.
È un fenomeno europeo. In Inghilterra si presenta con
l’apprezzamento per il giardino irregolare, le cineserie, il sublime,
l’esaltazione preromantica della virtù cavalleresca e degli eroi nordici
irlandesi nei “Canti di Ossian”, tradotti tra il 1760 ed il 1775. In Italia con
la rivalutazione del Medioevo in genere e dei primitivi da parte di, Muratori,
Maffei, ecc. in Germania con la corrente letteraria dello Sturm und Drang. In Italia l’entusiasmo per l’architettura gotica
non fu mai eccessivo.
Lo stesso Mozart il
cui miracoloso genio resta illuminista nella forma, non è scevro da
presentimenti romantici, come ad esempio nel suo breve Rondò in do minore
K.511. Hegel nella “morte dell’Arte” sancisce la libertà della scelta
eclettica: “l’arte è divenuta un libero strumento che l’artista può maneggiare
uniformemente secondo la natura della sua abilità soggettiva nei riguardi di
ogni contenuto, di qualsiasi genere esso sia”.
La fine del secolo vede il trionfo dell’epica classica
imperiale, ma lo stesso Napoleone è un ammiratore di Ossian e come dimenticare
i Capricios di Goya del 1799.
Ma il sentimento di un’antichità classica perduta per sempre
coincide con un’eguale sensibilità romantica nei confronti del Medioevo; non a
caso Preromanticismo e scavi archeologici coincidono. Winckelman e Rousseau non
solo sono contemporanei, ma vivono lo stesso rimpianto per un passato simbolo
di perfezione ormai non più raggiungibile, sia esso l’ideale classico dell’uno
od il mito del buon selvaggio
dell’altro. La borghesia vede nel riferimento al Medioevo la possibilità di
rapportarsi a valori precedenti ed alternativi a quelli aristocratici, che
invece si richiamano principalmente al classicismo del Rinascimento, del
Manierismo e del Barocco; così come il Neoclassicismo sarà accolto dalla
borghesia rivoluzionaria quale stile più adatto a rappresentare le virtù
eroiche e democratiche del nuovo stato laicizzante. È in Inghilterra, la più
borghese delle monarchie, che nascono i primi riferimenti al Gotico, già dal
1730 quando l’architetto William Kent realizza Esher Place, la cui decorazione
interna presenta particolari neogotici.
I vedutisti.
Il vedutismo consiste in una specializzazione dei pittori di
paesaggio, concentrata in tre città: Roma, Napoli e Venezia. Lo sviluppo
assunto dalla pittura profana: ritratti, paesaggi, nature morte, gruppi di
persone ed interni, unendosi a quello di nuovi mezzi tecnici, segna la sua
nascita.
L’intento è soprattutto quello pratico di documentazione di
parti del paesaggio urbano. Spesso il dipinto interessa uno scorcio preceduto
dalla pubblicazione di una stampa, da cui spesso prende spunto.
Il genere paesaggistico e quello vedutistico si originano nei
Paesi Bassi per poi diffondersi
all’Italia ed al resto d’Europa. Le vedute sono chiamate prospettive,
indicandosi con il termine prospetto quello che sta davanti. La prospettiva è
la possibilità geometrica di riportare su di un piano un soggetto
tridimensionale. L’esigenza di corrette proporzioni e rese geometriche rendono
il vedutismo attinente all’architettura
ed alla scenografia teatrale. Due sono gli strumenti principalmente usati per
eseguire il lucido (s’intende un mezzo trasparente) della veduta. Già Leonardo
suggeriva di disegnare dal vero su di un vetro in trasparenza il rilievo del
paesaggio. Pare che per primo il pantografo sia stato realizzato da Leon
Battista Alberti. Esso consiste in un telaio romboidale incernierato in modo
che fissato uno dei vertici si possa seguire con una punta l’originale, mentre
contemporaneamente una matita esegue il suo ingrandimento. Il secondo strumento
è la camera ottica, inventata dagli arabi. Essa consiste in una cassetta con un
foro al centro di una parete, munito di lente per la messa a fuoco ed un vetro
al posto della parete opposta su cui si proietta l’immagine rovesciata. Dal
Seicento l’introduzione di uno specchio posto in diagonale permette la
proiezione ed il raddrizzamento dell’immagine sul lato superiore della camera
agevolandone il ricalco. Gli stessi artisti hanno cercato di nascondere il
largo uso che ne hanno fatto, per non rischiare di squalificare a mera
copiatura la loro opera. Oggi si tende a considerare alla stregua di fotografie
i lucidi ed i disegni preparatori pervenutici, anche autografi. Ci
dimentichiamo un po’ alla leggera che la fotografia stessa è attualmente
considerata espressione artistica.
Nel Settecento usano tali strumenti i maggiori vedutisti
quali Van Wittel ed il Canaletto;
l’udinese Carlevarijs nelle 104 acqueforti de “Le fabbriche e le vedute di
Venezia” del 1703, aveva fatto ricorso alla “camera oscura”. L’Algarotti ci
testimonia che: “Molto di essa si vagliono i più celebri pittori”. Il lucido
ottenuto con la camera ottica è poi ingrandito con il pantografo, che oltre a
tutto aiuta a seguire i contorni con maggiore stabilità. In realtà il dipinto è
frutto di numerosi interventi personali dell’artista, che non si può limitare
ad una semplice copiatura. La camera ottica permette riprese solo in piena luce
con scarsezza di particolari per le parti in ombra, non rende i colori
fedelmente e comunque non secondo la sensibilità del pittore, deforma le linee
prospettiche creandone un’arbitraria convergenza, rende sufficientemente bene
le parti più lontane, male o per nulla quelle vicine.
Si considera come primo esempio del vedutismo italiano
l’illustrazione del percorso della processione, che trasporta il corpo di San
Gregorio Nazianzeno da S. Maria in campo a San Pietro, svoltosi nel 1580;
dipinto da Antonio Tempesta nelle logge di Gregorio XIII. I palazzi storici
sono rappresentati uno accanto all’altro, senza alcun ordine reale. Questo modo
di rappresentare porta direttamente alle vedute ideali di Claude Lorain,
Ghisolfi, Lemaire e Salucci; e da questi alle trasformazioni settecentesche dei
capricci, quali le ritroviamo ad esempio nel Panini.
L’autentico iniziatore del vedutismo del Settecento fu Van
Wittel. Il Pascoli sottolinea la: “intelligenza della prospettiva,
dell’architettura e dell’ottica colle cui regole sempre operava”. Conosciuto
con il nome italianizzato di Vanvitelli egli conobbe un immenso successo dovuto
anche alla richiesta dei turisti in visita a Roma di vedute realistiche dei
luoghi. I suoi dipinti sono vere e proprie documentazioni quasi fotografiche.
Ciò è dovuto anche alla collaborazione in una prima fase con Cornelis Meyer
tecnico idraulico. Egli si giova di diversi aiuti per la realizzazione delle
numerose repliche delle sue vedute e di una tecnica consentitagli dall’uso del
pantografo, che gli fa non solo
ingrandire o rimpicciolire i quadri, ma anche le diverse parti all’interno
dello stesso dipinto. Le vedute d’architetture permettono di essere replicate
nel tempo senza troppe modifiche, data la sostanziale immutabilità del soggetto.
Sono sufficienti piccoli adattamenti, se sono intervenute modifiche degli
edifici, e lo spostamento in primo o secondo piano delle parti accessorie:
figure, barche ed altri particolari di contorno. Grande è la sua influenza non
solo sui pittori italiani, ma anche sugli stranieri: sia per il lavoro
all’estero di pittori di vedute italiani come Canalatto, Bellotto, Antonio
Joli, ecc; sia per l’imitazione indotta dall’assidua frequentazione degli
stranieri in Italia. Le singole famiglie commissionano dipinti, onde
rappresentare i propri possedimenti. In tutta Europa il gusto per le vedute si
espande rapidamente, chiaro sintomo delle esigenze razionalistiche del secolo
dei lumi.
La vita privata.
Nel corso dello XVI e XVII secolo si afferma sempre più il
concetto d’onore, costituito essenzialmente
dal guadagnare l’approvazione e l’invidia degli altri grazie
all’apparire. Conservare l’onore vuole dire salvare le apparenze. Qualunque
mezzo è valido: l’insolenza, l’ostentazione, la spesa eccessiva, la prodigalità
esercitata al momento giusto sotto gli occhi di tutti, ecc.
Jean Baptiste La Salle pubblica nel 1703 le “Règles de la
bienséance e de la civilté chrétienne”, in cui prescrive le norme
dell’apparire, relative all’educazione dei bambini: ”Benché non ci sia bisogno
di far apparire nulla di studiato nel proprio aspetto esteriore, occorre
tuttavia saper misurare tutti i propri atteggiamenti e regolare bene il
portamento di tutte le parti del corpo”. Quello che conta è l’apparenza,
bastino le parole di A de Courtin: “se si fosse così miserabili da trascurare
di mettersi in ginocchio davanti a Dio, per mancanza di devozione, per mollezza
o pigrizia, occorre almeno farlo per buona creanza, a causa delle persone di
rango che si possono incontrare in quel luogo.”.
Lo stato cerca di regolamentare l’apparire. Divieto dei
duelli; leggi contro il lusso eccessivo, soprattutto dell’abito; revisione
degli statuti nobiliari, al fine di eliminare i falsi nobili; nobiltà di toga.
Entra anche nell’ambito privato, disponendo l’imprigionamento dei familiari,
che tengono comportamenti disonorevoli, su richiesta della stessa famiglia.
La diffusione della stampa e l’alfabetizzazione rendono
sempre più frequente la lettura privata, fonte di meditazione individuale e di
personale interpretazione. La lettura silenziosa sostituisce quella a voce
alta, praticata in comune. Molti non sono in grado di leggere in silenzio, e
per molto tempo fino all’Ottocento permarrà l’uso della lettura pubblica. Anche
la preghiera, da esercizio esclusivamente collettivo, comincia ad essere
praticata in privato, magari su di un mobile apposito, l’inginocchiatoio,
collocato in un angolo della camera.
Inizia un’arte degli interni, in cui il piccolo mobile
riveste un’importanza peculiare, tale da entrare prepotentemente anche nella
rappresentazione pittorica, e non unicamente in quella borghese degli ambienti
olandesi. Si sviluppa una nuova arte del vivere, con la sua attenzione non solo
all’abito, ma anche alla tavola. Nascono i cuochi e le ricette, la scelta dei
vini, regole di comportamento, ma soprattutto nasce il “gusto” personale; quale
strumento di distinzione sociale, ma anche di proprio giudizio. Si realizza il
passaggio dalla convivialità medioevale, in cui la coppa del vino circola di
bocca in bocca, il piatto delle vivande è raggiunto dalle mani di tutti, ed
anche la scodella è condivisa da più persone; a quella Sei-Settecentesca, con
l’affermazione di un apparato più complesso. Ad ognuno il proprio piatto,
forchetta, bicchiere; e quello che viene preso da accessori comuni, come le
saliere, salsiere, ecc, deve essere prelevato con appositi utensili. Ciò denota
certo la volontà di distinguersi, grazie alla ritualizzazione del vivere
sociale, ma anche la necessità di creare una distanza netta dall’altro. È tale
contatto che si teme, non certo la trasmissione di batteri due secoli prima che
siano scoperti.
L’evoluzione della tavola nel Settecento, evidenzia in
maniera sensibile quella del gusto. Le spezie esotiche cedono il passo agli
odori indigeni. Alla cipolla si affiancano l’erba cipollina, lo scalogno,
l’aglio di Spagna. Trionfano: il cerfoglio, il dragoncello, il prezzemolo,
l’alloro, il timo ed il basilico; ancora capperi, olive, alici, limoni ed
arance amare. L’uso di prodotti locali rende più accessibile l’arte culinaria,
anche ai ceti più bassi. Il consumo delle carni è esteso a classi diverse, la
distinzione è operata sulle scelte delle parti: ai ceti popolari i tagli allora
ritenuti meno pregiati o meno soggetti alla resa nelle ricette, ai nobili ed ai
borghesi agiati i pezzi di maggior qualità. Si passa dal consumo prevalente dei
grandi uccelli, a quello degli uccellini ritenuti di miglior gusto. Il cigno,
l’airone, la gru ed il pavone, sono sostituiti da tordi, beccaccini,
beccafichi, ecc. Analogamente cade in disuso il consumo di foche e di balene.
Si riconosce maggior valore al palato e meno alla vista. In passato i grandi
uccelli erano scuoiati senza romperne la pelle, che, una volta cotti, era
nuovamente rimessa, in modo da presentarli completi dei loro piumaggi. Un’altra
differenza ancor più sostanziale è rappresentata dall’aspetto dei cibi. Nel
Settecento ci si preoccupa del colore dei cibi in relazione alla loro buona
cottura ed alla resa organolettica. In precedenza viceversa il colore serviva a
rendere il cibo appetibile, si coloravano le pietanze perché l’aspetto era
determinante al gradimento; un pranzo più era colorato, più era considerato
raffinato. Non si disdegna di conversare di cibo, anche negli ambienti più
elevati. Il gusto alimentare è spesso paragonato a quello per le arti. Nel
“Dictionaire Philosophique” scrive Voltaire: “Come, nell’ordine fisico, il
cattivo gusto consiste dall’essere allettati solo da cibi troppo piccanti e
ricercati, così, nelle arti, consiste nel compiacersi degli ornamenti ricercati
e nel non sentire la schietta natura.”; ed ancora: “L’assaggiatore sente
immediatamente la mescolanza di due liquori; l’uomo di gusto, il conoscitore
vedrà con una rapida occhiata la mescolanza di due stili.” L’aristocrazia impone
continuamente nuove mode, sia a tavola, che nel vestire; in modo da marcare
continuamente la differenza tra essa, creatrice del gusto, e la borghesia,
continuamente alla rincorsa nel tentativo di imitarne i modi. La produzione
artistica non è solo produzione di maggiore agiatezza, ma soprattutto campo
elettivo dove esercitare il proprio buon gusto e marcare la distinzione con chi
tale gusto non possiede. La storia della casa dal Cinquecento è in continua
evoluzione, di pari passo con quella dei rapporti sociali. L’evoluzione verso
un moderno concetto di privato si denota dalla riduzione progressiva dei vani e
dal moltiplicarsi degli spazi accessori individuali, come : l’alcova; il
gabinetto (inteso come studio); il corsello (lo spazio tra il letto ed il muro
della camera, spesso munito di finestra), dove si concentrano mobili dedicati
alla persona, quali: la poltrona, lo scrittoio, ecc. La privatizzazione si
connota: nella specializzazione degli stessi ambienti; nella costruzione di
scale, corridoi, ingressi, che consentono l’accesso alle camere, senza
l’attraversamento dall’una all’altra; nella diversificazione delle fonti
d’illuminazione e di riscaldamento; nel passaggio dai grandi camini
architettonici a quelli piccoli ornamentali, ma muniti di condotte e ciminiere;
nella diffusione delle stufe. Contemporaneamente per tutto il Settecento
assistiamo all’espansione di un individualismo dei costumi, interrotto
dall’affermazione della famiglia, quale centro della sfera degli affetti
dell’individuo e vera base del sentimento borghese.
Ambienti sono appositamente dedicati alla riunione di gruppi
conviviali, che vedranno primeggiare le femmes
savantes, soprattutto in Francia ed in Italia. Centri alternativi alla vita
di corte, essi costituiscono un ambito intermedio tra la folla ed il ritiro
solitario. In Inghilterra evolveranno ben presto in strutture organizzate, con
regole proprie: i clubs.
La famiglia muta lentamente, da luogo di vincoli al cui
esterno l’uomo trova libertà di comportamento, a rifugio alternativo allo
stress del lavoro e degli obblighi sociali ed a sede di nuovi contenuti morali;
fino a giungere ad indicare nel buon capofamiglia l’esempio di virtù cui
ispirare l’intera società. Questa evoluzione si colloca all’interno della lotta
della borghesia per l’egemonia, rendendo la famiglia specchio contrapposto alla
vita dissoluta e parassita dell’aristocrazia.
Fino al Settecento assistiamo al consolidarsi del potere
dello stato, che surroga le funzioni prima assolte dai privati, sostituendo al
sistema delle reti clientelari quello dei funzionari statali. Il potere
militare, poliziesco e giuridico fino allora è esercitato da persone, che
agiscono in nome del re, ma con mezzi propri, contentandosi di ricevere dal
sovrano di tanto in tanto doni generosi, rientrando delle spese, vivendo spesso
d’espedienti, come il gioco d’azzardo. Nel Settecento il processo è compiuto,
la scissione tra la cosa pubblica e la sfera del privato è definitiva. Da una
parte lo stato moderno, non obbligatoriamente assolutista, ma sempre
amministrativo e burocratizzato; dall’altra la famiglia. Assieme alla nascita
della sfera del privato si sviluppa una nuova maniera di vivere in società, che
partendo dalla corte permea tutta la collettività, rendendo più forte il
controllo delle emozioni ed innalzando la soglia del pudore. Al rafforzamento
dello stato moderno, che organizza non solo lo spazio pubblico, ma regola e
difende pur nella sua autonomia quello privato, si contrappone la nascita del
pubblico, inteso come insieme indifferenziato di soggetti sociali. Si realizza
con i “lumi” quell’associazione intellettuale tra i circoli letterari, le logge
massoniche, i caffè, che porta alla creazione dell’opinione pubblica, in grado
di esercitare il potere di critica, anche negli ambiti d’esclusiva pertinenza
dello stato e persino riguardo alla politica ed all’autorità del principe.
Fondamentale per la costituzione di una sfera privata è
l’estensione dell’alfabetizzazione. Fino alla scolarizzazione universale
dell’Ottocento, essa avanza con alterne vicende. Nel nord Europa è mediamente
più alto il numero delle persone che sa fare la propria firma e si aggira, come
si desume dalla conta delle firme negli atti di matrimonio e sui verbali dei
processi, intorno al quaranta per cento della popolazione. In alcune regioni
esiste per altro un notevole divario tra chi sa leggere e chi sa anche
scrivere; infatti il protestantesimo impone la lettura privata della bibbia, ma
ad esempio vede sfavorevolmente l’apprendimento della scrittura da parte delle
donne.
Nel sud Europa tale percentuale cala fino ad uno su dieci,
con il rapporto di una donna ogni tre uomini. All’inizio dell’Ottocento dai
documenti di stato civile si desume che nelle cinque città di Piacenza, Parma,
Reggio, Modena e Bologna su cento sono in grado di firmare quaranta uomini e
ventuno spose, per contro in campagna solo diciassette e cinque ( il contado
costituiva l’ottanta-novanta per cento della popolazione).
Presso i ceti più elevati si espande anche la lettura privata
femminile, come denotano i quadri d’interno, vedi quello famoso di Chardin o
quello di Baudoin, in cui sono raffigurate donne sole intente alla lettura di
romanzi alla moda nei loro boudoir. Ma continua ad essere diffusa la lettura
collettiva ad alta voce tra amici.
La vita di corte impone all’individuo di rappresentare il
rango attraverso la forma, in un’immagine sempre pubblica, soggetta al giudizio
degli altri. L’imposizione di una vita collettiva obbliga a delimitare più
rigidamente lo spazio fisico e ad introdurre regole, che impediscano il
contatto fisico: ad ognuno il proprio letto, piatto, posate. Per contro nel
privato si può dare corso a quelle manifestazioni assolutamente vietate in
pubblico. S’istituisce un codice, che richiede una comunione stretta con
l’amico, sia esso amante o confidente. Da qui la necessità di possedere
qualcosa da portare indosso, che ricordi la relazione intima ed annulli in ogni
momento la distanza, rendendo sempre presente l’amato: un pegno d’amore, una
miniatura di ritratto, un oggetto toccato dall’amata, un ciuffo di capelli.
Anche nell’arredo il passaggio tra la nudità degli ambienti rinascimentali e l’orror vacui dello XIX secolo, costituisce il consolidarsi dell’oggetto,
quale testimone del ricordo dell’altro e delle proprie passioni. La separazione
tra ambito pubblico e privato diviene definitiva.
Il fasto, inteso come manifestazione del potere assoluto del
principe, annulla la distanza tra la sfera pubblica e quella privata, imponendo
il rituale dell’etichetta, codificando i comportamenti, subordinando ogni
manifestazione alla rappresentazione della magnificenza della monarchia. Con
Luigi XV il fasto evolve in lusso. Il lusso è l’affermazione personale del
proprio stato sociale, la misura tangibile della distinzione. Esso permette
anche al borghese di marcare le differenze e di avvicinarsi, almeno nei modi di
vivere, all’aristocratico; annullando in parte la distinzione per nascita.
L’allestimento di piccoli appartamenti, dei loro arredi, della decorazione, dei
vestiti d’uso domestico, l’attenzione dedicata alla culinaria, denota
l’autocertificazione del ruolo, che non ha più bisogno della scena pubblica,
del riconoscimento sociale.
La costituzione di uno spazio privato, diviene a sua volta
oggetto d’indagine pubblica. Quegli intimi sentimenti, quelle azioni, che mai
si sarebbero potute svolgere in
pubblico, diventano oggetto preferenziale delle autobiografie destinate
alla stampa e del romanzo borghese. Anche la cura personale risente di questa
netta separazione tra il pubblico ed il privato, tra il dentro ed il fuori.
Fino alla metà del Settecento non si usa l’acqua se non per la pulizia delle
mani e del viso, che sono le uniche parti che si mostrano. Simbolo della
nettezza della persona sono il colletto ed i polsini, che devono essere sempre
lindi ed inamidati. L’acqua è agente estraneo, che penetra ovunque e viola la
privatezza del corpo. Ci si pulisce a secco, raschiando la pelle, asciugandola
dal sudore e cospargendola di profumi. Dalla metà del secolo assistiamo ad un
ribaltamento, ma solo formale, della situazione. L’uso d’acqua calda e fredda
diventa una nuova forma di distinzione, un lusso ulteriore da esibire. Un
rituale igienista soggetto a regole autonome e che diventa a sua volta
strumento di coercizione dei comportamenti. Lentamente le regole delle buone
maniere, anche se apparentemente sembrano sopravvivere, sono superate da un
atteggiamento nuovo. La diffusione dei modelli di comportamento è anche una
delle cause del loro abbandono. L’aristocrazia vede nella loro propagazione
anche ai ceti borghesi la fine di quel fattore di distinzione, che n’aveva
decretato il successo. Dice l’abate Bellegarde: “I borghesi, i provinciali i
pedanti sono gran facitori di riverenze; opprimono la gente con i loro eterni
complimenti e omaggi fastidiosi; fanno omaggi davanti a tutte le porte e
bisogna discutere un’ora per decidere chi passerà per primo.”.
L’alta borghesia ormai consolidatasi tende a marcare la
differenza con il piccolo borghese e può condividere quanto scritto nell’Encyclopédie, quando circoscrive il
rispetto della regola civile all’aspetto più esteriore dei comportamenti in
società e ritiene che essa interessi solo le persone di condizione inferiore.
Il ciclo della buona creanza termina con la Rivoluzione, che sancisce con le
parole di Chemin la nuova morale: “Nel tempo in cui gli uomini non si stimavano
e non erano stimati che per la loro nascita, il loro rango e le loro ricchezze,
occorreva un lungo studio per conoscere tutte le sfumature di riguardi e
d’educazione da osservare in società. Oggi non c’è che una regola da seguire
nel commercio della vita, ed è di essere, con tutti, liberi, modesti, franchi e
leali”.
Sviluppo economico in
Italia.
Per tutto il secolo, ed in maniera accelerata dalla metà di
esso, assistiamo ad un incremento della popolazione europea, che sale dai
100-120 milioni d’abitanti del 1700, agli 120-140 del 1750 ed agli 180-190 del
1800. L’Italia dai circa 15,15 giunge ai 18 milioni. Nel corso del secolo si
passa da tredici a ventidue città con più di centomila abitanti, di cui ben
cinque in Italia. Napoli dai 186000 arriva ad averne 409000, divenendo la
quarta città d’Europa, con oltre il doppio della popolazione di Roma. La
longevità media si aggira ad esempio in Francia sui 29 anni. Le grandi epidemie
continuano a mietere vittime per tutto il secolo. Da quella di vaiolo, che
uccide nel 1719, solo a Parigi, 14000 persone e devasta l’Europa nel 1770; a
quella di malaria in Spagna; alla pertosse che, tra il 1749 ed il 1764, uccide
nella sola Svezia 40000 bambini. Ma in totale la mortalità rallenta nel corso
di tutto il secolo. Scompare dopo il 1720 la peste bubbonica ed in generale le malattie
si presentano in forma meno virulenta che nel passato. Le cause sono
molteplici: dalle migliorate condizioni igieniche, come ad esempio l’obbligo di
seppellire i morti fuori della cerchia urbana; all’uso più abbondante dell’acqua per lavarsi, all’adozione
di locali appositi per i bisogni corporali. Per l’incoronazione di Luigi XVI, a
Reims nel 1774, è allestito per suo uso personale un water closet di stile inglese, se si pensa che a Versailles, sotto
Luigi XIV, non c’erano bagni. Senz’altro la causa principale è quella che è
stata chiamata la rivoluzione agricola. Essa non conosce un andamento uniforme.
In Italia interessa il settentrione, a nord del Po ed in particolar modo la
Lombardia e la Val Padana, dove si adotta una coltivazione più intensiva;
mentre sotto la Toscana avviene esattamente il contrario, con l’abbandono,
l’incuria ed il generale ristagno dell’agricoltura, favorito anche dalle
condizioni avverse del terreno. Dallo stato Pontificio alla Sicilia un insieme
di circostanze, dal malgoverno, alla sussistenza del latifondo e di tecniche
agricole arcaiche, dà origine ad una diminuzione della superficie arativa e ad
un aumento di quella a pascolo e di quella ricoperta da bosco; portando
addirittura ad un arretramento della produzione agricola. Lo stato Pontificio
si divide in due zone, l’agro romano suddiviso in latifondi appartenenti al
patriziato ed in maggioranza tenuto a pascolo ed a nord le piccole fattorie
condotte a mezzadria. Anche in Toscana è preponderante la mezzadria. Nel Regno delle
Due Sicilie predomina: nel napoletano il latifondo, appartenente alla nobiltà,
al clero ed ai comuni, che contrasta con la piccola proprietà dei poderi lungo
la fascia costiera, retta a compartecipazione degli utili; in Sicilia la massa
di diseredati è sfruttata dai ricchi
proprietari terrieri, per mezzo d’intendenti, i gabellotti. La servitù della
gleba viene abolita nel Settecento nella Savoia e dalla metà del secolo anche
nel sud d’Italia. Da allora il contadino italiano è formalmente un libero lavoratore,
se si può considerare libero un contadino oberato di debiti e di servitù (come
ad esempio la corvée, consistente
nell’obbligo di lavorare gratuitamente alla manutenzione delle strade),
controllato dai gabellotti, vessato in ogni maniera.
Causa di tale rivoluzione non è l’avvento di nuove macchine,
ma l’introduzione di una rotazione più razionale delle colture, comprendente le
radici, i legumi e determinanti il trifoglio e l’erba medica, importati
dall’America, che porta all’eliminazione del maggese. È in Italia che uno
sconosciuto agricoltore veneto dello XVI secolo adotta per primo il ciclo
comprendente il foraggio; dall’Italia tale tecnica si diffonde in Olanda e da
lì al resto d’Europa. Oltre ad una migliore resa del suolo si ottiene foraggio
per l’allevamento degli animali.
È in Inghilterra che comincia ad affermarsi verso il 1760 la
recinzione dei campi. Campi chiusi con coltivazioni più uniformi, affidati alla
conduzione di un singolo fattore, si rivelano molto più produttivi dei vecchi
campi aperti, coltivati spesso in comune dal villaggio. Il fattore tende a
adottare una mentalità più imprenditoriale, operando continue migliorie; al
contrario che nella coltivazione comune, dove nessuno vuole o ha interesse a
realizzarle. D'altronde se nell’ultimo ventennio del secolo è già stato
recintato in Inghilterra circa il venti per cento del territorio, con un
aumento considerevole e costante della produzione agricola, questo consente
anche un’ulteriore accelerazione dell’inurbamento di masse di contadini
cacciati dalle loro terre, con tutto il seguito di sofferenze umane che ciò
comporta. Sempre in Inghilterra la selezione artificiale degli ovini dà un
ulteriore impulso al loro allevamento ed alla conseguente maggiore produzione
di lana.
Nel commercio marittimo Venezia è in piena decadenza e dopo
il 1715 non è più in grado di controllare i traffici mercantili dell’Adriatico.
A scapito di Venezia, si amplia il commercio d’Ancona e di Trieste, ma ancor
più di Livorno, che vede raddoppiare la propria popolazione.
Note sulla vita dei
contadini italiani nel Settecento.
I contadini italiani costituiscono dall’ottanta al novanta
per cento della popolazione.
Nel1770 la dote, normalmente portata da una contadina,
equivale al reddito di due anni di lavoro di una famiglia media. Della dote fa
di solito parte il letto, costruito con assi di legno e completo di lenzuola,
materasse, saccone, coltrice e coperta. Questo apparato equivale al valore di
circa tre mesi di lavoro di un bracciante agricolo o ad un mese di quello di un
muratore. Il letto è spesso l’unico mobile posseduto ed i più poveri non hanno
neanche quello. Il letto è sempre di legno e solo dal Settecento iniziano a
comparire, per qualche benestante, parti in ferro. Le misure del letto sono
piuttosto ampie, comparabili ad un moderno letto matrimoniale, perché su di
esso non dormono solo la moglie ed il marito, ma anche altri componenti della
famiglia. La struttura di legno è coperta dal saccone, composto di un sacco
grande quanto il letto riempito di paglia; da cui il termine pagliericcio.
Sopra al saccone si trovano una o più materasse (materassi). Tali materassi
possono essere imbottiti di lana, sempre della qualità peggiore, o di
capecchio, ottenuto dai cascami della pettinatura della canapa e del lino; questi
ultimi costano la metà del primo. La coltrice vale più del materasso ed è posta
a diretto contatto del corpo. Essa è costituita da una specie di materasso
imbottito di piume miste, dei vari volatili da cortile, e può giungere a pesare
trenta chili. Le penne non sono cambiate, ma se n’aggiungono continuamente per
lungo tempo. Esistono dal Settecento anche coltrici riempite con la bambagia
(cotone), più commerciali. Il guanciale è fatto come la coltrice. Ogni famiglia
possiede poi quattro o cinque lenzuola di lino. Un altro uso dei tessuti è
costituito da telai di lino oliati o cerati, che posti davanti alle finestre
fungono da vetri. I vetri cominciano a diffondersi relativamente in fretta nel
Settecento. Altre stoffe utilizzate sono gli asciugamani ed i tovaglioli.
Sempre in questo secolo anche i contadini cominciano a soffiarsi il naso nei
fazzoletti, piuttosto che con le dita o le maniche, almeno a tavola.
Tipica è la famiglia-stipite, ossia organizzata in modo che i
figli al momento del matrimonio restano sotto lo stesso tetto dei genitori.
Questo sia per garantire la successione nella direzione del podere, sia per
ovvie esigenze abitative. Spesso il matrimonio del figlio maggiore è ritardato,
finché un certo numero di figlie e di figli minori non è uscito dalla famiglia,
in modo da non sovraffollare troppo la casa. In queste famiglie la divisione
dei ruoli è rigidamente organizzata, in modo da attutire i contrasti sorgenti
dalla coabitazione. Alla madre resta la direzione della cucina, alla nuora la gestione
dei figli e l’aiuto nei campi. A tavola ad ognuno spetta un posto preciso.
Il contadino abita spesso unicamente in una capanna, disposta
a schiera con le altre, costruita con pietre a secco, con sulla strada la porta
ed a volte una finestra, divisa in due spazi: sul retro più buio si dorme e vi
possono essere alloggiate anche le bestie, sul davanti si cucina. Simili
abitazioni sono state rinvenute ad esempio in Sicilia. Ci sono anche i poveri,
famiglie composte dal figlio bracciante e dal padre inabile o cieco, o dalla
madre malata, che vivono al limite dei villaggi in tuguri fatiscenti o ai
margini dei campi e dei boschi in capanne di frasche; affidandosi alla carità
pubblica.
Si dorme in più persone nella stessa stanza e spesso nello
stesso letto, usando come divisori dei semplici drappi. D'altronde anche nelle
locande i viaggiatori dividono la stanza con altri, anche non appartenenti alla
loro comitiva.
La moda cambia frequentemente, naturalmente per i ceti
altolocati ed in parte per i cittadini. Così si esprime Leonardo da Vinci in un
passo nel Codice Urbinate: “Nell’altra età cominciarono a crescere le maniche e
eran talmente grandi che ciascuna per se era maggiore della vesta; poi
cominciarono ad alzare i vestimenti attorno al collo tanto ch’alla fine
copersero tutto il capo; poi cominciarono a spogliarlo in modo che i panni non
potevano essere sostenuti dalle spalle, perché non vi si posavano sopra. Poi
cominciarono a slongare si li vestimenti che al continuo li uomini avevano le
braccia cariche di panni per non li pestare co’ piedi; poi vennero in tale
estremità che vestivano solamente fino ai fianchi e alle gomita, e erano si
stretti che da quelli pativano gran suplicio e molti ne crepavano di sotto: e
li piedi si stretti che le dita d’essi si soprapponevano l’uno all’altro e
caricavansi di calli”. Evidentemente i sacrifici per essere alla moda si sono
sempre fatti. Questi cambiamenti avvengono in tutte le città d’Europa e servono
sostanzialmente per sfoggiare la propria ricchezza e marcare la differenza di
ceto con chi non si può permettere di essere alla moda. L’abito del contadino è
giocoforza ridotto all’essenziale e rimane sostanzialmente immutato a lungo. Si
compone: di una camicia di lino misto a capecchio, piuttosto lunga fino alla
coscia, con uno spacco sul retro e due sui fianchi, priva di colletto, e con le
maniche poco oltre i gomiti, che non ci si toglie neanche per andare a letto;
un paio di calzoni di lana “ammezzati”, vale a dire poco sotto il ginocchio;
quelli lunghi si diffondono dall’Ottocento, ma sono poco pratici perché
s’inzaccherano facilmente. Essendo i calzoni corti, nei giorni di festa, quando
s’indossano le scarpe, s’infilano anche un paio di calze. Completa
l’abbigliamento un corpetto di lana, una sorta di panciotto senza maniche.
D’inverno si porta sopra a tutto il giubbone, corta giacca imbottita di
bambagia. Al posto del giubbone si possono indossare: il tabarro, tenuto fermo
in vita da una cintura e munito di cappuccio; il ferraiolo, corto mantello
molto usato dai pastori perché protegge dalla pioggia, chiamato anche cappa o
pastrano, in bolognese la capparella; la zimarra, di lana a volte rivestita di
pelliccia, chiamata anche palandrana. Il contadino può anche presentarsi con
solo la camicia e scalzo, ma non gli manca mai in testa un cappello, di lana o
di paglia. Totalmente assente qualunque tipo di biancheria intima.
L’abbigliamento della contadina è del tutto simile, soltanto al posto dei
calzoni porta la gonnella, peraltro indossata fino al trecento anche dai maschi.
Elemento tipicamente femminile è il grembiule, abbastanza prezioso e decorato
quello della festa, più semplice quello da lavoro. Oltre al cappello di paglia
ed a vari tipi di cuffie la donna mette anche uno scialle, posto sul capo o
sulle spalle. L’abbigliamento infantile è una replica di quello adulto e spesso
è ricavato da un adattamento degli indumenti paterni ormai logori. Tutti i tipi
di tessuto, costituendo la principale spesa della famiglia, sono usati finche
rattoppati e logori non stanno letteralmente più insieme, dopo essere passati
da una generazione all’altra; ciò è ancor più valido per il vestito della
festa, che dà il cambio per un giorno a quello di lavoro indossato tutta la
settimana.
Questa è la ripartizione media percentuale del reddito
contadino nel Settecento: alimentazione 79, tessuti 13, investimenti in
attrezzature 4, imposte 3, varie1.
Dopo la fine delle pestilenze la popolazione comincia
lentamente ad incrementarsi. Nel Settecento assistiamo ad un generale aumento
dei braccianti salariati e della povertà che ne consegue. Essi possono lavorare
solo per parte dell’anno, durante la semina ed il raccolto, e devono ricorrere
ad espedienti per il restante. A tale immiserimento contribuiscono in misura
determinante le variazioni dei prezzi. In particolare salgono quelli dei generi
alimentari e calano quelli ad esempio dei tessuti. Dal Cinquecento alla
Rivoluzione il grano raddoppia, i tessuti crescono solo del 40%. Tutto ciò
porta ad un impoverimento delle masse dei salariati ed al loro progressivo
inurbamento; si costituisce così la forza lavoro per la nascente industria.
Anche le festività religiose, che oltre alle cinquantadue domeniche comprendono
altre quaranta o sessanta giornate di feste obbligate, secondo le parrocchie,
sono progressivamente ridotte, al fine di consentire una migliore
organizzazione del lavoro.
Il teatro italiano del
Settecento.
L’influenza delle culture europee emergenti, soprattutto di
quella francese, porta in Italia alla realizzazione di un polo d’influenza
costituito da letterati, aristocratici, dottori universitari ed ecclesiastici.
Sul modello di quanto analogamente accade in Francia ed in Inghilterra; dove
però ciò avviene soprattutto sotto lo stimolo della borghesia emergente. La
mancanza di una seria legislatura a tutela della proprietà intellettuale,
quello che oggi è il diritto d’autore, non porta alla nascita di categorie
forti ed influenti di letterati pubblicisti e drammaturghi. Questo polo
intellettuale pretende di utilizzare esclusivamente l’italiano letterario e
persegue l’obiettivo di una teatralità che abbia nel testo il suo svolgimento
unitario. In ciò si contrappone ai comici, che invece si esprimono nei vari
dialetti della penisola, e praticano una teatralità basata sullo spettacolo e
sull’efficacia degli elementi sensibili, dovendo confrontarsi con la realtà del
pubblico. L’elaborazione intellettuale di una cultura italiana unitaria di
respiro europeo, la censura formale degli spettacoli pubblici e del modo di
operare dei professionisti, porta ad un distacco di quest’elite dalla reale
situazione estremamente frazionata e parcellizzata del pubblico.
Tutte le cronache del tempo ci mostrano lo stupore reciproco
dei viaggiatori. Gli italiani all’estero restano interdetti di fronte al
silenzio ed all’attenzione con cui sono seguiti gli spettacoli. Gli stranieri
in Italia si meravigliano della focosa partecipazione del pubblico, delle
grida, del generale frastuono e della disattenzione degli spettatori, del
lancio d’oggetti. Ovunque il teatro è un momento d’ostentazione del lusso da
parte dell’aristocrazia, e all’estero anche dell’alta borghesia. In Italia
ancor più gli aristocratici considerano il teatro come luogo di riunione, dove
far mostra della propria distinzione; dove ci si ritrova soprattutto per
conversare, giocare, mangiare, sputare dai palchi in platea ed amoreggiare nei
palchetti chiusi da due tende. Lo spettacolo è solo un pretesto per sfoggiare,
soprattutto nelle grandi occasioni, abiti ed acconciature tanto elaborate da
aver richiesto addirittura di elevare l’entrata ai palchi. Questo spettacolo
nello spettacolo, il desiderio di mostrarsi è senz’altro alla base dell’amore
dei nobili italiani per il teatro. Anche il resto del pubblico non presta molta
attenzione allo svolgimento della rappresentazione, ma si accalora per i
singoli virtuosi, cui si richiedono continue ripetizioni delle arie. Gli attori
poco graditi vengono espulsi dalla scena a furia di fischi e di schiamazzi. Si
creano delle vere e proprie lobbies, che vedono la partecipazione organizzata
dei nobili, i quali giungono a stampare biglietti, con il nome dei favoriti da
sostenere, da lanciare dai palchi alla loro comparsa.
Il teatro all’italiana, con la sua tipica struttura ad
alveare, non è concepito per permettere un’omogenea visione della scena, ma
piuttosto per rimarcare le distinzioni sociali. La fascia centrale comprendente
il primo, il secondo ed il terzo ordine di palchi, è dedicata all’aristocrazia.
A Venezia le dame vi accedono a volto scoperto per distinguersi dalle
cortigiane, che a volto mascherato occupano i palchi inferiori. Nelle fasce
laterali prendono posto i borghesi. Naturalmente l’uso di subaffittare i palchi
porta ad una certa promiscuità, ma la distinzione permane. Ai borghesi è ad
esempio consentito di frequentare il ridotto riservato ai nobili solo in
occasione del carnevale, purché ben vestiti e mascherati, ma comunque, anche in
tale occasione, solo ai nobili ed agli ufficiali è permesso durante il gioco
tagliare i mazzi di carte; oppure al teatro Ducale di Parma è consentita ai
soli nobili l’illuminazione dei palchi con un lume; ecc. In platea, nei teatri
veneziani, si è costretti ad indossare abiti dimessi, aumentando il contrasto
visivo, a causa del continuo piovere dai palchi di sputi, avanzi di cibo,
moccoli di candele. Il basso prezzo dei biglietti della platea lo rende un
ambiente malfamato dove si corrono rischi reali. A Roma con un decreto si fa
obbligo di tenere sgombri i corridoi laterali per facilitare l’intervento della
guardie in occasione delle risse.
Lo spettacolo è percepito come un succedersi di scene e
d’episodi vissuti come collegati alla realtà della vita, poca o nulla
l’attenzione allo svolgimento della trama. Lo spettacolo è sentito come un
assemblaggio d’attrazioni e non come un opera culturale, da ascoltare con
rispetto e nel rispetto degli altri spettatori. Così nella commedia assume
importanza la compagnia più che il testo, e nell’opera seria la personalità dei
virtuosi. Questi ultimi d'altronde accentuano il loro ruolo di divi
rivolgendosi direttamente agli spettatori, distraendosi, guardando le scene,
prestando per primi poca attenzione allo svolgimento scenico.
Tutto ciò non contribuisce alla maturazione della
specializzazione professionale dell’attore ed al consolidamento dei testi, né
all’affermazione dell’autore, privato per altro in partenza dei diritti
artistici ed economici sull’opera. L’edificio teatrale è destinato a costituire
un’unità polifunzionale non specializzata, dedicata allo spettacolo in senso
lato: balletti, opere, commedie, esibizioni acrobatiche, intermezzi musicali,
giochi pirotecnici, circo d’animali ammaestrati, ecc. Il modello di teatro,
come modernamente inteso, è di contro rappresentato dalle recite dei
dilettanti, che hanno un peso cospicuo. In esse si esprimono i drammaturghi
tragici. Maffei, Martello, Monti ed Alfieri. Questi ultimi nel progetto di
riforma del teatro non fanno che portare la cultura ed i comportamenti tipici
dei teatri privati. Qui il rispetto dovuto al grado sociale dei recitanti od
all’etichetta di corte fa regnare da parte degli spettatori il silenzio,
l’attenzione e l’immobilità. Scrive Goldoni nelle sue memorie: “Giunto a Parma,
mi portarono a Colorno (dove l’etichetta francese era di rigore) dove stava la
corte…Lo stesso giorno andai alla commedia…; era la prima volta che vedevo
degli attori francesi; ero stupito dalla loro bravura e del silenzio che
regnava nella sala…vedendo a un certo punto l’amoroso abbracciare vivamente la
sua bella, quell’atto naturale, permesso ai francesi e proibito agli italiani,
mi piacque talmente che gridai a tutta voce: bravo! La mia voce, indiscreta ed
ignota, offese la silenziosa assemblea; il principe volle sapere da dove
veniva; mi nominarono, e si perdonò la meraviglia di un autore italiano”.
La riforma sfocia nel periodo giacobino nella realizzazione
di un pubblico moderno, un insieme indifferenziato d’individui, che si
sorvegliano a vicenda, che hanno pagato un biglietto per godere di uno
spettacolo e del suo omogeneo svolgimento; mentre nell’Ancien Régime lo spettatore è diviso in un aggregato di classi, che
fanno uso del teatro quale luogo di rappresentazione sociale.
La cultura e la musica.
Con il pamphlet
dell’abate Raguenet “Parallèle des
Italiens e des Français, en ce qui regarde la musique et les opéras"
inizia in Francia la lunga querelle,
che occuperà tutto il secolo, sulla superiorità tra la musica italiana e la
francese, in cui ritroviamo gli stesi temi della disputa tra gli antichi ed i
moderni. L’abate di ritorno da un viaggio in Italia si schiera a favore della
musica italiana, considerata geniale, estrosa, commovente, inebriante; di
contro alla monotonia, la pesantezza e la freddezza di quella d’oltralpe. La
polemica riguarda in sostanza il solo melodramma. D'altronde esso è considerato
generalmente dai filosofi e dai critici d’impostazione classicista come nemico
della natura e quindi della ragione, con i suoi artifici, la sua capacità di
commuovere e di illanguidire, ritenuto frutto della corruzione della tragedia,
un risultato degradato dei tempi moderni, è l’opinione di Voltaire come di
Fontanelle. È la musica che influenzando il testo lo corrompe, ciò avviene in
modo particolare per il melodramma italiano. Questa capacità di suscitare
sentimenti, tanto vituperata, sarà ciò che segnerà il suo trionfo in futuro.
Joseph Saveur è il matematico, che riesce a misurare il numero assoluto di
vibrazioni di un suono, fornendo le basi scientifiche per considerare l’armonia
naturale, in contrapposizione all’irrazionalità della melodia. Jean-Philippe
Rameau musicista e filosofo resta con i suoi scritti nella critica
tradizionalista, ma dal raro punto di vista del musicista erudito. Certo
l’armonia è la base della musica, stabilita su regole naturali e non arbitrarie
come la melodia; ma possiede proprio per questo una sua intrinseca ragione di
esistere, sciolta dalle altre arti compresa la poesia. L’espressione e la
varietà degli accordi sono in grado di esprimere la vasta gamma delle emozioni,
secondo canoni fissi ed immutabili. Egli pone le fondamenta del riscatto futuro
della musica strumentale pura.
I piccoli concerti per un pubblico selezionato cedono il
passo alle sonate, alle sinfonie ed ai concerti per sottoscrizione, aperti ad
un pubblico misto d’aristocratici e di borghesi. Assistiamo anche
all’evoluzione tecnica degli strumenti: la viola cede il passo al violino, il
pianoforte nasce nel 1709 dall’evoluzione del clavicembalo, il flauto diventa
di moda dal 1750 ed il clarinetto subito dopo.
Rousseau domina la seconda metà del secolo. Nel suo pensiero
la poesia precede la prosa, quale espressione originaria dell’uomo primitivo,
che con il canto esprime la melodia e l’articolazione del linguaggio. È la
civiltà che introduce l’arbitraria divisione tra il linguaggio razionale e la
musica sentimentale. Egli ribalta il discorso di Rameau e considera naturale il
sentimento ed il variare delle melodie da popolo a popolo, razionale ed
artificiale la regola dell’armonia. La divisione tra i popoli del nord e quelli
del sud nasce storicamente. I primi sviluppano un linguaggio più freddo, meno
musicale, adatto ai brusii dei salotti; i secondi lo conservano più naturale,
melodioso, adatto al canto ed ai discorsi infervorati. Nel “Essai sur l’origine des langues” scrive:
“Vi sono lingue che si accordano con la libertà: sono le lingue sonore,
prosodiche, armoniose, il cui suono si percepisce molto da lontano…Presso gli
antichi ci si faceva ascoltare facilmente dal popolo sulla pubblica piazza; gli
si parlava tutto il giorno senza fatica…oggi se un accademico legge una sua
mozione a malapena è udito all’estremità della sala…Ora io dico che una lingua
con cui non ci si possa far intendere davanti ad un popolo riunito è una lingua
servile; un popolo libero non può parlare questa lingua”. In tutti gli enciclopedisti
e viva la necessità che l’arte dovesse, oltre che divertire, educare; quindi
anche la musica deve trasmettere dei contenuti. D’Alembert c’illustra la
posizione dei conservatori: “Avete una mentalità ben limitata, ribattono i
nostri grandi uomini politici, tutte le libertà sono legate tra loro e sono
ugualmente pericolose. La libertà della musica presuppone quella di sentire, la
libertà di sentire porta con sé quella di pensare, la libertà di pensare quella
di agire e la libertà di azione è la rovina degli stati”. La preferenza per
l’opera italiana o per quella francese equivale allora ad una scelta di campo:
per la libertà democratica o per la tirannide.
In Italia a parlare di
teatro sono soprattutto i letterati, che, nonostante gli spettacoli siano sempre
affollati, dal Muratori all’Alfieri, forse con la sola eccezione del Verri,
disdegnano uno spettacolo giudicato insulso, frivolo e diseducativo; per loro
il melodramma resta una tragedia con in più la musica, non necessaria ed
addirittura disturbante. L’Algarotti afferma nel 1755 nel “Saggio sopra l’opera
in musica”, che al compositore: “Oggi non gli può entrare in capo ch’egli ha da
essere subordinato, e che il maggior effetto della musica ne viene dallo essere
ministra ed ausiliaria della poesia”.
Antonio Panelli nel suo saggio “Dell’opera in musica” (1772)
accoglie la riforma di Calzabigi e di Gluk ed indica nel patetico la dimensione
propria del melodramma, evitando i virtuosismi eccessivi, le ripetizioni delle
arie, le note troppo acute o gravi.
Gluk sintetizza la sua riforma del teatro in questa frase,
scritta nel 77 al Jurnal de Paris:
“L’unione tra la parola ed il canto deve essere talmente stretta che la poesia
deve sembrare scritta sulla musica non meno che la musica sulla poesia”. Gluk e
Calzabigi si pongono in una nuova atteggiamento di sintesi delle posizioni
antagoniste precedenti; accogliendo le critiche dei tradizionalisti sugli
eccessi del melodramma, senza cadere nella condanna moralistica, ad esempio
espressa ancora dall’Alfieri nell’introduzione allo ”Abele”, senza ritenerlo un
genere peggiorativo della tragedia; accettando di comunicare le emozioni vere,
mirando non al bello, ma all’espressivo. Il secolo si chiude con l’ultima querelle, che indica nel bel canto
italiano di Piccinni gli ideali classicheggianti di un’arte bella, levigata
priva d’alcuna asprezza. Le posizioni si ribaltano ed ora i sostenitori del bel
canto italiano si trovano nel versante della tradizione e quelli di Gluk e
della Francia su quello opposto dell’innovazione. La sintesi di Gluk chiude
un’epoca, sarà Mozart a segnare una nuova via per il melodramma, ad indicare al
romanticismo la soluzione per superare la divisione tra l’opera seria e quella
buffa.
Nella seconda metà del secolo nasce la storiografia della
musica. La perdita di tutta la musica greca e romana, la difficoltà di
decifrazione di quella medioevale, e la produzione d’opere fino allora
destinate a vita molto breve, avevano impedito la sua ricostruzione storica.
Ora la querelle tra antichi e
moderni, introducendo il confronto tra i generi ed il concetto d’evoluzione
musicale, porta alla necessità di studiarne lo sviluppo. Da una parte i
tradizionalisti, che vedono solo nel passato il modello di riferimento;
dall’altro chi crede nel progresso dei lumi, in grado viceversa di riscattare
l’umanità dalla barbarie del passato. Citiamo come esempio d’appartenenza ai
primi padre Martini, tipico esempio d’erudizione antiquaria, che inizia la
pubblicazione di una monumentale storia della musica, di cui escono solo i
primi tre volumi nel 1757, ’70, ’81, fermandosi alla musica degli ebrei nel
tempio. Di particolare importanza la biblioteca da lui lasciata a Bologna. Nel
campo dei secondi Charles Burney con la
“General History of music from the Earliest Ages to the Present Period del
1776-89. Egli vede la
musica non come una scienza, ma come cultura inserita nel periodo sociale e
storico. Contribuiscono alla critica ed alla storiografia della musica anche i
giornali, come: lo “Spectator” inglese,
od il glorioso “Mercure de France”, od “il Caffè” del Verri.
Resta generale l’atteggiamento moralista di condanna degli
attori. Molière è seppellito di sera, nel cimitero di Saint-Joseph, riservato
ai pazzi, ai suicidi ed ai bimbi morti non battezzati; e ciò fu possibile solo
grazie ad un preciso ordine del re. Benché non vi sia stato alcun annuncio,
diverse centinaia di persone seguono il suo funerale. In occasione della sua
morte il compianto è generale, per quanto il solito bigotto scrive che si
trattava di: “Un pagliaccio miserabile che, avendo in vita sua pensato solo a
far ridere la gente, non ha considerato che Dio se la ride dei peccatori che
aspettano l’ultimo momento per invocarlo.”.
Fino al 1681 le ballerine sono impersonate anche in Francia
da uomini travestiti. A Roma i castrati continuano ad interpretare le parti
femminili fino all’arrivo dei francesi di Napoleone.
Il gioco e la
prostituzione.
Il Settecento è anche il secolo del gioco. Tutti i ceti sono
pervasi da questa febbre del rischio, ma soprattutto l’aristocrazia sublima nel
gioco un desiderio di vitalità, che sente sfuggirgli. Intere sostanze sono
dilapidate al tavolo da gioco. Anche i borghesi sono coinvolti, ma in maniera
differente; è spesso solo dopo l’acquisizione di un titolo, diventati a loro
volta nobili, che essi assumono tutti gli atteggiamenti degli aristocratici,
quasi che il lusso e lo spreco caratterizzino questa classe. Vivere giocando
come un Casanova e cercare di far soldi
col gioco è una pratica ritenuta del tutto lecita. Venezia è il grande casinò
d’Europa. Qui dal 1638 Palazzo Dandolo è trasformato nel famoso Ridotto, casa
da gioco pubblica gestita dallo stato, aperta durante il Carnevale, che però
allora poteva durare fino a sei mesi. Nel 1768 esso è costituito da una grande
sala centrale e da dieci ampie camere laterali. I Croupiers, vestiti con la toga nera e la grande parrucca bianca,
chiamati tagliatori dalla loro funzione di tagliare il mazzo nel gioco più
famoso quello del Faraone, sono esclusivamente nobili, spesso decaduti e
bisognosi dello stipendio percepito per tale funzione. I giocatori possono
entrarvi unicamente mascherati; il che favorisce il mischiarsi di nobili,
avventurieri, dame e cortigiane. Il Maestro del Ridotto funge da direttore e
provvede alle varie esigenze dei giocatori, compreso il prestare denaro su
parola; la parola è d'altronde considerata sacra ed il prestito và reso entro
il giorno successivo. Si giocano molti giochi, ma i più diffusi sono
nell’ordine il Faraone, la Bassetta, il Biribisso (antesignano della moderna
Roulette) ed il Trictrac (odierno backgammon). Si prediligono i giochi ad alto
rischio in cui conta più la fortuna che l’abilità, ma si giocano anche gli
altri come il Tressette o gli Scacchi. Il Ridotto pubblico è chiuso nel 1774,
essendo il gioco indicato quale principale causa di decadenza della Repubblica
Veneta, ma ciò non ferma di certo il gioco d’azzardo, anzi esso si diffonde
ancor più nei casini e nei ridotti privati. Tutti gli stati d'altronde
continuano a gestire il gioco del Lotto e le Lotterie. Il Lotto nasce a Genova
e la prima giocata a Venezia pare sia del 5-4-1734.
Il gioco è sempre stato oggetto di repressione, indicato
quale strumento del Demonio e distruttore delle famiglie, dei patrimoni quando
non addirittura degli stati. Numerosi e continui sono nei secoli le leggi ed i
bandi succedutesi in ogni paese, al fine di reprimere, anche con svariate pene
corporali, il gioco d’azzardo; ma altrettanto numerosi i manuali sul gioco,
spesso mascherati di buone intenzioni. Come quello edito in Bologna nel 1774,
da frate Antonius Bartolotti provicario del Santo Ufficio. Nella cui
presentazione al lettore si insiste sulla moralità dell’opera, che dopo aver
posto il gioco d’azzardo: ”Fra gli onorevoli piacevoli divertimenti destinati
al ristoro, e al sollievo della fragile umana natura, merita certamente di
essere annoverato il giuoco, il quale … pare che più di ogni altro possa
condurre a ricreare la mente da seriose faccende ingombrata”. Si riconosce che
esso può essere fonte di litigi e della rottura delle amicizie più profonde, ma
s’imputa la causa alla cattiva conoscenza delle sue regole, per cui: “A rimuovere dunque un si fatto principio, io
ti presento, o leggitore, una serie di
vari giochi, o a dir più vero, le leggi ti porgo.”. Segue l’esposizione di
ventisette giochi, dal relativamente innocente, si scommette su tutto, gioco
del biliardo a quello totalmente d’azzardo del Garillè.
Libertino significa giocatore, ma anche soprattutto
dissoluto. Il gioco si accompagna spesso alla frequentazione di cortigiane e di
prostitute.
Nello spirito della controriforma la vita sessuale è
apparentemente rigidamente regolamentata. Il coito è ammesso solo ed unicamente
quando finalizzato alla procreazione. Per i moralisti, d’impostazione
agostiniana, perfino il vago pensiero del piacere, anche durante un rapporto
iniziato con la sola intenzione di procreare, è da considerarsi quantomeno
peccato veniale. Un’impostazione più duttile, ispirata dalla lettura di San
Paolo, riconosce il “debito coniugale”, in altre parole l’obbligo di
ottemperare ai doveri coniugali; ed ammette il coito anche per impedire che la
lussuria faccia compiere peccato. In tutti i casi è da considerarsi peccato
mortale il rapporto esterno al matrimonio, che può comportare anche il bando perpetuo;
e se compiuto tra celibi è obbligatoria la riparazione, con il matrimonio, se
la coppia appartiene allo stesso ceto ed in caso contrario con somme di denaro.
I rapporti sodomiti, sia etero che omosessuali, sono sanciti persino con la
pena di morte. Questo clima giuridico in realtà risulta spesso più formale che
sostanziale. La presenza delle cortigiane e delle prostitute ne sono la prova
più evidente. Gli aristocratici ed anche i regnanti mantengono amanti private e
pubbliche, come la celebre marchesa di Pompadour, una delle donne più potenti
del tempo, che quando entra a corte è così annunciata: “Voila la putain du Roi”. Anche in questo caso accanto alla
pubblicazione di continui editti e bandi repressivi fiorisce quella d’ogni
genere di stampa licenziosa ed erotica. L’esempio più eclatante è forse
costituito dalla stampa a Venezia, già nel 1673 per opera del romanziere
Ferrante Pallavicino, membro di quell’Accademia degli Incogniti che raggruppa
l’intellighenzia intellettuale, de “La Retorica delle Puttane composta conforme
li precetti di Cipriano, dedicata alla Università delle Cortigiane più celebri”
nella cui dedica ai lettori egli dichiara di non volere insegnare alle donne ad
essere buone puttane, ma agli uomini la necessità di fuggirle. In essa si
descrive l’ambiente del meretricio, che deve essere pulito e: “Dovrà
provvedersi di figure lascive, addobbando le stanze o almeno la parte che è in
faccia al letto di pitture rappresentanti atti impudici. Fanno mirabile
effetto…”. Quindi le condizioni del contratto: “quando il prezzo è pronto, e
eguale a pretensione ragionevole, l’intero corpo della Puttana è venduto;
quindi non più sua, è di chi la comprò per determinato tempo, nello spazio del
quale deve accomodarsi totalmente a sua disposizione”. Totalmente comprende
anche l’adeguare il linguaggio a quello del cliente e se: “Si compiace taluno
d’udire orrende bestemmie o le più esecrabili ingiurie, quasi delirante
farnetichi e impazzisca per l’estremo piacere. Conviene assentire all’umore di
costoro e parlare a loro grado…”. Ricordiamo che per la bestemmia pubblica o
privata esistono pene severissime, che per i bestemmiatori incalliti giungono
fino alla pena di morte. Anche i rapporti contro natura devono essere concessi,
ma: “Quando anche vuol sostenere la propria riputazione, non ricusi questo modo
di compiacere a tal prurito e col sonno o con semplice inavvertenza
comportandosi quasi delusa, di maniera che incolparsi non possa di aver
volontariamente condisceso. Neghi con le parole e poi conceda con gli atti…”.
Tutto ciò scritto con mascherati intenti moraleggianti dimostra
inequivocabilmente il clima superficiale, edonista ed ambiguo dell’epoca.
La vita dei parigini.
Parigi conta, all’inizio del Settecento, circa
cinquecentomila abitanti ed è la città più popolosa d’Europa, seguita da
Londra. Il lavoro è organizzato diviso per quartieri. La regia manifattura dei
Gobelins, situata nel quartiere di Saint-Marcel, impiega sino a settecento
operai. La maggior parte dei tappezzieri sono fiamminghi, i marmisti italiani.
Le altre manifatture regie sono situate: al Faubourg Saint-Antoine le seterie
leggere ed i brunitori di specchi, al Faubourg Saint-Germain le vetrerie, a rue
Saint-Avoye i tessuti dorati, al Château de Madrid le calze di lana, ecc. Occupano centinaia di lavoranti, che per
undici ore al giorno hanno come unico riposo il diritto di cantare inni
religiosi durante il lavoro.
Gli artisti stranieri si concentrano in rue du Sépulcre,
l’attuale via du Dragon, corrispondente nello stesso periodo a via Margutta ed
a via del Babbuino a Roma. Presso al ponte di Notre-Dame si concentrano
pittori, rigattieri e mercanti di quadri, di mediocre qualità, chiamati con
disprezzo: pittori di Pont Notre-Dame.
La corte si trasferisce a Versailles
nel 1682. Intorno al Louvre si concentrano le abitazioni dei ministri e degli
alti funzionari. L’île de Saint-Louis ospita i lussuosi palazzi dei ricchi
avvocati, che hanno ottenuto la patente nobiliare (nobiltà “di toga”),
acquistando una delle alte cariche dello stato. Questi non sono chiamati
palazzi, ma soltanto case, nonostante siano tra i più belli di Parigi, per
marcare la distinzione con l’aristocrazia di sangue. Il matrimonio delle figlie
dei nobili avviene di norma con altri nobili “di spada”, cioè d’antica
estrazione, per salvaguardare il nome. Al contrario i maschi sposano
tranquillamente le figlie dei ricchi borghesi, se appena la loro dote è
sufficientemente cospicua. Si dice: “ingrassare le proprie terre”. I poveri
sono distinti in due tipologie: i “poveri vergognosi”, che non vivono
d’elemosine ed i mendicanti.
Al centro della via scorre il canale di scolo, perciò è
necessario camminare lungo i lati e cedere il passo alle donne in cinta ed ai
nobili. Le fogne percorrono circa dieci chilometri, ma di questi otto a celo
aperto. Al grido: “attenti all’acqua” sono svuotati dalle finestre i pitali.
Naturalmente i rivieraschi gettano ogni cosa direttamente nelle acque. Spesso
gli accessi stradali alle fogne sono ostruiti e le acque putride si riversano
nelle strade. Questo “fango di Parigi” provoca un forte puzzo, descritto da
tanti scrittori, che quando si sporcano i vestiti la macchia “andava via con
tutta la stoffa”. Si propone di istituire “sedili” pubblici, ma tutti, nobili e
plebei, continuano a fare i loro bisogni per strada pubblicamente, come
peraltro si fa a Versailles alla presenza stessa del re. Un servizio
antincendio è predisposto ed al suono di una campana a martello gli addetti
accorrono con secchi e prelevano l’acqua dalle vasche delle fontane ed anche
dai pozzi privati. Dal 1705 è creato un vero e proprio corpo del genio dei
pompieri.
Le insegne sono generalmente dipinte da pittori modesti e si
ricorre spesso ai rebus od ai giochi di parole. Ad esempio la casa di un tale
Chalier (chat lier in francese legare
il gatto) è indicata da un gatto legato; un cigno accanto ad una croce per “Al
segno della croce” (cigno, Cygne, che
in francese, si pronuncia uguale a segno signe);
per “Au grâcieux” (gli eleganti) tre
grassoni nell’atto di segare (da gras grassi
e scieur segatori, che si pronunciano
uniti uguale a grâcieux).
Per i trasporti per le brevi distanze si usano le portantine,
di proprietà o pubbliche, e le Vinaigrette,
trainate da un uomo. I fiacre, ovvero
le carrozze a noleggio per una sola corsa, prendono il nome da un santuomo, il
cui ritratto appare per qualche tempo sulle loro fiancate. Si possono poi
noleggiare belle carrozze a giornata. I borghesi e gli artigiani usano dei
carretti. Le carrozze private sono più di quattromila. Le carrozze grandi a
doppio fondo a quattro od a sei cavalli, otto spettavano solo al re, che
mantenevano la distanza dai pedoni, circolano principalmente intorno al Louvre,
anche perché altrove le strade sono troppo strette. Sembra che tale limitazione
al traffico abbia costituito una delle cause dello spostamento della corte a
Versailles, mentre l’assenza di fogne, che aveva reso l’aria della reggia
irrespirabile, sia stata una delle cause del ritorno successivo della corte a
Parigi. I vetturini conducevano le carrozze a tutta birra ed i pedoni devono
affrettarsi a farsi da parte, addossandosi ai muri o tuffandosi nei portoni.
La sanità pubblica è costituita dagli ospedali, gestiti
normalmente dalla chiesa. Il più importante è l’Hôtel de Dieu, che accoglie da due a quattromila pazienti e sui
cui letti, progettati per quattro-sei malati coricati testa piedi, si giunge a
stiparne fino a dodici, più altri quattro sul tetto del baldacchino. I medici
anche se volenterosi sono totalmente privi di nozioni igieniche, ignoranti e
spesso saccenti. Le operazioni, di cui le più comuni sono le amputazioni, sono
eseguite senza alcuna anestesia nei corridoi alla presenza degli altri
ammalati. La mortalità è altissima. L’assistenza è affidata ad un direttore,
ecclesiastico, ad una madre superiora, a vari cappellani per la cura spirituale
dei malati, di cui quattro sacerdoti per gli agonizzanti. Le cure spettano ad
otto medici coadiuvati da apprendisti chirurghi e farmacisti, che eseguono le
visite a partire dalle sei del mattino, seguiti da suore e giovani medici, che
dal 1707 devono seguire due anni di tirocinio dopo gli esami, che si svolgono
ogni due anni. Tali esami consistono in una tesi cardinalizia su di un argomento
d’igiene, ed in una tesi a piacere su argomenti spesso stravaganti, del tipo:
la sregolatezza comporta la calvizie? Può un sano bere due volte al mese? Può un uomo trasformarsi
in donna? E’ migliore il tal vino od è più sano il tal altro? Ecc. Poi seguono
per una settimana gli esami d’anatomia. Durante i corsi d’anatomia si eseguono
alcune dissezioni di cadaveri, solo d’inverno, unica stagione in cui possono essere conservati, generalmente di
condannati a morte. Particolare interessante tali dissezioni sono eseguite da
cerusici-barbitonsori, che operano secondo quanto loro indicato dall’alto della
cattedra dal professore, la cui dignità non consente nessun’operazione manuale.
Vi sono poi cento suore vestite di nero e cinquanta novizie
di bianco, che praticamente vi passano la vita. Il problema principale è la
mancanza di spazio, causa principale della cattiva igiene, nonostante
l’abnegazione delle tre suore lavandaie e delle sei suore lavanderine, che
persino nelle più rigide giornate invernali, anche di notte lavano le lenzuola
immerse fino al ginocchio nelle acque gelate della Senna.
Oggi le chiese dell’epoca ci sembrano splendide, ma pensate
come devono apparire al popolo minuto allora, rivestite d’opere d’arte, ormai
in gran parte assenti, durante lo svolgimento delle funzioni solenni o dei
funerali in pompa magna, in cui lo straripare dei ceri fece coniare il termine
di camere ardenti. Esse costituiscono ai suoi occhi un vero e proprio
abbagliante spettacolo, l’unico a cui può assistere, essendo peraltro il solo
palazzo cui ha accesso. I predicatori occupano un posto d’eccellenza. Le dame
mandano i propri servi ad occupare i primi posti fin dal mattino. Dal pulpito
si assiste a vere prove d’eloquenza, di cui il pubblico colto apprezza i giri
di parole, le allocuzioni ricercate, la valentia retorica. Un sermone di
Bourdaloue può durare anche sei ore. Il culto delle reliquie arriva a livelli,
che oggi appaiono ridicoli. Si adorano gli oggetti più improbabili: pezzi della
corona di spine, la spugna imbevuta d’aceto della passione, la lanterna di
Giuda, la verga di Mosé, le gocce del latte della vergine, gli immancabili
frammenti della croce, ecc.
I caffè appaiono nel 1669, per imitazione dell’ambasciata
turca. In essi si serve anche la cioccolata, da bere (la coccolata solida
sembra sia stata realizzata per la prima volta da Majani di Bologna nel 1789),
e le varie bevande alcoliche e non. Vi si può anche fumare, nonostante sia
vietato. I caffè sono più di trecento, ma ciononostante sono piuttosto malvisti,
perché i dottori ritengono che il caffè porti all’impotenza. Innumerevoli cabarets forniscono pasti a partire da
pochi soldi per arrivare a prezzi esorbitanti per quelli alla moda vicino al
Louvre, che servono in vasellame d’argento pranzi degni dei principi. Nelle
bettole esclusivamente si beve.
Tra gli spettacoli si prediligono i fuochi d’artificio, la
cui tecnica è stata importata dall’Italia.
Per gli amatori d’arte non c’è bisogno di musei, oltre alle
chiese si possono visitare le case più belle, spesso a pagamento. Anche le
gallerie private sono visitabili, anche se con maggiori difficoltà. È ritenuto
doveroso rendere accessibili le opere d’arte private.
D'altronde in Inghilterra recentemente ho incontrato un
commerciante, che si fa pagare per visitare la sua bottega.
La fiera di Saint-Germain
dura due mesi ed è un vero e proprio avvenimento. Ventiquattro padiglioni
divisi da strade coperte ospitano numerose botteghe di proprietà od in affitto,
che nel periodo di chiusura fungono da rimesse per le carrozze pubbliche. Al
suo interno, facendo parte del comprensorio dell’abbazia, non sono valide le
regole delle corporazioni ed anche i maestri stranieri e coloro che sono senza
licenze possono vendervi liberamente. Tutti i generi di lusso vi sono presenti,
divisi per tipologie e per strade. Ad esempio nella strada dei pittori francesi
e stranieri si ammucchiano uno sull’altro una quantità incredibile di quadri.
Però i quadri dei pittori privi di licenze devono essere portati di notte e con
vari stratagemmi, perché intorno ai terreni dell’abbazia sono in agguato
poliziotti incaricati dalle corporazioni di sequestrare loro le tele. I nobili
vi si recano la sera e le dame mascherate sono accompagnate dai loro
ammiratori, che offrono loro continuamente gioielli e fazzoletti ricamati.
Dal 1665 i diplomati dell’Accademia, vincitori del primo e
del secondo premio, possono recarsi a Roma ed esservi mantenuti per tre anni a
spese del re per perfezionarsi a contatto con le grandi opere del passato.
Quando tornano entrano a bottega da un maestro dove si formano alla sua scuola.
È loro richiesto di apprendere il più possibile lo stile del maestro. In
un’epoca in cui non è ancora definito il concetto di proprietà artistica,
non si pretende autonomia ed
originalità. In questo modo si possono eseguire le grandi opere ed i cicli
pittorici collettivamente, magari specializzandosi ognuno in un campo: chi le
mani, chi i piedi, chi gli alberi, ecc. Compito del maestro è eseguire gli
schizzi preparatori, coordinare ed omogeneizzare il tutto ed eseguire le parti
più complesse come i visi. Da qui l’oggettiva difficoltà di distinguere oggi la
mano del singolo artista. L’opera è soggetta ad una trattativa tra il
committente e l’esecutore, che definisce non solo i costi, ma anche le misure
ed i soggetti; spesso si allegano precisi schizzi e disegni, preventivamente
approvati. Tutto ciò è considerato naturale e nessun artista si sente menomato
o limitato nella sua libertà artistica. I ritratti prendono sempre più piede e
secondo l'importanza del personaggio se n’eseguono più repliche da distribuire
ai parenti e se ne fanno diversi nelle varie età della vita; un poco come oggi
con le fotografie. I Salons
permettono ad un grande pubblico di vedere le opere degli artisti più in voga.
Il più antico di cui sia giunto a noi il catalogo, è del 1673 e vi partecipano
anche tre donne. Grande è il loro successo. L’entrata è gratuita e vi accedono
a migliaia anche i popolani. I collezionisti arrivano a possedere centinaia di
quadri e migliaia di disegni, più un incalcolabile numero d’incisioni. Con i
resoconti delle esposizioni nasce la moderna critica d’arte, che non si trova
più sparsa all’interno degli scritti sulle vite degli artisti, ma si occupa
direttamente delle opere e si propone di rappresentare il giudizio del
pubblico.
Nelle dimore più ricche si riceve gente di continuo e gli
ospiti si presentano anche non annunciati. In particolare approfittano di
questa situazione i letterati, che passano da una all’altra casa o sono ospiti
fissi, anche per la notte. Si mangia a mezzogiorno ed alle sei e se gli ospiti
sono troppi alcuni sono sistemati anche in cucina assistiti da servi. Si
apparecchia in anticamera, non esistendo che rarissime sale da pranzo destinate
esclusivamente allo scopo, ed il maggiordomo, che nelle case di rango può
essere anche un nobiluccio con la spada al fianco, coordina i lacchè. I pranzi
sono abbondanti ed a base di carne, il venerdì e negli altri giorni di magro di
pesce, con pochi legumi e la frutta. Si mangia a capo coperto. I bicchieri non
sono sulla tavola, quando si desidera bere si fa segno ad un servitore, che
immediatamente serve; il bicchiere di vino và bevuto di un sol fiato. Sotto
Luigi XVI si abolisce la tortura e si svuotarono le carceri, tanto che i
Parigini nel famoso assalto alla Bastiglia non liberano che sette prigionieri.
La massoneria.
Molte sono le opinioni su quest’associazione e sulla sua
influenza reale o presunta negli avvenimenti di questo secolo, in cui essa
conosce un impressionante sviluppo. Alcuni elementi sono indiscutibili. Essa
annovera per tutto il secolo tra le sue file personalità di primo piano. In
Inghilterra da quando il 24 giugno 1717 le quattro logge londinesi si fondono
nella Grande Loggia d’Inghilterra e grazie all’opera di Jean-Théophile
Desaguliers, eletto gran maestro nel 1719, la massoneria azzurra comincia la
sua espansione, ad essa aderiranno via via i più importanti personaggi fino
allo stesso principe di Galles. In quindici anni essa diviene il centro della
massoneria inglese ed in trenta del mondo intero. Si aprono logge: a Mons 1721,
a Gand ’22, a Parigi ’26, in Russia nel ’31, in America ’31, a Firenze ’33, in
Polonia ’35, a Lisbona ’35, a Ginevra ’37,
ad Amburgo e Mannheim ’37, a Copenaghen ’43.
La massoneria nasce all’interno delle associazioni di
muratori (maçons), che durante il Medioevo partecipano alla costruzione delle
grandi cattedrali gotiche. I rituali d’iniziazione, l’obbligo di mantenere
celati i segreti di costruzione, il cameratismo e l’egualitarismo ne costituiscono
le basi. Col tempo in tutta Europa queste corporazioni si trasformano in
associazioni più o meno segrete. Desaguliers scrive nel 1723 le “Costituzioni
dei liberi massoni” dando un ordinamento stabile ed uniforme alle logge. Se in
Inghilterra la massoneria diviene lo strumento di sostegno della monarchia
inglese anglicana dopo gli Stuart, in Francia s’identifica con il movimento dei
lumi ed annovera fra i suoi aderenti i maggiori intellettuali dell’epoca:
Voltaire, Rousseau e Diderot, che non è certo fosse massone, ma senz’altro è
favorita dai massoni la sua maggiore opera l’Encyclopédie. In America sono massoni Benjamin Franklin e Gorge
Washington e la massoneria fornisce una parte della struttura organizzativa ed
ideale alla Rivoluzione americana. Sembra che lo stesso saccheggio delle navi
inglesi, con il successivo scarico in mare del loro carico di the, episodio
fondamentale della ribellione contro la tassazione imposta dagli inglesi ed
azione che è considerata l’inizio della rivolta, sia stato organizzato dalla
massoneria. Certamente gli ideali d’eguaglianza e di progresso propugnati dalla
massoneria sono tra gli elementi preparatori della grand’esplosione della
Rivoluzione francese. Le 104 logge esistenti, con la fondazione del Grande
Oriente di Francia nel 1772 e l’elezione del Gran Maestro, nella persona del
duca di Chartres, nel 1774, diventano nel 1789:
Il successo della massoneria è dovuto a due fattori
sostanziali. Il primo l’egualitarismo, che ponendo sullo steso piano gli
iniziati avvicina i diversi ceti al medesimo progetto; anche se per legare a se
gli aristocratici si deve arrivare all’istituzione, generalizzata dopo il 1738,
di un terzo grado, quello dei Gran Maestri, oltre a quelli d’Apprendista e di
Compagno, in cui situare l’alta aristocrazia. Il secondo è il mistero, di cui
il segreto delle logge si circonda. Questo alone d’arcano già presente nei
rituali, si accentua con la creazione delle logge del Gran Oriente, che
inserisce il mito di un’oscura origine da un antico architetto ebreo,
costruttore del tempio di Salomone ed altri elementi misteriosi di derivazione egizia,
ecc. Cagliostro crea la sua loggia in Francia nel 1785. Tali elementi
permettono la penetrazione della massoneria anche nelle aree cattoliche, da cui
il papato è fino allora riuscito a tenerla sostanzialmente fuori. La società
settecentesca è particolarmente attratta dall’essoterismo, che rimane collegato
alla ricerca alchemica della pietra filosofale, e quindi alla prospettiva di un
facile guadagno; ma la sua attrattiva scaturisce soprattutto dalla necessità di
cercare nuovi principi di riferimento, dopo la crisi delle certezze religiose e
culturali indotta dalle lotte di religione e dalle nuove scoperte scientifiche.
La massoneria assume i connotati di una vera e propria religione, non opposta
al cristianesimo, ma all’organizzazione ecclesiastica; è pervasa da uno spirito
messianico teso al progresso dell’umanità ed alla diffusione degli ideali
illuministici, propagandati direttamente o attraverso il controllo d’altre
associazioni, come: in Francia la “Società degli Amici dei Negri”, che propugna
la fine della schiavitù; od in America i “Figli della Libertà”. La sua
influenza è determinata dalla massiccia adesione dell’aristocrazia, che senza
rendersene conto, affascinata dal gusto dell’eccentrico e del mistero, prepara
la sua stessa caduta.
Lo schiavismo.
Abbiamo accennato ad uno degli ideali dell’Illuminismo,
quello dell’abolizione della schiavitù; ma in che clima culturale evolve tale
richiesta ed il parallelo mito del buon selvaggio.
Nel Settecento comincia quel processo di revisione critica,
che porterà alla dichiarazione dell’abolizione della schiavitù durante la
Rivoluzione francese.
Bisogna chiarire che le simpatie dimostrate dai philosophes illuministi indicano una reale presa di coscienza del fenomeno; ma
non sono dettate prevalentemente da pensieri umanistici o religiosi, bensì da
principi d’opportunità economica e dal riconoscimento della necessità storica
del superamento di quest’istituto.
Le rivolte di schiavi, che interessano tutto il secolo e che
si risolvono nel Marronage, ossia nella
riunione in grosse bande dei ribelli, inducono gli amministratori coloniali a
considerare il reale pericolo, che esse costituiscono per i coloni e l’economia
coloniale. Esse sono documentate costantemente, ad esempio quelle del 1720 e
del 1734 in Giamaica da Prèvost nella “Histoire
des voyages” e da Reynal per il periodo 1739-70. La prima reazione di
fronte all’estendersi delle rivolte, è il tentativo di comprenderne le cause e
di attribuirle alla spietatezza dei padroni nei confronti dei loro schiavi.
Continue sono le esortazioni agli amministratori ed ai coloni, di trattarli
umanamente, secondo il codice “negro”. Di non affamarli, di favorire i
matrimoni e di somministrare il battesimo obbligatorio. Non si mette in
discussione il principio della schiavitù, ma con la paura delle rivolte, che
provocarono la morte del dieci per cento dei bianchi, si condanna il
comportamento dissennato dei padroni “cattivi”, che con le loro angherie
costringono il negro alla rivolta. L’organizzazione in bande dei marrons costituisce una forte attrattiva
nei confronti di tutti gli schiavi. Si comincia a rendersi conto, che la
situazione sta precipitando ed a lungo andare si farà insostenibile. Esiste una
chiara connessione tra i documenti e le relazioni provenienti dalle colonie ed
il formarsi di sentimenti antischiavistici. La soluzione proposta inizialmente
è quella ad esempio dell’intendente per le colonie Poivre, che nel 1767, al suo
arrivo nelle colonie, così riassume i motivi di lagnanza nei confronti dei
cattivi padroni: “Lo spirito della legge ha permesso ai francesi di possedere
schiavi nelle colonie…Questa legge esige, che il padrone li vesta e li tratti
con umanità…tuttavia vi sono molti vecchi schiavi ai quali i loro padroni non
hanno ancora pensato di far conoscere la verità della religione…che concedono
come solo nutrimento le radici caustiche e velenose del songe che permettono
agli schiavi di andare a strappare sulle rive dei fiumi…che, infine, si vedono
nell’isola molti di questi disgraziati privi di qualsiasi veste, e che più di
milleduecento sono stati costretti a fuggire nei boschi per i maltrattamenti…Lo
schiavo, indennizzato secondo lo spirito della legge della perdita della
propria libertà con la conoscenza della religione, consolato dalla certezza
delle sue promesse, incoraggiato dalla saggezza delle sue massime, servirà il
proprio padrone con gioia e fedeltà.”. Perciò nelle ordinanze che seguono si
prescrive il battesimo obbligatorio, la proibizione di far lavorare senza il
preventivo permesso del curato la domenica e gli altri giorni di festa,
l’obbligo di somministrare due libbre di mais al giorno, e di non dare per
punizione più di trenta frustate.
E’ necessario riformare il sistema schiavistico pena il
fallimento della politica coloniale ed il grave danneggiamento del commercio,
che ormai ha assunto dimensioni troppo consistenti nell’economia borghese.
Ci si rende ben presto conto che tali palliativi non
sortiscono risultati stabili ed adeguati. Nel 1771 un articolo pubblicato da
Dupont de Nemours nella “Ephéméride” tira le somme di quanto antieconomico
risulti il sistema schiavistico. Egli afferma che nella tratta-commercio dei
neri non vi è guadagno. Basta sommare il prezzo d’acquisto, la perdita
cagionata dalla mortalità, calcolabile in dieci anni di vita utile per lo
schiavo ed in quindici per il sorvegliante, le spese per il vestiario ed il
nutrimento, le spese per l’esercito ed i pericoli connessi alla lotta contro le
rivolte, il tempo perduto, il costo delle proprietà e delle piantagioni distrutte,
il valore degli arnesi danneggiati dall’incuria, la pessima resa di raccolti
mal preparati. Tutto ciò causato dalla condizione di schiavo, che determina la
pigrizia, la cattiva volontà e la rivolta. Bessner afferma: “Non basta perorare
la causa degli schiavi in base al principio del diritto naturale” e “Lavoratori
liberi mantenuti e trattati meglio degli schiavi sarebbero più svelti e più
vigorosi. Ad una forza meccanica aggiungerebbero l’intelligenza e la buona
volontà che mancano alla maggior parte degli schiavi”. Per i filosofi
fisiocratici umanitarismo ed economia politica coincidono è dalle condizioni di
vita che dipende la qualità del lavoro. Più che un crimine la schiavitù è un
errore. Il lavoro degli schiavi non rende ed il trattamento loro riservato è
decisamente antieconomico. Allora ecco la soluzione: meglio liberarli e
trasformarli in lavoratori salariati.
Diderot dà nell’Encyclopédie
la seguente definizione di libertà: “La proprietà di sé”. E Reynal scrive:
“fino a quando non nascerà tra loro un Montesquieu, saranno più prossimi alla
condizione di uomini ragionevoli, diventando nostri contadini che non restando
nel loro paese sottomessi a tutti gli eccessi del brigantaggio e della
ferocia”.
La borghesia interviene dunque prepotentemente anche in
questo dibattito introducendo i propri principi d’economicità, contrapposti
alle pretese di differenze e superiorità razziali, continuando a demolire il
principio di distinzione per nascita.
Il mito del buon
selvaggio.
L’idea religiosa della creazione rivelata entra in crisi
allorquando gli europei, in quest’epoca di grandi esplorazioni, entrano in
contatto con le popolazioni esotiche indiane, amerinde e nere. Tali popoli non
rientrano nello spirito europocentrico delle concezioni tradizionali. La chiesa
si sforza di farli ricomprendere nella scrittura biblica, indicandoli come
figli di Japhet, di Cam o di Caino. Gli indigeni possono rientrare a far parte
della cristianità grazie all’evangelizzazione. I missionari creano il mito del
selvaggio buono, la cui vita naturale e semplice risalta paragonata alla
corruzione degli europei. Per contro “libertini” ed umanisti indicano in loro
l’esempio della superiorità della morale naturale, innata nell’uomo di là dal
credere o meno in Dio. Questi popoli non sono visti nella loro realtà, ma
idealizzati. La loro felicità nasce dalla loro ignoranza dei mali tipici della
civiltà. Nel dibattito se la felicità è propria della condizione d’uomo civile
o di quella di selvaggio, risiede il vero interesse antropologico dell’epoca.
Il selvaggio serve solo come momento di confronto e d’indagine critica della
società occidentale. La parola antropologia nasce nel 1788 a Losanna, allorché
Edouard Chavannes pubblica “Antropologie, ou science générale de l’homme”. In
precedenza antropologia è un termine usato in medicina. Ai philosophes le uniche informazioni giungono dalle relazioni di
viaggio. Tali relazioni sono estremamente frammentarie e si occupano più delle
peripezie del viaggio che della descrizione delle popolazioni incontrate. In
oltre il punto di vista è sempre quello personale del viaggiatore. Non è ancora
nato il concetto d’indagine imparziale. La visione illuminista è quindi viziata
da problemi oggettivi ed ancor più da un approccio ideologico. Nel momento in
cui s’incomincia a dedicare più attenzione all’indagine sul campo, ormai è
troppo tardi, il contatto con la civiltà ha già spazzato via tradizioni e
culture; quando non ha eliminato fisicamente le popolazioni oggetto d’indagine.
Nel 1783 Diderot scrive: “se consideriamo l’odio che i selvaggi nutrono tra
tribù e tribù, la loro vita dura e bisognosa, la continuità delle loro guerre,
le innumerevoli insidie che non cessiamo di tendere loro, non potremmo evitare
di prevedere che essi saranno scomparsi dalla faccia della terra prima che
siano passati tre secoli”. D’altronde la pietà per le loro sorti trova una sola
risposta unanime, un unico rimedio, la civilizzazione, che insieme
all’evangelizzazione diventano la giustificazione della colonizzazione. Esiste
una scala su cui distribuire l’umanità: sul gradino più alto l’europeo, cui la
storia ha dato la civiltà e sugli altri gli indigeni, barbari ed ignoranti che
la natura ha finora privato di quella che è considerata una tendenza
dell’evoluzione.
Il romanzo in Europa ed
in Italia nel Settecento.
Il romanzo costituisce nel Seicento una porzione già
considerevole della letteratura e diviene nel Settecento il genere dominante.
Abbandonato il gusto per la formula ricercata, spiritosa, aristocratica;
comincia quell’indagine psicologica del protagonista, ma anche degli altri
personaggi, tipica del romanzo borghese.
Non si giunge allo sviluppo che esso avrà nello XIX secolo,
ma gli eroi si fanno più umani, privati dell’alone d’eroismo e l’amore diventa
una condizione vergognosa ed umiliante, che s’impossessa dell’anima,
assoggettandola ai suoi voleri ed occupando il centro dell’azione.
Diderot apprezza nella pittura aneddotica, tipica di un
Greuze, i soggetti, che da soli indicano la trama di un intero romanzo. La
media borghesia colta apprezza questo genere didattico-didascalico, che sente
vicino ai suoi ideali. In vero queste scene stereotipe, con il figlio
disubbidiente e libertino contrapposto a quello buono ed onesto, le fanciulle
oneste quanto ingenue, ecc, ci offrono un’immagine preconfezionata; indice di
una considerazione tutto sommato piuttosto scarsa dei ceti elevati nei
confronti di una piccola borghesia, ritenuta chiusa in una realtà gretta e
meschina, lontana dal grande respiro degli ideali.
La pittura del '700 è insieme controprova e reagente nei
confronti del romanzo. Nella pittura di genere, che si estende in Europa a
partire da quella seicentesca olandese, ritroviamo un vero e proprio
“racconto”, che anticipa la letteratura e le si pone accanto come modello. Si
tratta di quei quadri di piccole dimensioni, raffiguranti scene di vita
quotidiana, che anche in Italia trovano espressione ad esempio in Giuseppe
Maria Crespi ed in altri, che dipingono alcuni dei momenti di vita borghese e
contadina, come la spulciatura; od in Giacomo Ceruti, detto il “Pitocchetto”
proprio per le sue descrizioni delle condizioni di vita dei popolani (chiamati
pitocchi) bresciani e milanesi; od in Pietro Longhi con le sue scene d’interni
domestici, mercati rionali e mostre d’animali rari; ecc.
Diderot ha compreso perfettamente che nell’opposizione
all’aristocrazia, questa pittura è la più adatta da contrapporre allo spirito
edonista e libertino di un Boucher; al virtuosismo vuoto del Rococò ed al suo
ideale della “art pour l’art”. Nella
condanna del libertino e del seduttore si esalta la probità e l’onestà del
borghese e si combatte la frivola alterigia dei “tiranni”. Si sta preparando il
terreno agli ideali della Rivoluzione.
In Italia il Settecento non offre grandi romanzieri. La
situazione socio-politica estremamente frammentata non riesce ad esprimere un
pubblico sufficientemente vasto ed erudito. Non è nel romanzo che si deve
cercare l’importanza della letteratura italiana, ma in Vico, Giannone, Verri e
Goldoni. È significativo dare, in una breve esposizione, uno sguardo sul
romanzo italiano, perché esplicativo del sentire comune alla società.
La pace d’Utrecht nel 1713 “ad firmandam stabilendamque pacem
ac tranquillitatem Cristiani Orbis, justio potentiae aequilibrio” (per
stabilire una pace duratura e per la tranquillità del mondo cristiano, per un
giusto equilibrio tra le potenze), sancisce il nuovo assetto europeo. Con essa
inizia di fatto il secolo. Nello stesso anno Girolamo Gigli scrive il romanzo
il “Gazzettino” nella forma epistolare delle relazioni da inviare ad un
giornale. Egli finge di descrivere
l’arrivo di una ambasciata della Cina al papa Clemente XI°; recante la
richiesta di poter sposare: “una vostra nipote, o nipote di qualche altro gran
sacerdote latino”, offrendo in contropartita, che: “i letti dei vostri
principi” vengano riscaldati: “col fuoco amoroso delle nostre Amazzoni”. Tutti
gli elementi tipici del romanzo del secolo sono già espliciti: il tema del
viaggio, l’esotismo, ed il tentativo di presentare come veri gli episodi
raccontati; dietro cui camuffare la satira politica illuminista. Egli prende
spunto dai racconti delle notizie di viaggio e delle informazioni sui fenomeni
e gli avvenimenti, che ambasciatori, navigatori, viaggiatori, giornalisti e
scienziati, avevano reso popolari sotto forma di relazioni e più frequentemente
di lettere. “Viaggi del capitano Gulliver” di Swift e la “Vita e avventure di
Robinson Crusoé” di D. De Foe (tradotti in italiano nel 1729 e nel 1757) sono
in tal senso i romanzi oggi più noti. Zaccaria Seriman scrive nel 1749 “Viaggi
di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali”, con l’aggiunta molto
significativa al titolo primitivo:
“traduzione da un manoscritto inglese”. Anche qui è evidente il tentativo di
rappresentare come autentiche le notizie riportate; anche qui il viaggio ed un
naufragio danno il via all’opera. Egli prende a pretesto la descrizione del
paese fantastico governato dalle scimmie, per esporre una critica attuale sugli
usi del suo tempo: sull’architettura“in somma l’ammasso era stravagante, e
l’artefice sembrava aver poco curato le
proporzioni,
ed in nulla la verità ch’è l’essenza di tutte le arti”, chiaro richiamo al
Classicismo contro il Barocchismo; sull’abbigliamento e la moda “hanno saputo
trovar l’arte di rendere ammirabili i difetti”; sui funerali “le consuete
visite di condoglianza, che sono un vero martirio a chi è sinceramente
addolorato, non meno che a chi non lo è per dover fingere una passione che non
sente”; sull’autoritarismo irrazionale espresso nel motto di Zoppilandia “O zoppicare o morire”;
sull’esterofilia “E’ introdotto un fanatismo fra gli Scimmiopoliti di non
stimare che le cose lontane…gli artefici eccellenti non credonsi potersi
trovare che fuori dal regno”; e via di seguito su ogni aspetto della società.
A furia di riempire i romanzi di suggerimenti filosofici si
corre il rischio di far diventare i “viaggi” trattati utopistici.
Il romanziere topico del Settecento è senz’altro Pietro
Chiari d’area veneta, indicato dalla critica conservatrice come l’esempio
d’ogni iniquità: “lordure ch’escono alla stampa in questo secolo detto
illuminato” dice, di lui e di Goldoni, Carlo Gozzi nel 1761. È lui che inizia in Italia il romanzo di
consumo. Egli rivaluta i personaggi femminili che ancora Seriman descriveva
così: “le femmine sogliono formare i loro giudizi non sopra la ragionevolezza
degli oggetti ma sopra i loro capricci”. E nella “Filosofessa italiana”
descrive le donne come erudite e sapienti, senza alcun’ombra di sarcasmo.
D’altronde esiste ormai un consistente mercato costituito dal pubblico
femminile e quindi necessario creare personaggi credibili, che consentano
l’identificazione con l’eroina. La filosofessa può quindi affermare che: “Ogni
donna ragionevole nelle sue azioni può dirsi filosofo”. Nel “Uomo di un altro mondo”
manifesta le diffuse tendenze antidogmatiche ed in questo caso anche
anticlericali: “Questi bonzi per verità in più famiglie divisi, ed in più fogge
vestiti nel Giappone non meno che nella China, m’erano stati dipinti dal mio
vecchio maestro per una razza pericolosa di gente disutile alla società,
sfaccendata, presuntuosa ed ignorante, ma che viver sapea lautamente alle spese
altrui, abusando della credulità più grossolana dei popoli con ridicole e
sempre nuove imposture”. E nella “Cinese in Europa” illustra in maniera chiara
di quanto carico ideale è ricoperta l’ideologia del viaggio, strumento di
conoscenza e d’allargamento culturale, quale fuga da una realtà vista come meschina e chiusa: “Chi non
viaggia, non vive. Antichissima egli è quest’indubitabile assioma, e le nazioni
tutte del mondo poco o molto lo fanno. Come mai se ne fa un uso sì limitato,
che gli uomini quasi tutti morir sogliono a somiglianza degli alberi, dove sono
nati?”. In un altro romanzo un robot diventa protettore e vendicatore dell’inseguita
eroina.
Il 700’ è anche il secolo degli “automi”: delle pendole con
automati, in cui meccanismi molto complessi muovono animali, personaggi od
intere scenografie, e sono collegati a scatole musicali provviste di
fischietti, di flauti, di campanelli, e perfino in grado di riprodurre versi
d’animali (come in un modello di cane, al museo de Beaux-Arts di Neuchâtel);
delle scatole musicali, che diventano veri e propri gioielli, sia quando sono
collegate a pendole, che quando sono inserite in tabacchiere, portabombons,
ecc. Gli automi sono veri e propri androidi programmabili, come in quelli
dell’orologiaio Jaquet-Droz, il massimo artefice del tempo, in grado di
eseguire scritti di quaranta parole, di disegnare o di suonare con le proprie
mani musiche al piano (visibili sempre a Neuchâtel); o i bachi in grado di
muoversi contorcendosi in maniera assolutamente naturale (visibili al museo del
Château des Monts a Le Locle).
Nel “L’uomo di un altro mondo” del 1760 Chiari riprende il
tema dell’isola raggiunta avventurosamente e sulle orme del Robinson, da poco
tradotto in italiano, sviluppa il tema avventuroso-utopistico. L’isola
rappresenta il paradiso perduto, la vita semplice e naturale, la fuga dalla
civiltà e dagli obblighi sociali “felicità chiamavamo quella mia solitudine”;
la voglia d’esotismo in un’epoca in cui le esplorazioni rappresentano la
scoperta di nuovi mondi, lo sviluppo dei commerci e delle conoscenze, ma anche
appunto avventura e fuga dalla vita civile. La fuga dell’eroina, che dà inizio
al viaggio, diventa immediatamente pretesto per una visita analitica dei paesi
esplorati, che altro non sono che trasposizioni dei vari paesi europei, e per
la critica dei loro costumi; secondo
l’uso di cui il Gulliver è l’espressione più nota. Questi di Pietro Chiari sono
romanzi di repertorio, che non valgono per il loro valore letterario, ma come
esempi di un universo romanzesco di cui sono testimonianza culturale, con: il
matrimonio d’interesse, quello per amore, l’amore per i genitori, per i figli,
l’obbedienza alle istituzioni, il far denaro, ecc.; è curioso ma in questi
romanzi nessuno lavora tranne i marinai ed i commercianti.
Antonio Piazza prosegue lo stesso filone e tocca tutti quei
temi che saranno sviluppati appieno dal romanzo dell’Ottocento; come la
contrapposizione patetica e commovente del cane nutrito e vezzeggiato al bimbo
affamato ed abbandonato, o quella di città e campagna, di buoni e cattivi, e
l’ineguaglianza dei sessi, ecc. Il Piazza introduce nella “Ebrea” del 1769 il
tema del superamento del luogo comune razzista dell’ebreo avaro e senza Dio,
facendo appunto di un’ebrea l’eroina. Tipico tema illuministico questo
dell’emancipazione, siano essi ebrei o negri. D'altronde egli è cittadino di
quella Venezia, che per prima istituì il Ghetto nel 1516, ma è anche quel
grande incrocio di razze e di costumi, che costituiscono l’essenza cosmopolita
della città. Dobbiamo citare anche il veneziano Giacomo Casanova, anche se
scrisse in francese, e non tanto per i celebri “Histoire de ma vie” e “Histoire
de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs”,
che appartengono all’altra grande invenzione del secolo il romanzo erotico; ma
per lo “Icosameron ou Histoire d’Edouard et d’Elisabeth, qui passèrent quatre
vinghts ans chez les Mégamicres …… ”( titolo per intero: “Icosameron o storia
d’Edoardo e di Elisabetta, che passarono ventiquattro anni presso gli
Mégamicres abitanti aborigeni del Protocosmo all’interno della Terra, tradotto
dall’inglese da Giacomo Casanova di Seingalt veneziano dottore in legge e
bibliotecario del Signor Conte di Du Chambellan de S.M.J.R.A.”) pubblicato a
Praga nel 1788. Già nel titolo sono indicati i classici temi del viaggio e
l’accredito di quanto raccontato, risultante sia dalla pretesa veridicità della
traduzione da un originale inglese, sia dalla qualifica di bibliotecario. Il
viaggio si svolge al centro della Terra, assoluta novità per l’Italia, e
descrive le solite avventure e peripezie degli eroi, fratello e sorella.
Interessanti sono i mezzi che porteranno alla conquista del potere da parte
loro: la nascita moltiplicativa di un gran numero di figli nipoti e pronipoti,
fino al numero di quattro milioni, nati dal loro incesto; la propaganda, grazie
alla costruzione di una tipografia. Altri elementi insoliti le invenzioni
fantascientifiche del sottomarino, dell’automobile, dell’aeroplano, della penna
stilografica. Tutto il romanzo, scritto alla vigilia della Rivoluzione, indica
la scelta di campo a favore di un capitalismo e di una monarchia illuminata.
Anche Ippolito Pindemonte è veneto e scrive al ritorno da un viaggio in Francia
compiuto nell’anno della Rivoluzione lo “Abaritte-storia verissima” nel 1799.
Il viaggio si svolge questa volta in Siberia dove sono descritte nazioni quali
la Francia, l’Inghilterra, la Germania, ovviamente camuffate sotto altro nome.
In questo caso l’autore ricorre all’espediente dell’anagramma e chiama: Nobeli
Berlino, Psiali Lipsia, Bonaratis Ratisbona, ecc, e Smerme Mesmer, Stroglioca
Cagliostro, ecc. egli affronta polemicamente tutti i temi a la page: l’assolutismo, che non condivide, ma non gli van bene
neanche i principi rivoluzionari; la fisionomia; il magnetismo; lo spiritismo;
ecc. In buona sostanza egli è un conservatore ed il mondo và bene così com’è, i
cambiamenti non cambiano nulla, che in fondo l’uomo è sempre lo stesso.
Alessandro Verri scrive il suo primo romanzo nel 1782 “Le
avventure di Saffo”. Esso comincia sempre con il ritrovamento del solito
manoscritto inedito e procede in un clima neoclassico, scritto in uno stile
classicheggiante, anche se già contaminato dal Romanticismo. Nel 1792 esce la
prima parte del suo più celebrato “Notti romane”, che in precedenza conosce una
prima versione con un altro titolo “L’antiquario fanatico”. In esso il gusto archeologico
finisce col sopraffare sia l’erotismo, che quel poco di collegato alla realtà
sociale di Saffo. Lo stile è solenne grandioso vicino alla monumentalità
piranesiana. Il secolo si chiude con le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” d’Ugo
Foscolo, prima edizione Bologna 1798, e con esso si apre ormai l’Ottocento.
Foscolo usa sia l’espansione del sentimento, che la natura: “Ho veduto ne’
pittori e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura, ma la natura
somma, immensa inimitabile non l’ho veduta dipinta mai”. Nell’Ortis l’eroe
muore, ma il suicidio se serve da esempio è utile; se il presente induce solo
al pessimismo, il futuro al contrario potrà essere migliore. Si propone
l’identità del bello come buono, ma in una prospettiva che supera il Neoclassicismo
e prelude all’eroe esteticamente superumano, aprendo la strada che porterà a
d’Annunzio ed oltre. Nello stesso anno della pubblicazione dell’Ortis nasce
Giacomo Leopardi, il Settecento è ormai alle spalle.
Gli arredi tipici del
Luigi XV.
Comode (cassettone), generalmente mossa a
balestra con il piano dritto e a volte ricoperto da una lastra di marmo,
decorata con bronzi, più frequentemente nella Reggenza, ed intarsiata, maggiormente nel Rococò. A due cassetti con
alte gambe mosse; a tre cassetti quasi a terra; a vantaux, in pratica a due sportelli celanti la cassettiera.
Semainier (settimanale), mobile verticale a sette
cassetti, per la biancheria.
Angoliera, se a sportelli senza cassetti detta anche armoire d’encoignure (armadio d’angolo),
spesso in coppia od in quattro esemplari, uno per ogni angolo.
Le comode e le
angoliere, come altri arredi, sono spesso laccate. S’impiegano le lacche
distaccate dai pannelli laccati importati dalla Cina, di cui per lungo tempo
non si è in grado di produrre un’adeguata imitazione. Finché non è stata
inventata nel 1730 la vernis Martin,
di cui si applicano oltre trenta strati.
La laccatura veneziana è sostanzialmente diversa, perché ottenuta applicando
una mano di sandracca sui colori ed i disegni realizzati su di un fondo
gessoso. Una famosa variante è rappresentata dalla così detta lacca povera,
consistente nell’applicazione di stampe, appositamente eseguite e colorate, al
posto dei disegni eseguiti a mano. Tali stampe sono realizzate in tutti i temi
possibili. Particolare importanza ebbero i Remondini stampatori bassanesi, di
cui ci sono pervenuti i cataloghi originali.
I Bureau:
Bureau plat, scrivania con piano sagomato,
fascia, provvista di cassettini, ed alte gambe mosse.
Bureau a gradin. Come il precedente, con in più da un
lato sul ripiano una cassettiera.
Secrétaire à pente. Come il precedente con la
cassettiera posta sul piano, che lo occupa interamente ed i cassetti nascosti
da una ribaltina, che aperta diventa piano di scrittura; a volte senza gambe,
ma con i cassetti sotto il piano che arrivano fino a terra, tipico modello
molto diffuso in Italia con il nome di ribalta.
Secrétaire à cylindre. Come il precedente ma con il piano estraibile e la ribalta cilindrica
rientrante a scorrimento od a serrandina, composta di listelli.
Secrétaire-armoire. Come il precedente con una stretta
alzata provvista di due sportelli, forniti di specchi. Assunse poi il
definitivo nome di trumeau. Termine,
che in origine designava lo spazio tra due finestre o due porte, poi lo
specchio, che fu posto in detto spazio, successivamente indicò la consolles con
specchiera con la medesima collocazione, ed infine il tipico mobile in esame. I
più raffinati sono quelli veneti, spesso arricchiti sulle cimase da elementi
decorativi intagliati e dorati.
Altri arredi connotano tutto il secolo. Si tratta di mobili
leggeri in cui sono posti in particolare evidenza i supporti.
Il letto a la polonaise
è la vera invenzione del Luigi XV; e rimane quello tipico del periodo
neoclassico. Era disposto con il lato più lungo a muro. Altra sua
interpretazione è il letto alla turca, fatto come un grande divano. La stanza
da letto da parata resta solo per le grandi famiglie e soprattutto nell’appartamento
femminile, tanto da sparire quasi completamente in Inghilterra a partire dalla
metà del secolo. Marito e moglie generalmente continuano ad avere appartamenti
separati ed è rarissimo trovare letti gemelli destinati alla stesa camera;
mentre in Inghilterra, nonostante che ognuno abbia il proprio appartamento,
frequentemente i letti singoli sono nella stessa camera. Dietro alla camera da
letto femminile trova posto il Boudoir, piccolo ambiente molto intimo e spesso
arredato in maniera licenziosa. Nel 1727 è pubblicato un “Manuel des boudoirs” in cui l’autore dietro il pretesto di
mostrare le storie scandalose delle giovani signore d’Atene, descriveva luoghi
senz’altro a lui assai più vicini. I domestici si dovevano tenere nelle
vicinanze per svolgere le mansioni loro richieste; per farli muovere il più
discretamente possibile sono ricavati diversi passaggi e corridoi di servizio.
Poco prima della metà del secolo l’avvento del campanello legato ad un cordone
(la sonnete) permetterà di chiamare i
domestici solo all’occorrenza, senza più averli costantemente vicini a portata
di voce, con grande vantaggio della privacy.
Nella camera erano anche collocati svariati tipi di tavolini:
tables de chevet con alte gambe mosse, fungono da
comodino.
Tables de lit, contenenti quanto serve per scrivere
o per truccarsi, con corte gambe, adatti per essere appoggiati a cavallo della
persona sul letto.
È anche eseguita una versione comprendente le due precedenti,
in cui il table de lit è incastrato,
sovrapposto ed estraibile all’occorrenza sul table de chevet, con cui forma un corpo unico.
Vi sono poi tavolini, sovente con il piano di marmo, da tè,
caffè e da colazione.
Una ringhierina, in metallo dorato intorno al piano,
caratterizza quelli servitori, detti a cabaret(
a vassoio).
Il tavolo tondo compare all’inizio del secolo successivo e
nel 1810-12 Ortensia si vanta d’essere la prima donna in Francia a collocarlo
al centro del salone per appoggiarvi il lavoro di cucito. Tale disposizione
diverrà presto abituale, favorita dal miglioramento dei mezzi d’illuminazione,
che permetteranno di riunirvicisi intorno; grazie all’invenzione verso il 1780
della lampada d’Argand, che era costituita da un serbatoio per l’olio posto
sopra al corpo principale contenente lo stoppino, protetto da un tubo di vetro,
che era alimentato per caduta. Per evitare l’ombra proiettata dal serbatoio si
costruirono lampade a due stoppini simmetrici. Tuttavia fino oltre il 1820 essa
è bandita dalle case importanti, con la motivazione che la luce prodotta è
troppo forte e tale da poter arrecare danni alla vista. Si continuano ad
utilizzare ovunque candele di cera e comuni lampade ad olio; in America esse
sono alimentate con quello di balena.
Le consolles si
distinguono per il raffinato gioco di curve e controcurve, con sagome mosse e
gambe a capriolo; spesso sormontate da specchiere eseguite con la stessa
decorazione e ornate da splendide cimase intagliate e traforate.
Il settore della mobilia più vasto e senz’altro più
significativo del Settecento è costituito da quello dei sedili. Come abbiamo
accennato a differenza del secolo precedente, in cui i sedili sono tappezzati
pesantemente, ora prevalgono i vuoti. La struttura è a vista, favorita da
solidi incastri. Le gambe sono, sempre sagomate, spesso nella forma che è
definita a zampa di capra, terminante con un piccolo zoccolo d’appoggio,
vengono più raramente unite da traverse, che dal 1725 sono via via eliminate.
Nel punto di congiunzione tra il piede e le traverse la modanatura crea un
piccolo triangolo, in cui si ricava un motivo intagliato. I sedili sono divisi
in due categorie. Quelli detti alla reine
d’apparato, destinati ad arredare le pareti, decorati con motivi analoghi a
quelli della boiserie, hanno lo
schienale dritto e spesso non sono lavorati sul retro, che non è destinato ad
essere visto. E quelli di dimensioni più ridotte, spostabili, maggiormente
utilizzabili. Risulta evidente la corrispondenza dei due tipi di sedili ai
principi della distribution e della convenance. Il rispetto del primo è dato
appunto, soprattutto per le poltrone d’apparato, dall’uniformità della
decorazione e dalla disposizione finalizzata ad aumentare l’effetto
ornamentale. Quello del secondo è riscontrabile principalmente nelle sedie
d’uso, in cui lo schienale è anatomicamente avvolgente e sufficientemente alto
da sostenere la schiena, ma non tanto da disturbare le elaborate acconciature.
In oltre si tiene conto delle necessità della moda, infatti in molte poltrone i
braccioli ed i loro sostegni sono leggermente arretrati rispetto alle sedute,
per consentire alle dame di sedersi comodamente nonostante le gabbie a paniere
di stecche di balena, che sostengono le gonne. Esemplare in tal senso è la
poltrona detta cabriolet, in cui
tutta l’intelaiatura è a vista e si snoda sinuosa senza interruzione di
continuità, incorniciando il sedile e lo schienale imbottiti e terminando con
le gambe mosse a capriolo. In essa ritroviamo sia un’altezza adeguata dello
schienale, sia l’arretramento dei braccioli. Altro modello fondamentale è la bergère, in cui l’imbottitura riempie
ogni spazio collegando lo schienale al sedile ed ai braccioli; pur continuando
a mostrare interamente la struttura lignea che la incornicia. Inoltre un
cuscino imbottito estraibile poggia sul sedile. Esistono varianti significative.
La confidente, che presenta lateralmente
alla sommità dello schienale due orecchie, per consentire sia di appoggiarvi la
testa, sia di proteggere il viso dall’irradiazione diretta del camino. La voyeuse o pointeuse, che è provvista di un appoggio imbottito sulla sommità
dello schienale al fine di permettere ad una persona in piedi di appoggiarsi da
tergo con i gomiti; permettendogli di partecipare alla conversazione o come,
indica il nome, di puntare le proprie poste al tavolo da gioco. Anche in questo
caso è evidente l’adesione ai principi della convenance e della distribution.
Per lo studio le poltrone sono spesso rivestite di canna
d’india, con appoggiato un cuscino.
Il divano trae la sua origine dalla necessità di rendere più
confortevoli le panche e le cassapanche rinascimentali; ed è direttamente
influenzato dalla tipologia orientale da cui deriva. La bergère si dilata e diventa l’ottomana o canapé, totalmente imbottito anch’esso e sorretto da sei od otto
piedi.
La veilleuse è
imbottita come il canapé, ma presenta
uno schienale discendente, che collega un bracciolo più alto ad uno più basso;
è il modello di divano più asimmetrico.
La duchesse
presenta tre varianti: la chaise longue,
una bergère cui si aggiunge un ampio
sgabello a sostegno delle gambe (soluzione oggi molto utile per guardare la
televisione); la chaise longue duchesse che aggiunge alla precedente
un'altra bergère; la duchesse brisé, in cui i tre elementi
sono divisi ed utilizzabili separatamente.
La scelta tra la duchesse
e la veilleuse dipende solo dalla
preferenza per una maggiore o minore simmetria dell’arredo. Altro modello, di
derivazione piemontese, è il divano a ventaglio, così denominato per i
caratteristici braccioli a grandi volute estroflesse.
Gli arazzi non sono più sospesi indipendenti, ma sono
inseriti all’interno di cornici; diventando anch’essi semplice elemento
dell’arredo. A causa della concorrenza con gli altri materiali usati per
addobbare le pareti, essi si riducono di dimensione ed adattano il soggetto
alle esigenze d’armonizzazione con il resto dell’arredo. La parte figurata si
restringe al centro, spesso entro un medaglione. Le fasce laterali imitano una
cornice a trompe-l’oeil su cui si appoggiano vari elementi decorativi.
Scompaiono quasi totalmente i soggetti di carattere storico, sostituiti da quelli
esotici, ispirati all’India, alla Cina, al Medioriente. Le fabbriche si
moltiplicano in tutta Europa ed anche in Italia dal Regno di Napoli a quello di
Sardegna, a quello Pontificio; occupando il posto dell’arazzeria fiamminga, che
con la fine del secolo scompare definitivamente, e di quella fiorentina chiusa
dal 1737. L’arazzo interromperà la sua secolare storia con la Rivoluzione, per
riprendere, in forme spesso meccanizzate, nel secolo successivo.
I pavimenti sono rivestiti con vari materiali come nel secolo
precedente. Si ricorre principalmente al parquet di legno. Una novità è
costituita dal rivestimento di maioliche. Anche in questo caso i motivi
decorativi si semplificano e si riducono di dimensioni. Sono anche eseguiti in
stucco tinto e decorato da svariati motivi dipinti.
Le sete a grand’opera, in cui predominava Lione, quelle
cinesi, come anche le tele dipinte, occupano uno spazio sempre maggiore.
Costantemente raccordate alle tappezzerie dei mobili, si prestano, montate su
telai, ad un utilizzo più agile; sia che rivestano muri in cattivo stato, sia
che ricoprano decorazioni murali di gusto superato. Dal 1720 le finestre sono
corredate dalle tende, sono in uso quelle a due drappi, ma si preferiscono
quelle a pacchetto, che si aprono verso l’alto. In Inghilterra alla metà del
secolo saranno in voga quelle a due teli, fermate e drappeggiate ai lati della
finestra. In generale le tende servivano a addolcire la riquadratura delle
finestre e ad attenuare la luce del sole, ma non a proteggere dagli spifferi; a
questo scopo provvedevano le tende del baldacchino, che creavano un ambiente
chiuso e ridotto, adatto a trattenere il calore. Alla fine del secolo è
inventato il sistema d’apertura tuttora in uso, che permette tramite carrucole
di aprire e chiudere le tende tirando un cordone. Spesso la tappezzeria, sia
parietale che degli arredi, cambia a seconda che sia inverno, arazzi e velluti,
od estate, sete e taffettà di cotone; in tal caso a questo scopo i telai dei
sedili, degli schienali e dei braccioli sono rimovibili. Nei palazzi
particolarmente sfarzosi si possiede addirittura un arredo estivo ed uno
invernale ed i solai sono attrezzati per immagazzinare il mobilio a rotazione e
per contenere quanto necessario all’arredo, come ad esempio le stoffe per la
sostituzione di quelle deteriorate.
I sedili disposti contro il muro non sono di norma rivestiti
sul retro o lo sono con tessuti più modesti. Alla fine del secolo si diffondono
le foderine di cotone per coprire e proteggere le sedie. Di fatto i tessuti sono, dal punto di vista
tecnico, gli stessi della fine del Seicento, ma i colori ed i disegni mutano
con la moda. I disegnatori di Lione cambiano deliberatamente i disegni delle
stoffe ogni sei mesi, per incrementare i consumi di moda; esattamente come
oggi. È significativo che a Lione i diritti sui modelli dei disegni durino
venticinque anni per i tessuti da tappezzeria e solo sei per quelli
d’abbigliamento, indicando palesemente il tempo massimo di produzione prima di
passare di moda e la diversa frequenza del loro rinnovo.
Grande diffusione conoscono i tappeti, non più prodotti
esclusivamente per la Corte, essi sono fabbricati da nuovi opifici oltre che
alla Savonnerie. La decorazione è simile a quella degli arazzi.
Ad Aubusson ed a Beauvais nasce un nuovo tappeto ad
imitazione di quelli caucasici, lavorati ad ago, ed in cui, essendoci un solo
ordito, i vari elementi tessuti sono raccordati da cuciture. Altro elemento
caratteristico è costituito dalla necessità di lavorare alla rovescia davanti
ad uno specchio al fine di vedere il verso anteriore del tessuto, che è dalla
parte opposta a quella da cui si lavora. Genericamente chiamati Aubusson, con
essi si rivestono a misura non solo le superfici murali, ma anche i sedili.
Dalla seconda metà del secolo comincia la produzione delle moquettes, decorate
a motivi regolari, in strisce, che bisogna poi cucire insieme, facendo
attenzione a far ben coincidere il disegno; si può anche riquadrarle con
apposite bordure. Nell’area anglosassone si utilizza per rivestire i pavimenti
una tela cerata dipinta, che si ridisegna quando i decori sbiadiscono; essa
sarà sostituita alla fine dell’Ottocento dal Linoleum.
Rarità e gusto del prezioso portano alla realizzazione di
splendidi rivestimenti parietali in porcellana, con l’inserimento d’arredi pure
ricoperti di essa. Un elemento caratterizzante è senz’altro lo specchio,
isolato od utilizzato per coprire intere pareti, che non solo moltiplica le
immagini, ma soprattutto accentua i riflessi delle dorature, delle lucenti
porcellane, delle lampade e delle lucide sete. È elemento fondamentale in
ambienti in cui la luce riveste un’importanza primaria. Si creano anche grandi
specchi curvi per gli angoli delle stanze. Il secolo dell’edonismo pare
identificarsi con lo specchio. L’illuminazione non è affidata a lampadari
appesi centralmente al soffitto, ma ad appliques
murali, che inviano la luce rasente ai muri aumentando l’effetto delle ombre e
favoriscono la riflessione frontale sugli specchi. Nell’illuminazione non si
fanno per tutto il secolo grandi progressi ad eccezione della lampada ad olio a
riverbero, munita di un riflettore, inventata
nel 1749. Grande è l’uso, soprattutto in Italia, delle ventole: specchierine
che riflettono la luce di bugie applicate sul davanti in basso.
L’arte vetraria assume grande importanza, non solo nella
produzione delle suppellettili da tavola, ma soprattutto nella produzione dei
prismi per le lampade, che accentuano l’effetto baluginante di riflessione
della luce nell’ambiente, creando un effetto liquido, quasi psichedelico.
La manifattura veneta ha perso la posizione di dominio del
secolo precedente ed oltre alla Francia, che ormai la sopravanza nella
fabbricazione degli specchi (vedi scheda tecnica, gli specchi da camino), vede
affermarsi la produzione boema del cristallo.
Il camino diviene nel Settecento elemento decorativo
fondamentale. Già dalla fine del Seicento con Berain esso era stato compreso in
complesse boiseries, aveva assunto dimensioni più ridotte ed era stato spesso
sormontato da uno specchio; ma ora, costituendo uno dei pochi elementi
strutturali non amovibili e non soggetti a trasformazioni dovute alla
variazione del gusto, la sua decorazione assume un carattere speciale. La bocca
è chiusa, quando non lo si utilizza, da un pannello con un decoro armonizzato
con il resto della stanza. Sulla mensola sono sempre presenti oggetti
ornamentali e pendole in bronzo dorato, destinati a riflettersi
nell’onnipresente specchiera. Tutta una serie d’accessori lo addobbano: alari
provvisti di splendide mostre (i feux), completi da camino con palette e pinze
forgiate e decorate da impugnature lavorate splendidamente, parascintille,
vasche esterne per evitare la dispersione della cenere, ecc. In Inghilterra i
feux saranno sostituiti da griglie a causa della diffusione del carbone come
combustibile. Tutti i materiali sono impiegati: porcellana, bronzo dorato,
argento, acciaio lavorato, ecc. questi accessori possono essere sostituiti col
variare del gusto, ma sovente, essendo accompagnati allo stile del camino, sono
sopravvissuti fino ad oggi. Le stufe raramente entravano negli ambienti di
rappresentanza. Quelle in ceramica conoscono una grande diffusione in Austria,
Scandinavia e Germania; quelle in ghisa in America, famose quelle migliorate a
doppia camera ideate da Benjamin Franklin nel 1742.
Nelle suppellettili il Rococò trova il suo vero campo
d’azione. Il cambiamento non riguarda le tipologie, ma si rivela eclatante
nella decorazione. Nell’oro, nell’argento, nella porcellana, nel ferro
forgiato, nel vetro e soprattutto nel bronzo argentato o dorato si esprime
tutta l’arte, il gusto del capriccio, la ricerca parossistica di plasmare
oggetti, che sembrano fatti di luce.
Dai manici delle posate, ai candelieri, alle maniglie, agli
alari, ecc, ovunque le linee si torcono o si raggrumano in stupefacenti motivi
simili a stalattiti, su cui poggiano improbabili figurine. Il bestiario esotico
si mostra con tutta la forza dell’immaginifico: elefanti, scimmie, dromedari e
cammelli, rinoceronti, leoni, ecc. Poi tutto il repertorio mitologico: sfingi,
arpie, sirene, satiri, ecc. Il posto d’onore è riservato ai motivi ispirati
dall’Oriente, con i sui cinesini ed i suoi turchi.
Le maniglie di bronzo dorato diventano vere opere d’arte, ed
anche nelle aree periferiche assumono grande rilievo decorativo e danno prova
della fantasia dei bronzisti.
L’oro non è riservato solo ai gioielli, ma anche al
vasellame, che come quelli è fuso, sbalzato e cesellato. L’argento è ancora più
amato. Luigi XIV è stato costretto, durante la grave crisi della fine del
Seicento, a fondere perfino i mobili realizzati in argento massiccio, per
fronteggiare la penuria verificatasi di
tale metallo e potere battere moneta, onde pagare il soldo alle truppe; ma nel
Settecento Luigi XV farà nuovamente eseguire arredi in argento massiccio. Anche
il bronzo è spesso argentato, ma pochi sono i pezzi giunti fino a noi (sulle
cause di tale rarità vedi la scheda tecnica, doratura ed argentatura a fuoco).
Una vera novità è costituita dalla porcellana (vedi scheda
tecnica, la porcellana), che sostituisce i lavori preziosi eseguiti in
precedenza in avorio, materiale utilizzato in misura molto minore nel
Settecento che in precedenza. Inventata a Meissen nel 1708, essa è utilizzata
dapprima per il vasellame, decorato a motivi di cineserie, di paesaggi e di
piccole marine. Con lo scultore J. J. Kändler si dà esecuzione al progetto
d’Augusto il forte di decorare con statue, con animali e grandi vasi di
porcellana il suo palazzo. Da allora diviene usuale fabbricare anche piccole
figurine. Un oggetto tipico è il pot-pourri,
ottenuto montando in metallo un vaso di porcellana munito di coperchio, in modo
da ricavare fra il corpo ed esso una galleria traforata attraverso cui può
filtrare l’odore delle misture, che vi sono collocate. Tali misture sono
preparate dai profumieri, mischiando varie piante e fiori in acqua di fiori d’arancio e possono essere
anche molto costose. Un modo più economico di profumare l’ambiente si ottiene
bruciando, su appositi bruciaprofumi, cordoni e pastiglie composti di sostanze
odorose. Altro oggetto in voga è la fontana, realizzata montando, su di una
terrazza di metallo, un vaso di porcellana, cui è stato inserito alla base un
rubinetto.
Cristopher Conrad Hunger porta attraverso Vienna il segreto
della porcellana a Venezia, dove dal 1720 Vezzi apre la sua manifattura,
seguita da quella Cozzi nel 1764. A Napoli è nel 1734 che viene aperta la
manifattura di Capodimonte. A Firenze, erede delle ricerche medicee, quella del
marchese Carlo Ginori a Doccia nel 1734. Fino al 1768 a Parigi continua la
produzione esclusiva di porcellana in pasta tenera, ma anche se in ritardo, con
lo spostamento della manifattura reale a Sèvres, la porcellana in pasta dura
francese conquista il primato Europeo; grazie anche all’uso di fondi dai colori
brillanti, in cui sembrano ritagliate le riserve bianche, che inscrivono le
decorazioni pittoriche, prevalentemente alla Bouchet. Famosi il gros bleu, il rosa Pompadour, il bleu céleste, il jaune jonquille ed il verde pomme.
Anche lo smalto continua ad occupare un posto di rilievo.
(vedi scheda tecnica, lo smalto)
Notevole importanza assume la fabbricazione dei ventagli, che
costituiscono un elemento indispensabile dell’abbigliamento e caratterizzano
tutto il secolo con il loro misterioso linguaggio. (Vedi il saggio sul
ventaglio).
La maggior parte delle lastre di marmo per i piani dei mobili proviene
dall’Italia, come pure di quelli in scagliola. Si diffonde anche l’uso di
collocare ovunque vasi di fiori e quando la stagione non li rende disponibili
si utilizzano fiori finti, la cui fabbricazione diviene una vera e propria
industria.
I mobili tipici del
Luigi XVI.
Sostanzialmente essi mantengono le stesse dimensioni e le
medesime finalità d’uso di quelli rococò. Muta l’aspetto nel senso di una
maggiore linearità ed essenzialità della decorazione.
La comode, come in
precedenza continua a presentare due o tre cassetti od i due sportelli. Cambia
la forma, abbandonando le sagome mosse a balestra, con i fianchi sempre dritti.
Il fronte può essere: dritto, leggermente bombato, dritto con una bombatura
centrale, dritto con le parti
laterali a semicerchio (demie-lune mezzaluna);
negli ultimi due modelli due gambe sono poste agli angoli posteriori e due sul
davanti, lungo la curva, spostate più centrali a delimitare i cassetti, che
sono posti nella parte centrale, mentre lateralmente possono esserci due antine
celanti ripiani. I bronzi dorati continuano a proteggere gli spigoli ed a
decorare gli angoli e possono costituire oltre alle bocchette delle serrature,
alle maniglie, alle cornici ed alle ringhierine anche elementi scultorei a se
stanti posti sui montanti; essi sono spesso a forma di colonna scanalata, le
cui unghiature sono ricavate intagliate nel legno a vista o rivestite da
cornici di bronzo dorato; quando la parte inferiore della scanalatura è in
parte riempita da un listello a mezzo-tondo si chiama rudentata. Le gambe
generalmente sono tronco-coniche rovesciate con all’estremità una tornitura a
rocchetto e terminanti a terra con un elemento tornito piriforme, sempre
scanalate come sopra descritto; o tronco piramidali rovesciate, riquadrate alle
estremità da cornici, scanalate o con le quattro facce incorniciate e spesso
decorate da motivi floreali intagliati.
Bisogna rilevare, che il piede a tronco di piramide semplice,
privo di decorazioni e scanalature fa parte del periodo successivo, essendo il
risultato delle semplificazioni del Direttorio e dell’evoluzione verso forme
cubiche rettilinee post rivoluzionarie. Lo stesso discorso vale per le
carcasse. I mobili cosiddetti Luigi XVI, squadrati e con le gambe a piramide,
tipici della produzione italiana, sono prodotti nella maggior parte dei casi
nell’Ottocento e spesso dopo la fine dell’Impero; rientrando già nel sentimento
di ritorno al passato e di rifiuto della produzione napoleonica, tipico della
Restaurazione, dopo il congresso di Vienna.
Restano in auge: il Semainier
o settimanale, l’angoliera e tutti i
tipi di bureau, presenti nello stile
Rococò. Sempre con i piedi e le gambe Luigi XVI descritte in precedenza; e
soprattutto nei mobili scrittoi con forme lineari e geometricamente più
regolari.
Nei secrétaire assistiamo
alla scomparsa dei modelli precedenti, compreso il prestigioso trumeau, ed alla nascita del secrétaire à abattant. Questo mobile,
per la complessità della costruzione e la ricchezza dalla decorazione, subentra
per prestigio al trumeau e si presta
a ricevere la decorazione bronzea e l’intarsio, presentando a tale scopo
diverse superfici piane. Sulla sommità il piano di marmo, di norma in bianco di
Carrara, può essere racchiuso da una ringhierina bronzea. L’ abattant, gli sportelli inferiori ed i fianchi
sono rettangoli piani, adatti alla decorazione; come pure la fascia sottopiano
in cui è celato un cassetto. In particolare gli angoli sono formati da fasce
inclinate a quarantacinque gradi, che rendono il mobile trapezoidale, e possono
ricevere oltre all’intarsio, alle cornici ed ai motivi salva spigoli di bronzo,
sculture in rilievo e perfino a tutto tondo; rivelandosi particolarmente adatti
alle erme, lesene, ghirlande, ecc, che costituiscono la caratteristica del
repertorio decorativo neoclassico. Nei modelli più correnti gli angoli sono
invece a forma di colonna scanalata, come descritto in precedenza. Troviamo
frequentemente in pendant col secrétaire
un cassettone con caratteristiche strutturali e decorative simili.
Nei letti il discorso è analogo a quello fatto per i
cassettoni. Non vi sono novità di rilievo, né nella forma, né nella
disposizione; muta sempre solo la decorazione. Segnaliamo il ritorno del letto
a colonne, destinate a sostenere il baldacchino e l’uso frequente di
posizionare i letti in nicchie ricavate nella parete. Una novità è costituita
dal letto all’anglais, simile ad un
grande divano a ventaglio, alle cui estremità sono posti due cuscini
cilindrici; e da cui evolverà il letto a bateau,
tipico dell’Impero. Si comincia a collocare uno specchio sopra al letto contro
il tetto del baldacchino, per ottenere un effetto erotizzante; uso abbandonato
quando il ministro delle finanze Colonne rischiò di essere tagliato in due in
seguito dalla caduta di uno di essi. Con la diffusione delle carte dipinte
panoramiche, c’è chi, per ottenere un effetto analogo, circonda il letto, posto
di fronte alla finestra, di specchi in modo da sembrare essere immersi nel
verde.
I tavolini sono presenti ovunque, con le forme e le
destinazioni più varie: a mezzaluna, a fagiolo, cilindrici, rotondi,
rettangolari con gli angoli smussati, ecc; per colazione, da lavoro, scrittoi,
per la toilette, ecc. Quasi tutti presentano un’analogia costruttiva,
costituita dai montanti a forma di parallelepipedo, che si prolungano nelle
gambe affusolate, il tutto spesso in un sol pezzo; sempre decorati, come già
descritto, da bronzi o da colonne scanalate. Essi continuano ad essere
generalmente disposti a muro e spostati all’occorrenza.
La consolle è
sempre di forma rettangolare con angoli smussati, a mezzaluna o semicircolare.
Le gambe sono come quelle già descritte,
ma si aggiunge, per aumentarne la stabilità e l’impatto decorativo, un raccordo
a crociera allineato nella parte posteriore al muro e sovrastato al centro da
un elemento decorativo, normalmente una mezza anfora, appoggiato alla parete e
ornato da festoni. Tali festoni ornano anche la cintura sotto il piano, sia che
celi o no un cassetto, centrando un motivo intagliato, spesso un paniere. Al di
sopra è collocata la specchiera, anch’essa con andamento lineare, è sovente
sormontata da un nodo d’amore.
Le specchiere da camino sono a volte sagomate in tre parti:
due rettangoli uguali laterali ed uno centrale più alto e più grande, la cimasa
con un motivo decorativo intagliato a festoni raccorda il dislivello; anche le
lastre di specchio sono spesso divise alla stessa maniera e poste semplicemente
accostate.
Nei sedili permane la divisione tra quelli da parete e gli
altri. Il mutamento più significativo è sempre quello riguardante la
decorazione, che assume motivi neoclassici negli intagli; e soprattutto nelle
gambe dove è adottato il tronco di cono o di piramide come descritto in
precedenza, anche se ad esempio Luigi XVI non adotterà mai sedili con gambe o
schienali rettilinei. Nelle sedie e nelle poltrone da centro notevoli
innovazioni sono portate alla decorazione degli schienali, che ora sono spesso
a giorno, con cartelle traforate a forma di: lira, covone, paniere, mongolfiera
cestino floreale, anfora, ecc.
Dalle pareti tendono a scomparire le boiseries, sostituite
dalle tempere murali e dai pannelli di stucco d’ispirazione archeologica o
rinascimentale, scompartiti da elementi decorativi architettonici appiattiti
come le colonne ed i pilastri. Spesso tali elementi architettonici sono
eseguiti in papier mâché, ed in Inghilterra si utilizzano
anche fusioni di stagno dipinte. Il
tutto trattato con il gusto dell’ebanista, che spesso le esegue, piuttosto che
con quello dell’architetto. Le decorazioni a grottesche, adottate per primi
dagli inglesi intorno al 1760 (Wiliam Chambers le illustra nel 1769 nel
trattato “Treatise on the Decorative Part of Civil Architecture”), riprendono
direttamente quelle antiche, anche se prevalgono i colori chiari e le tinte
tenui; con esse dal 1780 si decora qualunque superficie rettangolare verticale,
dalle pareti, alle posate, sia in Inghilterra che in Francia. I pannelli di
stoffa continuano ad occupare un posto di rilievo, ma con decori ispirati
all’antico; sempre coordinati alle tappezzerie degli arredi. In Inghilterra le
imbottiture sono più squadrate e ad angoli vivi; per tenerle ferme si fissavano
con punti fermati da batuffoli, come nei materassi. Questo sistema assumeva
anche una valenza decorativa, che evolverà nell’Ottocento nel capitonné. In
Francia tale metodo non era utilizzato fino al 1770, quando il Neoclassicismo
squadrerà a sua volta le imbottiture; oggi nel rifare le tappezzerie dei sedili
ci si dimentica di tale sistema decorativo. I sedili più confortevoli erano
corredati di cuscini imbottiti di piuma, ma anche di crine, di stoppa (il
capecchio) e d’altri materiali. Le molle fanno la loro sporadica comparsa fin
dal 1760, ma è dalla loro produzione industriale dopo il 1830 che divengono
d’uso frequente. Si afferma l’uso della carte dipinte, soprattutto per gli
interni residenziali, e nascono i primi cicli decorativi, anche se le
dimensioni ancora ridotte dei fogli di carta obbligano a complesse
disposizioni, chiamate a domino. Solo nell’Ottocento la manifattura Doufour
creerà rotoli continui, come nelle moderne carte da parati. L’onnipresenza
delle dorature ci ricorda che siamo ancora nel pieno del gusto Ancien Regime. Dal 1780 si fabbricano carte dipinte con colori
brillanti, ad imitazione dello chintz e delle sete lionesi, a motivi
neoclassici. C’erano anche delle bande, simili ai galloni di seta, utilizzate
per scompartire pareti a tinta unita e carte stampate a motivi trompe-l’oeil di
cornici di stucco, di statue neoclassiche e d’interni neogotici. Grazie sempre
ai due fratelli Remondini, Giovanni Antonio e Giovanni Battista tipografi di
Bassano, Venezia è la prima città d’Italia ad usare tappezzerie di carta
impressa. A loro è concesso il 25 settembre 1755 il privilegio ventennale per
la stampa di “carte damascate e vellutate ad uso di fornimenti di camera”.
L’abate Marco Fassadoni ci fornisce e i seguenti ragguagli: “Per fare queste
carte si tigne in prima la carta del colore che si vuole stemperare nella
colla, la quale lo rende lucente, e questo forma il fondo dell’opera. Dopo vi
s’imprime sopra il disegno con forme di legno simili a quelle degli stampatori
di tele indiane. Ciò fatto si spargono sopra delle raschiature di panno fino
del colore che si voglia, in appresso si scuote la carta e le raschiature che
vi restano appiccicate formano il rilievo vellutato dell’opera, né si
distaccano altrimenti che raschiandole fortemente con un coltello. Questo
lavoro è uguale in gran parte a quello che si fa con le tappezzerie fatte di
tosatura di lana”.
Le carte dipinte ed i nuovi tessuti di cotone stampato
portano negli ultimi venti anni del secolo alla crisi delle più costose sete
lionesi.
I soffitti sono quasi sempre vuoti, non affrescati e decorati
da semplici cornici.
Con la Rivoluzione, fino all’avvento di Napoleone, si
costruiscono pochi nuovi edifici. Il primo esempio importante del nuovo stile
Direttorio, è la ridecorazione interna della casa del banchiere Récamier nel
1798, su disegni di Louis-Charles Percier. Durante la fase rivoluzionaria,
molti ebanisti, compromessi con l’aristocrazia per la quale avevano lavorato,
si rifugiano all’estero. Quelli rimasti restano privi della clientela
tradizionale e la generale mancanza di denaro, all’infuori che per i fornitori
dell’esercito e gli speculatori, strangola il mercato dei beni di lusso. Si
vuole allora produrre il primo arredo fabbricabile in serie per il popolo,
inteso come borghesia, semplice, lineare ed economico; contrapposto a quello
dell’Ancien Regime, che è reso dalle
decorazioni e dalla forma mossa, eseguibile solo singolarmente. A ciò si
aggiunge la tendenza ideologica verso una semplicità spartana e razionale.
L’arredo diventa perfettamente squadrato, parallelepipedi lisci e privi di
decorazione, eseguiti, in massello od impiallacciati, con legni locali: noce,
ciliegio, olmo, rovere, ecc. Le gambe ed i piedi sono semplici tronchi di
piramide rovesciati. È quest’arredo Direttorio, che oggi spesso è scambiato
come già detto con quello Luigi XVI, che fornisce i volumi di base al mobile
impero; al quale si aggiungono, i piedi ferini, e la placcatura di scuro
mogano, per meglio far risaltare l’ornamentazione bronzea. Stessa derivazione
per quello restaurazione, influenzato dal Biedermeier, realizzato anch’esso in legni
locali, con decori in lamierino ed elementi ebanizzati.
Conclusione.
Il secolo cominciato sotto il potere fermo ed assoluto dei
Borboni ed il fiorire del capriccio, si conclude con la Rivoluzione ed il
trionfo della linea e della razionalità. Sembra confermarsi il concetto secondo
cui: un momento storico di stabilità permette e favorisce un’arte movimentata,
inquieta ed una società gaudente; un periodo pieno di sconvolgimenti e
d’incertezza, pare viceversa esigere un’arte controllata, razionale ed una società
seria ed impegnata. Certo in ciò avvertiamo netto il passaggio dalla mentalità
parassitaria dell’aristocrazia a quella produttiva della borghesia; ma ancor
più la conferma della necessità di contrasti ed opposizioni sempre utili al
cambiamento ed al progresso dell’uomo.